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NBA, come giocheranno i nuovi Detroit Pistons con Blake Griffin?

NBA

David Breschi

La squadra di Stan Van Gundy ha fatto un grosso investimento sul talento dell'ex Clippers: ecco come si inserisce al fianco di Andre Drummond e come possono dare l'assalto ai playoff della Eastern Conference.

Con una mossa a sorpresa che ha lasciato tutti a bocca aperta si è conclusa un’era per Blake Griffin e gli L.A. Clippers: la dirigenza californiana ha schiacciato il pulsante rosso per radere al suolo “Lob City” dopo le macerie lasciate da Chris Paul e ha ceduto il giocatore più forte della storia della franchigia ai Detroit Pistons assieme a Willie Reed e Brice Johnson in cambio di Tobias Harris, Avery Bradley, Boban Marjanovic, una prima scelta 2018 (protetta top-4) e una seconda 2019. La trattativa è stata portata avanti in gran segreto e ha preso quota nel weekend: il solito Adrian Wojanorowski di ESPN è stato il primo a rivelare lo scoop ed iniziano a filtrare indiscrezioni che parlano di un approccio tra le due squadre coinvolte risalente a una settimana fa. I Pistons in questo modo si aggiudicano un giocatore che in passato è stato convocato cinque volte per l’All-Star Game e tre volte è stato nominato per il secondo quintetto NBA, che deve compiere ancora 29 anni e che in questa stagione stava producendo 22.6 punti di media conditi da 7.9 rimbalzi con il suo massimo in carriera di 5.4 assist a sera.

Al suo ottavo anno nella lega, Blake Griffin è un giocatore affermato e nel pieno della sua maturità cestistica. Nei suoi primi anni NBA viveva di esplosività e prepotenza fisica, volando frequentemente sopra il ferro per schiacciare in testa a chiunque si frapponesse tra lui ed il canestro. L’idea che in molti si erano fatti era di un giocatore estremamente atletico ma tecnicamente grezzo, il più classico dei “tutto fisco e niente tecnica” - un’etichetta che Griffin ha fatto fatica a togliersi di dosso fino a un paio di stagioni fa.

Dopo i primi exploit nelle aree colorate ha iniziato ad affinare il suo gioco allontanandosi progressivamente dal canestro: da rookie il 98% delle sue conclusioni era da due punti e il 70% dei suoi tiri venivano presi nel pitturato; oggi ha esteso il suo raggio di tiro alla linea dei tre punti - tira quasi 6 volte a gara da tre punti, triplicando i tentativi rispetto allo scorso anno - ed in totale quasi il 40% dei suoi tiri è preso fuori dall’area dei tre secondi.

La sua evoluzione tecnica l’ha portato a fronteggiare il canestro non solo per tirare - le sue percentuali dalla media distanza e da tre punti sono leggermente sotto la media NBA -, ma soprattutto per creare gioco da point forward, completando l’agognata trasformazione da ala forte vecchio stampo in qualcosa di più moderno, in grado di sopperire nel tempo al declino fisico che ha iniziato a manifestarsi anche per i ricorrenti problemi di infortuni.

Oggi Blake Griffin è uno dei primi 25 giocatori della lega a stare larghi ed è sicuramente tra le migliori power forward - nella stessa fascia dei vari Draymond Green e LaMarcus Aldridge, per citarne alcuni - eppure il suo passaggio a Detroit, dopo lo stupore iniziale, è stato accolto tiepidamente dagli addetti ai lavori. I motivi sono essenzialmente due: la sua storia clinica e il contratto da 173 milioni in 5 anni firmato lo scorso luglio.

Inutile girarci attorno: Blake Griffin si rompe spesso. Ha saltato l’anno da rookie per la rottura della rotula del ginocchio sinistro, se lo è infortunato nuovamente durante la preparazione alle Olimpiadi di Londra nel 2012 e nella stagione 2015-16 è toccato al ginocchio destro. Poi, quando è tornato disponibile, si è fratturato la mano tirando un pugno a un amico-magazziniere dei Clippers fuori da un ristorante a Toronto in circostanze non ancora del tutto chiare. La scorsa stagione ha dovuto dare forfait durante i playoff per la rottura dell’alluce del piede destro e lo scorso 28 novembre ha subito un nuovo infortunio al ginocchio sinistro che lo ha costretto a saltare ben 14 partite. Secondo quando riportato da David Aldridge di NBA.com, uno dei motivi principali che hanno portato il proprietario Steve Ballmer a cedere la sua stella è stato proprio l’ultimo infortunio al ginocchio e la fragilità del nativo dell’Oklahoma. Più in generale, dopo aver saltato quattro partite nelle prime quattro stagioni giocate, nelle successive tre è stato fuori per 83 partite - in pratica un’intera regular season.

Quando in estate ha rinnovato la sua promessa di matrimonio verso i Clippers, ben remunerato dai 173 milioni in 5 anni, è diventato il secondo giocatore più pagato della NBA dietro a Steph Curry.  Nel suo nuovo accordo aveva sacrificato la “No Trade Clause” in favore di un quinto anno garantito in player option dal valore di circa 39 milioni che teoricamente avrebbe reso “incedibile” il suo contratto fino alla sua naturale scadenza.

