La superstar di Golden State ha fatto sapere chiaramente che se il presidente Trump dovesse invitare gli Warriors a celebrare il titolo NBA alla Casa Bianca lui non sarà della spedizione: "Non sono d'accordo con quello che dice e pensa, finché ci sarà lui in carica non potremo vedere nessun progresso"
Le parole pesano come macigni, ma Kevin Durant le ha pensate a lungo, prima di pronunciarle: “No, se dovesse invitarci alla Casa Bianca io non andrò a rendere visita a Donald Trump. Non lo rispetto come presidente, non sono d’accordo con quello che dice e pensa e attraverso questo gesto voglio che la mia opinione sia chiara a tutti”. Un’opinione — aggiunge subito la superstar dei Golden State Warriors — strettamente personale, “che non riflette la posizione della società”, “ma se conosco bene i miei compagni sono sicuro che saranno d’accordo con me”.
Il rifiuto di Durant di prendere parte alla consueta visita alla Casa Bianca dei campioni NBA — a cui gli Warriors peraltro non sono ancora stati ufficialmente invitati — ha un significato ancora maggiore per un ragazzo cresciuto a meno di 20 chilometri dalla residenza presidenziale USA, nei sobborghi di Washington (Seat Pleasant, Maryland) e che, per sua stessa ammissione, ha “sempre sognato fin da bambino di portare il Larry O’Brien Trophy sui gradini della Casa Bianca”. Un desiderio che però oggi si scontra con l’ingombrante presenza nello Studio Ovale di Donald Trump, inviso a gran parte della comunità afroamericana e anche recentemente criticato da diversi giocatori NBA (non ultimo LeBron James).
Le ragioni di un rifiuto
Il calendario NBA da poco annunciato vede i Golden State Warriors in visita agli Washington Wizards il 28 febbraio 2018; solitamente le squadre NBA utilizzano la trasferta nella Capitale per rendere omaggio al presidente USA e organizzare la consueta visita alla Casa Bianca. Se l’allenatore dei californiani Steve Kerr ha incoraggiato i suoi giocatori a riflettere sull’opportunità della visita (“in un momento così difficile, potrebbe essere un gesto bellissimo mostrare rispetto verso l’istituzione della presidenza, verso il governo”), Durant potrebbe non essere l’unico a scegliere di snobbare l’eventuale invito (Steph Curry e Andre Iguodala sono stati molto critici verso le azioni e le parole del presidente Trump). “Da quando è stato eletto — anzi, da quando è sceso in lizza per la presidenza — il nostro Paese è più diviso che mai, e non può essere una coincidenza”, le parole di KD. “Con Barack Obama presidente le cose sembrano andare per il meglio, ma con Trump abbiamo imboccato una strada pericolosa. Tutto parte dal leader e a mio avviso finché non sarà fuori dalla Casa Bianca noi non vedremo nessun tipo di progresso”. Durant non è la prima superstar sportiva afroamericana ad affrontare con decisione temi sociali e politici e proprio a chi ha fatto sentire la sua voce prima di lui il n°35 degli Warriors vuole rendere omaggio: “Noi atleti abbiamo una voce che può essere ascoltata da molti — ha detto Durant — e sono grato che gente come Colin Kaepernick [l’ex quarterback dei San Francisco 49ers che si era rifiutato di alzarsi in piedi all’inno nazionale USA, ndr] LeBron James, Carmelo Anthony, Chris Paul e Dwyane Wade abbia dato il via a questa discussione — anche Russell Westbrook ha trattato il tema in un suo discorso pubblico. Per continuare a progredire c’è bisogno che sempre più persone, anche atleti, facciano sentire la propria voce. Quello che è successo a Charlottesville è incomprensibile”, ha concluso. E su questo non c'è nessun dubbio.