In Evidenza
Tutte le sezioni
Altro

Per continuare la fruizione del contenuto ruota il dispositivo in posizione verticale

NBA, Griffin Story: è finito l’amore tra Blake e i suoi Clippers

NBA

Stefano Salerno

Una storia lunga nove anni, fatta di voli ben oltre il ferro, sconfitte ai playoff e aspettative mai completamente mantenute: Blake Griffin è la cosa migliore che sia capitata ai Clippers in 40 anni di storia e da oggi non fa più parte della franchigia

Condividi:

Blake Griffin ha significato tante cose per i Clippers, talento cristallino in grado di invertire una tendenza che durava da decenni sulla sponda meno vincente di Los Angeles. È stato la prima cosa giusta (in effetti era davvero difficile sbagliare al Draft del 2009) dopo stagioni costellate di errori, sfortuna e incapacità di gestione. Anche se l’infortunio che gli fece saltare per intero il primo anno da professionista sembrava ricordare a tutti ‘sono sempre i Clippers, eh! Non vi illudete’. Un giocatore che fa dell’atletismo il suo punto di forza si spacca di netto la rotula del ginocchio sinistro nell’ultima gara di preseason: un segnale perverso lanciato dal destino. Questo però non ha impedito al numero 32 di spiccare letteralmente il volo una volta sceso sul parquet. Nella sua prima vera stagione in maglia Clippers le cifre (e non solo quelle) sono impressionanti: 22.5 punti, 12.1 rimbalzi, 3.8 assist, premio di rookie dell’anno vinto a mani basse e soprattutto 214 schiacciate in testa a qualsiasi tipo di avversario. Un record che diventa segno distintivo, un marchio appiccicato addosso che col passare del tempo diventa condanna. Uno stereotipo che spesso non  permette all’osservatore meno attento di grattare sotto la superficie e guardare al vero spessore di un All-Star completo come pochi. La partita simbolo resta quella contro i New York Knicks: il festival della schiacciata, un All-Star Game completo in meno di due quarti, con l’apice raggiunto nell’inchiodata sulla testa di Timofey Mozgov. Con un passo o poco più di rincorsa Griffin esplode verso l’alto, entra in contatto con il corpaccione del centro russo e magicamente continua a spingersi ancora più su. La fase ascendente dura un paio di secondi di troppo, ma evidentemente la forza generata dai quadricipiti è anomala così come la giocata che viene fuori. L’opposizione di un lungo da 215 centimetri diventa trampolino di lancio e non ostacolo, in una serata in cui a finire dalla parte sbagliata del poster è anche Danilo Gallinari. A 22 anni Griffin è il giocatore più stimolante ed eccitante dell’intera NBA.

L’arrivo di Chris Paul e delle vittorie: i Clippers diventano "Lob City"

Bastano 82 partite per convincere il free agent più corteggiato dell’intera lega ad accasarsi con lui: Chris Paul sbarca a Los Angeles (magari non con indosso i colori della squadra che aveva scelto) e la tendenza cambia definitivamente. I Clippers diventano un gruppo in grado di vincere tante partite, capaci di farlo con regolarità, seguendo le indicazioni di coach Rivers e affermandosi come una costante nella lega. La parentesi playoff è sempre un fallimento, ben al di sotto delle aspettative di una squadra che per qualche anno non ha paura di pronunciare la parola “titolo NBA”, nonostante non riesca neanche a conquistare una finale di Conference. La costante resta la capacità di volare oltre il ferro a proprio piacimento: nessuno riesce a giocare a quelle altezze e Paul-Griffin-Jordan diventano un terzetto a cui i losangelini non vogliono certo rinunciare. La situazione scappa di mano nell’estate 2015, quando Jordan vacilla, dice di voler andare a Dallas, prepara la valigia, è pronto per i saluti e poi ci ripensa. Una trattativa di mercato in cui Griffin e Paul recitano un ruolo fondamentale nel convincere il numero 6 a non andare via. “Restiamo insieme e proviamo di nuovo a vincere”: il contrattone per Jordan arriva, ma non le vittorie a maggio per altri due anni, dopo i quali in scadenza si ritrovano gli altri due. A quel punto lo scenario è totalmente cambiato. L’idillio è finito, come raccontano le parole di questa estate di Austin Rivers; una delle tante vittime della spietata resa dei conti dell’ultimo mese: “La dinamica che si era creata in spogliatoio con Chris Paul era diventata deleteria. Non so spiegare il perché: nessuno sapeva più chi fosse il leader, a chi rivolgersi e con chi interfacciarsi. Il problema era che non capivamo se fosse possibile chiedere conto a Blake, se questo avrebbe fatto arrabbiare qualcun altro. Dobbiamo lasciarci alle spalle tutti questi problemi: adesso sappiamo chi è il nostro leader. Siamo tutti con Griffin”.

L’incomprensibile voltafaccia e lo scambio con i Pistons

Questo infatti resta il nodo principale della questione: come è possibile in sei mesi cambiare direzione in questo modo?  Qui abbiamo provato a dare alcune risposte, ma restano tanti dubbi. Durante la cerimonia organizzata allo Staples Center per convincere Griffin a firmare il prolungamento da 171 milioni di dollari dopo la partenza di Chris Paul, la dirigenza dei Clippers non ha badato a spese. E non ha nascosto le proprie intenzioni: rendere Griffin il giocatore simbolo dei prossimi dieci anni. Messaggio ribadito dal video tributo in cui si immaginava una cerimonia del ritiro della maglia nel 2029 dopo 20 anni di carriera a Los Angeles, con tanto di prove per alzare sul soffitto dell’arena il suo numero 32. Tutto era cambiato rispetto a poche settimane prima: “Si sentiva in maniera chiara la pesantezza che ci circondava nell’ultimo periodo – racconta a novembre il diretto interessato -. C’era così tanta negatività attorno a noi che aveva portato la situazione al punto in cui c’erano divieti ovunque, consigli e richiami per qualsiasi cosa. Era un meccanismo che continuava a buttarci giù. Penso che in quei momenti apparivo come una persona che non si stava divertendo poi tanto e magari questo era dovuto al fatto che quelle sensazioni erano vere”. Una bordata non da poco, arrivata però dopo aver firmato un accordo duraturo, dopo aver deciso di caricarsi un’intera franchigia sulle spalle. Tutto chiaro fino alla cronaca delle ultime ore, in cui il colpo di mano di Jerry West (in molti ipotizzano ci sia il suo zampino in questo scambio) segna un punto di non ritorno: l’era Doc Rivers è ufficialmente finita. Fare dei bilanci sarebbe prematuro, oltre che come spesso accade un’operazione che può risultare parziale e imprecisa. C’è un passaggio di un pezzo di Lee Jenkins su Sport Illustrated dello scorso novembre che spiega bene il tutto, che fissa quantomeno i presupposti da cui partire: "L’era di Lob City è stata un disastro per i Clippers soltanto per chi giudica senza mettere in prospettiva storica quanto raccolto negli ultimi anni. Una franchigia che non aveva mai vinto 50 gare nella stessa stagione rompe questa maledizione per cinque stagioni in fila. Una squadra in grado di conquistare in un lustro più qualificazioni playoff di quanto fatto nei 30 anni precedenti, con lo Staples Center tutto esaurito per 280 partite consecutive. Un roster composto finalmente da veri campioni e che ha generato per la prima volta dei veri tifosi, attirando non soltanto l’attenzione dei fan dei Lakers che si divertivano a tifare contro. Grazie a questa squadra un’intera generazione di losangelini non ha memoria dei tempi in cui i Clippers erano la barzelletta della lega”.