Poi sono arrivati i Pistons, che stanotte lo faranno debuttare nella sfida interna con i Memphis Grizzlies.

Cosa ha spinto i Detroit Pistons a puntare su Blake Griffin?

I Pistons partivano già con un salary cap ingolfato e pressoché nessuna flessibilità salariale futura per aggiungere pezzi funzionali a un roster che andava riprogettato quasi da zero. Di fatto, delle tre strade possibili per migliorare un roster - la free agency, il Draft e gli scambi - a Stan Van Gundy ne rimaneva solamente una: l’ultima. Con queste premesse, quando ti capita di poter prendere una stella, uno dei primi 25 giocatori NBA, corri il rischio, comprometti un futuro già incerto e vivi nel presente sperando che tutto vada per il meglio.

Come dice Zach Lowe di ESPN, Jeff Bower e Stan Van Gundy si sono assicurati una sorta di “super mediocrità” nella Eastern Conference, un futuro di potenziali apparizioni ai playoff con picchi da 50 vittorie, senza mai competere realmente per l’anello o per i vertici della Conference. Si tratta dello stesso percorso intrapreso dagli Atlanta Hawks quando misero sotto contratto Joe Johnson nel 2005: un limbo che nella NBA attuale non è visto di buon occhio, ma che per i Pistons era l’unica via percorribile per il contesto culturale, sociale ed economico in cui si trovano. Negli ultimi nove anni Detroit ha fatto i playoff solo una volta - nella seconda stagione di Van Gundy a Motor City, uscendo subito contro i Cleveland Cavaliers - e viene da una stagione disastrosa che ha minato le fragili fondamenta costruite dall’ex coach dei Magic.

Il record iniziale di 14-6 con cui si erano presentati questa stagione lasciava presagire una ritrovata fiducia nell’ambiente, salvo poi precipitare a 22-26 complice il grave infortunio di Reggie Jackson, entrando in una spirale di otto sconfitte consecutive chiusa mercoledì notte in casa contro i Cleveland Cavaliers. Al momento Detroit è fuori dai playoff dopo aver accarezzato il 4° posto a est, a due partite di distanza dai Sixers che occupano l’ottava e ultima posizione disponibile per la post-season.

La loro necessità e urgenza di fare i playoff li ha spinti a una mossa così estrema che di fatto ha annientato ogni margine di manovra fino al 2022, ma ha portato a Motown ciò che Van Gundy ha cercato invano per quattro anni: una stella di assoluta grandezza. “La cosa più difficile da fare in questa lega è assicurarsi una star” ha dichiarato il coach e presidente dei Pistons. “Per noi era impossibile farlo via free agency, perciò quando è capitata l’occasione di prenderla via trade, l’abbiamo colta al volo. Conosciamo la sua storia di infortuni, ma è un rischio che valeva la pena di essere corso per il talento che abbiamo ricevuto”.

Talento e “stardom” che i Pistons hanno ottenuto sacrificando di fatto due titolari di complemento, seppur di extra lusso come Tobias Harris e Avery Bradley, e due scelte future il cui valore non avrebbe cambiato nessun tipo di scenario presente e futuro, a meno di colpi di fortuna decisamente impronosticabili. Harris e Bradley erano i due principali terminali offensivi di Van Gundy ma il primo, nonostante stesse disputando una delle migliori stagioni in carriera, tra due estati avrebbe battuto cassa ed eroso gran parte del payroll, mentre il secondo - dopo la partenza lanciata in cui era stato uno dei fattori anche della vena passatrice di Andre Drummond - si è perso, diventando di fatto spendibile come semplice contratto in scadenza.

Come giocheranno i nuovi Pistons?

Da quando allena in NBA Stan Van Gundy ha sempre dato un’identità perimetrale alle proprie squadre, giocando con quattro giocatori esterni al servizio di un solo giocatore d’area. Lo ha fatto a Miami con Shaquille O’Neal, lo ha replicato con ottimi risultati a Orlando con Dwight Howard (arrivando anche ad una finale NBA) e lo stava facendo a Detroit con Andre Drummond.

L’arrivo di Blake Griffin spingerà il coach e presidente dei Pistons a dare un’impostazione tattica differente alla sua creatura: Griffin e Drummond sono due giocatori interni che insieme possono funzionare, anche in una lega uniformata alla small-ball in cui le due torri sono la controtendenza. Il talento e le peculiarità tecniche però possono rendere questa configurazione più malleabile e orientata al credo “perimetrale” di Van Gundy: Blake Griffin è una delle migliori ali passatrici della NBA e ha dato prova di poter guidare un attacco da playmaker aggiunto, anche spingendo in prima persona dopo aver raccolto un rimbalzo. Lo ha fatto sistematicamente ai Clippers quando Chris Paul era infortunato o quando Doc Rivers ne sfalsava il minutaggio in campo.

