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NBA, la corsa al premio di MVP: James Harden

NBA

Dario Vismara

Nel primo dei nostri pezzi dedicati ai candidati MVP di questa incredibile stagione, analizziamo la candidatura della stella degli Houston Rockets

Vi è mai capitato di fissarvi su una canzone e di ascoltarla in maniera ossessiva, repeat dopo repeat dopo repeat, senza mai stancarvene? In un certo senso, la stagione di James Harden assomiglia allo stesso lungo spartito ripetuto in un loop continuo, con variazioni sul tema che non cambiano la sostanza dell’esperienza generale. Trentello dopo trentello (34 in questa stagione, con 11 escursioni sopra quota 40 e due oltre 50), doppia doppia dopo doppia doppia (56 in stagione, nessuno come lui) e tripla doppia dopo tripla doppia (19, sarebbe il massimo degli ultimi 40 anni se non ci fosse Russell Westbrook…), James Harden ha fatto della continuità ad altissimo livello il suo marchio di fabbrica, concedendosi solo una volta due partite in fila sotto i 20 punti e mai nessuna sotto la doppia cifra. Lo stesso grande spettacolo mandato in campo ogni sera, prendendo in mano il pallone e imponendo la sua legge sugli altri nove giocatori sul parquet insieme a lui. Perché  quando gioca James Harden si gioca la sua pallacanestro, e agli avversari resta davvero poco da fare per impedirgli di raggiungere gli obiettivi che si è prefissato. Come quello di vincere il premio di MVP che gli è sfuggito due anni fa.

Gli ultimi due anni — Sembra passata una vita, ma solamente nella stagione 2014-15 Harden non era poi lontano rispetto da quello che è ora, tanto che i suoi colleghi giocatori lo avevano votato come MVP al posto di Steph Curry nella prima edizione dei “Players’ Award”. Un esperimento che sembrava fatto apposta per premiare la sua stagione, culminata con un viaggio alle finali di conference che, in retrospettiva, sembra quasi più un incidente che il risultato finale di una reale crescita. Quella versione dei Rockets, infatti, era incredibilmente discontinua tanto nel bene quanto nel male, toccando il suo picco con la quasi-eliminazione contro i Clippers (sotto 2-3 nella serie e con Harden talmente fuori da Gara-6 da finire in panchina nell’ultimo quarto) trasformata in una rimonta incredibile, concretizzata poi nella vittoria in Gara-7 che ha spalancato loro le porte della serie con gli Warriors. Quel gruppo è poi imploso nella scorsa stagione, indicata da tutti i protagonisti come la peggiore delle loro carriere, nonostante un ottavo posto agguantato nel finale e poi rapidamente suggellato da un’eliminazione per 4-1 al primo turno contro Golden State. Lo scorso anno Harden — pur registrando i massimi in carriera per punti, rimbalzi e assist — non venne nemmeno nominato per uno dei tre quintetti All-NBA dopo esserci finito nei precedenti tre anni. Sembra incredibile pensarlo ora che il suo nome viene inserito nel calderone dei candidati MVP, ma in effetti la scelta dei giornalisti era giusta: Harden, come ammette ora, era in un periodo strano della sua vita personale (ad esempio frequentando Khloé Kardashian…), era ai minimi storici nel suo rapporto con Dwight Howard (distaccandosi anche dal resto dei compagni) e non aveva mai difeso così male in tutta la sua carriera (non che le altre stagioni fossero state sfavillanti…).

La svolta estiva — Harden aveva bisogno di una svolta, e quella svolta è arrivata nel corso dell’estate con il notevole atto di fiducia che i Rockets hanno fatto nei suoi confronti: prima hanno scelto un allenatore adatto alle sue caratteristiche come Mike D’Antoni, quindi hanno firmato dei tiratori perfetti per allargargli il campo e quindi gli hanno proposto un’estensione di contratto da 118 milioni di dollari in quattro anni. Dal canto suo, il “Barba” ha risposto presentandosi nelle migliori condizioni atletiche della sua carriera, con una rinnovata leadership nei confronti dei compagni e con una incondizionata fiducia nel sistema costruito per lui da D’Antoni, che fin dalla pre-season lo ha definito “la nostra point guard” (ruolo che in realtà Harden ha sempre ricoperto di fatto, al di là delle etichette), gli ha messo il pallone nelle mani, lo ha reso leader indiscusso dello spogliatoio e lo ha liberato da ogni costrizione. Il risultato è stato quanto di più simile si possa trovare a un lupo che viene lasciato scorrazzare in mezzo a un branco di pecore. Come dichiarato da un capo allenatore NBA nell’eccellente profilo di Lee Jenkins su Harden: “L’anno scorso la squadra era un casino totale; ora sono tutti sulla stessa pagina. James Harden è diventato Steve Nash — se Steve Nash fosse sotto steroidi”.

