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NBA, i giocatori protestano in tutte le lingue del mondo. E gli arbitri non sempre capiscono

NBA

I giocatori internazionali sui parquet NBA sono sempre più numerosi, così come le lingue utilizzate e le parole di stizza o protesta rivolte nei confronti degli arbitri: “Alle volte proviamo ad andare a senso, ma non sempre siamo sicuri delle parole che stiamo sanzionando”

Ma i tantissimi giocatori provenienti da ogni parte del mondo e giunti in NBA, in che lingua protestano contro gli arbitri? E soprattutto i direttori di gara capiscono il senso e il peso delle lamentele? È una domanda che si è posto e che ha posto il New York Times a diversi protagonisti sul parquet, dipingendo un quadro in cui gli arbitri equivocano, alle volte non comprendono, magari soprassiedono a offese di cui non colgono il senso. Il primo a raccontarlo è Enes Kanter, che al suo esordio in NBA non conosceva nessuna parola inglese, né tantomeno l’utilizzo delle poche che gli rimbalzavano nella testa poteva risultargli naturale in un momento di rabbia. Di conseguenza per tutta la prima stagione il lungo turco è uscito illibato e senza incassare neanche un fallo tecnico dopo mille proteste con gli arbitri, visto che nessuno comprendeva il senso delle sue parole. Con gli anni passati negli States e la familiarità acquisita con l’americano, il numero di tecnici di Kanter è improvvisamente lievitato: “Prima non avevano idea di quello che stavo dicendo. Dovrei tornare a parlare turco”, scherza il diretto interessato dopo i 15 falli tecnici fischiati contro di lui. Il lavoro degli arbitri in questi ultimi anni è profondamente cambiato infatti, circondati da decine di lingue e imprecazioni che risuonano sul parquet, senza che nessuno dei direttori di gara riesca ad averne piena coscienza: “Conosco qualche parola”, racconta Jessie Thompson, per anni un fischietto NBA che provava a districarsi tra spagnolo, portoghese, croato e anche italiano sul parquet. Proprio come T.J. McConnell nello spogliatoio dei Sixers, quasi in minoranza di fronte a un roster che conta ben sette nazionalità diverse (tra cui anche il nostro Marco Belinelli): “Continuano a ripetere offese e parole di ogni tipo che io non comprendo – racconta -, non posso di certo ipotizzare che siano delle parole gentili nei miei riguardi”. Figurarsi dunque il mare di critiche e offese da cui spesso vengono circondati e sommersi gli arbitri: “Spesso si è costretti ad andare a sensazione, provando a decifrare le offese – racconta Joe Forte, un arbitro che spesso ha lavorato anche in giro per il mondo -. Ma non sei mai sicuro se stai facendo la cosa giusta. Potresti anche sanzionare una frase che non centra nulla”.

Incomprensioni, offese personali fraintese e l’inglese utilizzato quando non serve

Tutti hanno un aneddoto a riguardo, come quella volta in cui Danilo Gallinari incappò in un arbitro che comprese alla perfezione il suo ‘vaffa’ e gli disse “I know italian”, fischiando contro di lui un tecnico. Storia simile a quella raccontata da Dario Saric, che sbagliata una conclusione da sotto nel suo periodo europeo iniziò a urlare e inveire in croato contro sé stesso: “Stavo dicendo qualcosa del tipo ‘Quanto sei stupido, Dario’ e mi sono visto fischiare un tecnico da un arbitro che veniva dalla Turchia. Gli ho detto che non mi riferivo a lui, ma ormai non contava più a nulla”. A Saric in questa stagione NBA hanno fischiato in realtà cinque falli tecnici, sintomo di come anche gli arbitri stiano iniziando ad avere dimestichezza anche con un linguaggio sempre più meticcio tra inglese e lingue europee: “Quando sei arrabbiato non stai lì a pensare a quali parole utilizzare: butti fuori le prime che ti vengono in mente”, sottolinea Ilyasova, che potrebbe beneficiare della mancata comprensione del turco, ma spesso si ritrova a protestare in inglese. Tomas Satoransky invece definisce i suoi momenti di follia come dei veri e propri ‘blackout’, quando inizia a offendere sé stesso in ceco. Coach Brooks più volte gli ha chiesto il significato di quelle parole, senza ricevere mai risposta. La questione però è legata soprattutto alle parole pronunciate in maniera sussurata e dura: “Il problema è quando si avvicinano a te con fare tranquillo e non sospetto – racconta Steve Javie, altro storico arbitro fino al 2011 -, anche perché quando ti stanno urlando contro, non c’è bisogno di capire quello che dicono. Li punisci e basta”. Quando si è troppo arrabbiati infatti, non c’è lingua che tenga.