Per certi versi Stan Van Gundy potrebbe assegnargli la gestione dell’attacco a metà campo come in passato ha fatto con Hedo Turkoglu, la mossa tattica attorno alla quale i Magic da squadra ambiziosa sono diventati una contender per il titolo nel 2009. Griffin a Detroit trova un compagno di reparto meno verticale ma più versatile di DeAndre Jordan: Drummond è una furia nei pressi del canestro se servito in movimento, proprio come il centro dei Clippers, ma è un passatore migliore, tanto da spingere Van Gundy a dargli più responsabilità nella costruzione del gioco. Quello che Griffin può dare a Drummond sotto forma di rifornimenti e spazi, Drummond lo può dare indietro a Griffin invertendo i ruoli della soluzione alto-basso classica.

La sinergia che può instaurarsi tra i due potrebbe avere benefici reciproci su entrambi i lati del campo: Griffin non è un rim protector eccezionale - in carriera non ha mai raggiunto la stoppata di media a partita -, ma è un difensore onesto e sicuramente un miglioramento per la difesa dei Pistons, costruita quasi in solitaria sulle spalle di Drummond. È una “partnership” estremamente affascinante e che offre indiscutibili margini di crescita se maneggiata da mani capaci, dentro e fuori dal campo: Griffin arriva a Detroit come la grande speranza in grado di sollevare le sorti della franchigia. Come dice Jonathan Tjarks di The Ringer, Griffin può essere per Drummond ciò che Paul è stato per lui nel 2011 quando arrivò a Los Angeles: sta a lui sviluppare quel rapporto che con CP3 ha vissuto di molti alti e altrettanti bassi. Viceversa, l’inevitabile declino fisico di Griffin può essere assorbito dalla crescita di Drummond che un mentore di questo calibro non lo ha mai avuto.

Le abilità di Griffin non solo permetteranno una chiave di dialogo tra l’ex Clippers e Drummond, ma faciliteranno il compito a Reggie Jackson quando tornerà dall’infortunio, sollevandolo da compiti di regia che non hanno mai entusiasmato il nativo di Pordenone. Il trittico Griffin/Drummond/Jackson può, al netto della ripartizioni di responsabilità, ricalcare le orme di quello Griffin/Jordan/Paul perlomeno a Est, e offrire a Van Gundy tutta la flessibilità di cui ha bisogno per impostare i suoi schemi offensivi. Griffin ha le competenze e la completezza tecnica per giocare il pick and roll sia da bloccante con Jackson che da portatore di palla con Drummond anche nella stessa azione, con un ruolo centrale in entrambi i casi. È una cosa che non tutte le squadre NBA possono permettersi, e che ancora più fatica faranno a difendere.

In questo momento però i Pistons sono una squadra sotto la media NBA per quanto riguarda gli indici offensivi: i nuovi concetti offensivi introdotti in estate da Van Gundy per migliorare la circolazione di palla sono serviti a rendere i Pistons la sorpresa del primo mese e mezzo di regular season, ma non sono bastati per fronteggiare l’emergenza infortuni che ha tolto di mezzo Reggie Jackson, l’unico in grado di creare vantaggi dal palleggio e di guidare un attacco NBA.

La cessione di Bradley inoltre ha aperto una voragine nel backcourt che al momento dipende della lune di Ish Smith e Stanley Johnson. Gli unici altri giocatori in grado di fornire tiro e spaziature, indispensabili per aprire il campo alle due torri, sono l’acerbo rookie Luke Kennard - il cui ruolo e le cui responsabilità sono destinate ad aumentare - ed il gregario Reggie Bullock. Il terzo miglior tiratore a roster è Anthony Tolliver, il primo cambio dei lunghi, altro elemento che avrà un ruolo chiave al fianco di Griffin nei quintetti piccoli o come “stretch 4” accanto a Drummond.

Come già detto i Pistons non hanno spazio salariale per attirare nessun nome di rilievo e l’unica mossa che possono fare è muoversi via trade alla ricerca della giusta occasione, ma con pochi asset da muovere dopo aver ceduto la loro scelta di quest’anno. È affascinante la voce di mercato che porta a Rodney Hood, un giocatore che a Detroit potrebbe avere impatto in questo nuovo telaio al netto dei ricorrenti problemi di infortuni che lo hanno fermato negli ultimi anni.

Tutte le speranze che i Pistons ripongono nel presente potrebbero però trasformarsi in un incubo nel futuro: nel 2020 il contratti di Griffin e Drummond chiameranno oltre 60 milioni di dollari e, secondo le proiezioni odierne del salary cap, occuperanno circa il 60% complessivo di un payroll che “vanta” già 100 milioni di contratti garantiti per soli otto giocatori.

I Pistons possono arrivare a quel momento con lo scalpo di qualche contender ad est e la coppia Griffin/Drummond all’apice del proprio splendore, oppure totalmente inermi di fronte a un disastro annunciato che inevitabilmente porterà al licenziamento di Stan Van Gundy, il cui contratto è in scadenza il prossimo anno. Solo il tempo ci dirà se i Pistons hanno fatto bene mettere il loro futuro nelle mani di Blake Griffin.