Nashing — Nel ruolo “del Nash”, Harden è diventato il più inarrestabile attaccante di questa stagione. Nessuno come lui riesce a bilanciare le doti di realizzatore (29.4 punti a partita con il 66% di percentuale reale, quella che prende in considerazione il diverso peso dei tiri liberi e delle triple) e quelle di distributore (leader della lega con 11.2 assist a gara, oltre il 50% degli assist quando è in campo sono suoi), mettendo continuamente le difese davanti a delle scelte impossibili. Quando i Rockets sono al loro massimo, sono un cubo di Rubik a cui nessuno è ancora riuscito a trovare una soluzione, perché riescono ad allargare il campo nelle tre dimensioni: in orizzontale (con gli angoli del campo sempre occupati), in verticale (con la costante minaccia sopra il ferro di Clint Capela) e in profondità (con tiratori piazzati anche due metri oltre la linea nelle triple frontali). Grazie a tutto questo enorme spazio a disposizione, Harden può attaccare costantemente da una posizione di vantaggio che sfrutta in maniera quasi sadica, inducendo le difese a concentrarsi su di lui per far partire un passaggio-laser verso un tiratore oppure ubriacando di palleggi i poveri lunghi che se lo ritrovano davanti. Un dominio tecnico e mentale sulla gara spaventoso, che il Barba ha raccontato così a Sports Illustrated: “Clint [Capela] mi porta un blocco alto, perciò so che il mio marcatore è già andato. A quel punto davanti a me ho un lungo in uno contro uno, perciò tengo la testa alta per capire cosa sta succedendo e chi può liberarsi. La mia prima opzione è per il lob verso Clint. La seconda, se uno dei difensori aiuta e si stacca a centro area, è per una tripla in angolo. La terza, se nessuno si stacca, è di arrivare fino in fondo per un sottomano. Se qualcuno ruota, la passo di nuovo fuori e cerco di costruire una tripla in quel modo. Tutto viene fatto in qualche decimo di secondo, non c’è niente di predeterminato. Sembra veloce, ma quando succede, nella mia testa tutto si muove al rallentatore”. La testa di un giocatore di scacchi, con il jolly dello step-back più letale di tutta la lega quando non riesce a creare nulla e una straordinaria capacità di guadagnare falli dagli avversari (ben 108 in questa stagione solo sui tentativi da tre punti).

 

Verso l’MVP — Oggi Harden è un giocatore felice, perfettamente calato in un contesto in cui tutto sembra finalmente funzionare nel modo giusto e lanciato verso il premio di MVP, da giocarsi fino all’ultimo giorno di regular season con altri candidati più che meritevoli come Russell Westbrook, Kawhi Leonard e LeBron James. Un ordine finale “giusto” non esiste, al massimo le loro candidature possono essere messe una di fianco all’altra e pesate. Quella di Harden è dell’attaccante più completo di tutta la lega, capace di essere creatore tanto per sé quanto per i compagni sera dopo sera dopo sera da ormai 71 partite filate, senza mai saltarne una. Una macchina da pallacanestro inesauribile, capace di trascinare recentemente i compagni con due triple doppie ai 40 punti in serate consecutive in trasferta (da New Orleans a Denver, quasi 2.000 km di distanza) anche quando il resto della squadra sembrava attraversare un fisiologico momento di calo fisico, dopo l’eccellente cavalcata tra dicembre e gennaio con 20 vittorie in 22 partite. Mettendo assieme tutto quanto — importanza per il successo della squadra, eccellenza personale, cifre, record, continuità da inizio stagione, senso di onnipotenza che si percepisce quando è in campo — è difficile trovare una stagione più “valuable” della sua. Se poi sarà abbastanza per meritarsi anche il premio di MVP sfuggito due anni fa, lo scopriremo solo alla fine di questa incredibile corsa al premio di miglior giocatore della lega.