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NBA, Carlos Santana: "Warriors mix di eccellenza, eleganza e grazia"

NBA

Mauro Bevacqua

Per quasi 50 anni anima e cuore della Bay Area californiana, Carlos Santana spende parole davvero bellissime per gli Warriors di coach Kerr: "Questa squadra è capace di convincere il mondo intero che unità e armonia possano coesistere"

OAKLAND — Carlos Santana non è una presenza nuova, né alla Oracle Arena, né nella Bay Area. Ospite degli Warriors, il grande chitarrista nato in Messico ma ormai cittadino americano è anzi un abbonato alle gare-2: a lui Golden State ha affidato l’esecuzione dell’inno della seconda partita di serie finale sia nel 2015 (sconfitta in overtime) che nel 2016 (larga vittoria) e a lui ancora una volta ha chiesto di interpretare Star Spangled Banner anche prima della gara-2 di quest’anno. Un paio di ore prima della partita, Santana — il cui nome trova posto tanto nella Hall of Fame del rock di (beffardamente) Cleveland che nella Walk of Fame su Hollywood Boulevard — si è concesso in esclusiva ai microfoni di skysport.it partendo proprio dal rapporto speciale che lo lega alla città di San Francisco e agli Warriors “Anche se oggi vivo a Las Vegas — ci ha raccontato — è come se io e San Francisco respirassimo all’unisono. Ho vissuto qui fin dal 1963, qui è dove è rimasto il mio cuore e gli Warriors sono una squadra che mi ispira, soprattutto questo gruppo che fa del collettivo la sua forza. Sono un mix di eleganza, eccellenza, grazia e dignità”. Di Golden State — e del basket in generale, a dire il vero — si professa assolutamente tifoso: “I primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Doctor J [Julius Erving] e Kareem Adbul-Jabbar ma mi ricordo bene anche il primo titolo degli Warriors nella Bay Area. Era il 1975, un anno meraviglioso, di grande crescita — ricordo che Marvin Gaye andava fortissimo con Got To Give It Up. Oggi si respira un’energia diversa, c’è un’unione collettiva differente, ma proprio questa squadra è capace di convincere il mondo intero che unità e armonia possano coesistere. Non è una coincidenza che questo tipo di feeling trovi casa ancora una volta qui in California: questa squadra è un mix di lavoro duro, coraggio, trasparenza e coerenza”.

Un inno per tutti

“Per me suonare l’inno nazionale è come versare dell’acqua per nutrire la terra. Il mio inno non è un simbolo dell’America bianca o degli Stati Uniti come potenza militare. Il mio inno è per tutti: nativi americani, portoricani, irlandesi… Spesso quando sento eseguire l’inno mi sembra suonato in rappresentanza soltanto di qualcuno e non di altri mentre io lo suono per tutti: io rappresento tutti i colori dell’arcobaleno”. Colorata, nella sera di gara-2, anche la chitarra usata — tutta dorata: “Una Paul Reed Smith”, racconta orgoglioso, da cui tira fuori suoni caldi e lancinanti assieme, forse memore di essere stato testimone, nel lontano 1969 sul palco di Woodstock, di quella che forse rimane la più leggendaria interpretazione dello Star Spangled Banner, eseguita da Jimi Hendrix distorcendo il suono della sua chitarra fino a farlo assomigliare a quello delle sirene che riecheggiavano significati di dolore e morte associati alla guerra del Vietnam, al tempo di atroce attualità: “Oggi la frequenza che percepisco è diversa — ci racconta — non è più come allora. Ricordo che Woodstock fu la prima volta che realizzai come in questo pianeta ci fossero abbastanza persone per nulla disposte a seguire politici come Richard Nixon, Lyndon B. Johnson o Ronald Reagan — e magari oggi Donald Trump. Noi volevamo seguire soltanto il nostro cuore — conclude — non dei dittatori”. E, fatto l’occhiolino, se ne va.