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NBA: “Non ci sarà mai più un altro Michael Jordan”

NBA
Michael Jordan annuncia il suo (secondo) ritiro: è il 13 gennaio 1999 (Foto Getty)
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Esattamente 18 anni fa - il 13 gennaio 1999 - Michael Jordan annunciava il suo (secondo) ritiro dal basket. Doveva essere l'ultimo, e non lo fu, ma la leggenda n°23 dei Chicago Bulls scrisse in quel momento la pagina finale di una carriera inimitabile. Parole e immagini per rivivere un momento storico

“Lo stiamo rifacendo ancora, per la seconda volta”. Così, con queste parole forse quasi un po’ imbarazzate, esattamente 18 anni fa — era il 13 gennaio 1999, con la NBA che aveva appena messo la parole fine all’impasse di un atroce lockout durato 206 giorni, formalizzata ufficialmente una settimana dopo — Michael Jordan annunciava il suo ritiro dal gioco. Secondo ritiro, andrebbe specificato — perché appunto, lo aveva già fatto una prima volta, il 6 ottobre 1993, solo trentenne e all’apice di una straordinaria carriera che gli aveva appena regalato il (primo) threepeat con i suoi Chicago Bulls. Allora — aveva detto — gli era venuto meno il desiderio di giocare a pallacanestro, per le pressioni e lo stress accumulato negli anni e per la scomparsa del padre, da poco assassinato (anche se tra i motivi dell’addio qualcuno insinuava brutte storie di scommesse). Ma 18 anni fa, quel 13 gennaio 1999, era diverso, questa volta l’impressione è che fosse davvero per sempre anche se poi per sempre effettivamente non fu, col ritorno in maglia Wizards del 2001. A rivederlo oggi, esattamente 18 anni dopo, quello rimane il vero ritiro di Michael Jordan, perché il 23 rimarrà per sempre declinato nelle menti di tutti gli amanti della pallacanestro in rosso e in nero, con le corna dei tori sullo sfondo, e mai col blu-bianco-oro degli Washington Wizards. 

Una fine leggendaria — E poi che uscita di scena, la migliore che qualsiasi atleta, di qualsiasi sport, potesse sognare. Salt Lake City, finali NBA, gara-6, Bryon Russell, quel braccio che rimane in alto, il polso perfettamente spezzato, la palla che va ad accarezzare la retina. Game-set-match, gioco-partita-incontro e di più, fine di una carriera. Un altro threepeat, un altro titolo di MVP delle finali (ovvio) e un altro momento di sport da inserire di diritto tra i più belli di sempre, tra i più emozionanti, tra i più leggendari. Going out on top, si dice negli Stati Uniti, uscire di scena al massimo, al vertice della propria carriera, e più top di quello sinceramente viene difficile anche solo immaginarlo. Per cui stavolta — la (allora) moglie Juanita alla sua destra, il proprietario dei Bulls Jerry Reinsdorf e il commissioner NBA David Stern al tavolo con lui — Jordan raccontava al mondo come una certa spinta al ritiro gliel’avesse data la “stessa stanchezza mentale” denunciata nel 1993, ma accompagnata questa volta da qualcos’altro: “Non credo di sentire più dentro di me lo stesso desiderio di sfida, la stessa voglia di competizione: so che dal punto di vista individuale, per quello che riguarda la mia carriera, ho raggiunto ogni obiettivo che volevo raggiungere”. 

Le parole di un addio — A rileggerle oggi le parole di quella conferenza stampa suonano molto sincere, quasi trasparenti, un Jordan tutto sommato convinto davvero di essere alla fine della corsa e quindi disposto anche ad affidare a telecamere e taccuini dei media di tutto il mondo i suoi veri pensieri. Come quel suo “questo rimarrà sempre un grande se…” riferito alla possibilità che se i Bulls avessero confermato Phil Jackson in panchina forse lui non avrebbe mollato; come quel parere onesto sulle due dinastie Bulls, quella del primo threepeat (1991, 1992, 1993) e poi quella del secondo (1996, 1997, 1998): “La prima squadra è stata più forte, ma è stata molto più difficile l’impresa di vincere il secondo threepeat”. E poi l’ammissione di quel “love for the game” che da clausola nel suo primo contratto — che gli permetteva di giocare quando e come avrebbe voluto, anche al di fuori di allenamenti e partite previste in maglia Bulls — è diventato negli anni un mantra spesso ripetuto per spiegare quella meravigliosa ossessione di Jordan verso il gioco. “è difficile abbandonare qualcosa che ami — le parole di MJ, al tavolo della conferenza stampa — il mio desiderio nei confronti di questo gioco ci sarà sempre”. Così, di fronte alla domanda su una possibile retromarcia, un cambio di opinione che lo riportasse in campo, Jordan risponde “no”, ma aggiunge subito: “Mai dire mai, ma al 99.9% sono molto sicuro della mia decisione”. Quello 0.1% avrà tre anni dopo la maglia degli Washington Wizards, “perché è il mio 0.1%, non il vostro”, rivendicando già allora la libertà di scegliere in autonomia. 

Unico — Infine, forse più di tutte, le parole che risuonano ancora oggi sono quelle che riguardano quella che in America è definita legacy, l’eredità lasciata al gioco, il proprio posto nella storia. “Non ci sarà mai più nessuno come Michael Jordan. Come non ci sarebbe mai più stato nessuno come Dr. J., io lo sapevo benissimo. O come Elgin Baylor. Per cui, tra tutti i campioni di domani non ci sarà mai nessuno come Michael Jordan. Possono esserci i Grant Hill, gli Anfernee Hardaway, i Kobe Bryant. Ma Michael Jordan è Michael Jordan”. E aveva ragione lui.