Dopo la prestazione da 43 punti, 13 rimbalzi e 7 assist di gara-3, il n°35 degli Warriors si racconta ai microfoni di Sky Sport: le differenze tra il primo e il secondo anno agli Warriors, la rivalità con LeBron James, il suo rapporto con i social media e il modo tutto suo di giocare con gioia
CLEVELAND, OHIO — In gara-1 era stato LeBron James a firmare il suo massimo in carriera per una partita di playoff. In gara-2 Steph Curry aveva stabilito un nuovo record NBA, mandando a segno 9 triple in una partita di finale NBA. In gara-3 è toccato a lui, Kevin Durant: anche per il n°35 degli Warriors massimo in carriera con 43 punti, 13 rimbalzi e 7 assist — e riflettori che si sono nuovamente puntati su quello che è già stato l’MVP delle ultime finali. Una grande prestazione offensiva, 15/23 al tiro con 6/9 da tre punti, ma all’ex superstar di OKC non basta essere riconosciuto come eccezionale attaccante.
In questa lega le superstar vengono spesso giudicate più per l’attacco che per la loro difesa. Quant’è importante per te essere un ottimo difensore?
“Mi inorgoglisce essere un giocatore completo, uno che sa contribuire alla vittoria — e credo che per vincere al più alto livello di pallacanestro sia necessario giocare su tutti e due i lati del campo. Io voglio solo fare tutto quello che mi è possibile per aiutare la squadra a vincere: qualsiasi cosa il mio coaching staff mi chieda voglio essere pronto a farlo, in ogni momento”.
Quanto il sistema difensivo di Golden State specificatamente ti ha aiutato a diventare un miglior difensore?
“Più che altro credo sia riuscito a mettermi nella miglior posizione possibile per essere efficiente e sfruttare al meglio quelle che sono le mie doti difensive: sfruttare i miei centimetri e muovere i piedi contro le guardie avversarie sui cambi, aspetti del gioco che ho migliorato gradualmente con il tempo. Quando sono arrivato agli Warriors credo fossi già a un buon livello per quel che riguarda le stoppate, i cambi difensivi sui pick and roll, l’abilità nel difendere sia sul perimetro che in post ma qui ho iniziato a migliorare su questi aspetti e il coaching staff mi ha messo nella situazione migliore per avere successo”.
Hai fatto registrare 18 assist in tutta la serie contro Houston [in sette partite, ndr], ne hai 20 nelle prime tre contro Cleveland. Cos’è cambiato?
“I Rockets cambiavano su qualsiasi situazione, ci era difficile muoverci come facciamo di solito perché ogni nostro possesso era il frutto di un’uscita da un blocco, di un pin-down, di un pick and slip. I Rockets hanno fatto un buon lavoro nel toglierci certe opzioni, cambiando su ogni giocatore. Di solito quando giochiamo bene noi collezioniamo assist impegnando due difensori sulla palla e servendo uno di noi che si muove sul lato debole, libero di ricevere, tirare da tre o andare al ferro. Houston ci ha negato queste soluzioni, per cui più di tutto ho provato a mettere pressione alla loro difesa attaccando con aggressività per segnare, o cercare di segnare. Quando ho ricevuto nelle mie posizioni ho dovuto fare il passaggio giusto, che magari non è sempre stato un assist ma ha creato comunque un vantaggio che ci ha permesso di segnare.
Come paragoneresti il tuo primo anno agli Warriors al secondo?
“Il primo anno ho cercato di trovare il miglior modo di inserirmi in squadra, adattandomi tanto la mia personalità quanto il mio gioco a un nuovo contesto, in cui mi veniva chiesto di non fare così tanto — per cui è come se avessi aperto un libro e mi fossi messo a studiare. Dopo tutto quello che abbiamo dovuto passare la scorsa stagione sono tornato con una fiducia maggiore sia come giocatore che come membro di questa organizzazione e di questa squadra, cercando di aiutare i ragazzi più giovani ancora più di quanto avessi fatto la stagione prima, cercando di essere più vocale e dando ancora più l’esempio con il mio comportamento. Ho cercato di alzare il livello, perché mi sentivo più a mio agio con tutto ciò che mi circondava, col mio modo di vivere, con il venire in palestra ogni giorno, sviluppando una relazione migliore con allenatori e compagni. Tutto il tempo trascorso da quando sono arrivato qui fino a oggi, ogni singolo giorno, è stato un processo per capire meglio queste dinamiche”.
Si è parlato molto di gioia — l’ha citata Steph Curry, lo ha fatto anche Steve Kerr. Quanto la gioia di giocare è un fattore nel tuo successo come giocatore qui agli Warriors?
“Penso che le persone e i giocatori mettano in mostra la propria gioia in maniera ognuno diversa. Nel caso di Draymond [Green] ad esempio credo si possa dire che si stia divertendo quando mette in campo tutta la sua intensità, urla e coinvolge il pubblico; Steph lo fa segnando un tiro da tre da lontanissimo e facendo lo shimmy, mantenendo tutti coinvolti con un sorriso. Io manifesto in maniera più interiore la mia gioia, ma se metto un tiro difficile so che è il frutto di tutto il lavoro duro che ho fatto e sono orgoglioso di averlo segnato. Se stoppo un tiro o fermo il mio avversario diretto sono più orgoglioso dentro di me di quanto faccia vedere esternamente. Giocatori diversi esprimono le proprie emozioni in maniera diversa, ma questo è quello che rende ognuno di noi unico”.
Qual è la tua relazione con il mondo dei social media, non tanto in questo momento quanto in generale?
“Amo i social media, amo la possibilità di esprimersi in maniera diversa, un aspetto importante per persone come me, che non sono a proprio agio in un contesto sociale. Io ho trascorso tantissimo tempo da solo, allenandomi per perfezionare il mio talento, per cui non ho mai avuto tanti amici per cui i social media sono stati un ottimo strumento che mi ha permesso di uscire un po’ dal mio guscio, farmi sentire più a mio agio, permettendomi di poter dire quello che provavo invece di pensarlo solamente. Credo che per le persone timide come mia i social media siano un’ottima opportunità, ma ovviamente ci sono anche i lati oscuri, perché troppo accesso può causare dei problemi. Ci sono pro e contro in tutto, credo che i social media abbiano avuto un impatto enorme nel far crescere il seguito della pallacanestro tra la gente, dar loro una voce e permettere di godersi questo sport. è un fenomeno positivo in generale che però presenta dei lati oscuri”.
C’è una sfida anche personale tra te e LeBron James, in queste finali?
“Più che altro la sfida è competere e giocar duro contro chiunque mette piede in campo. Realizzi davvero quanto sono forti certi giocatori solo quando arrivi a questo punto, specialmente se giochi le finali. Ma la competizione è anche contro te stesso: come puoi far meglio di quanto fatto la tua ultima partita, come puoi costruire su quanto fatto finora, come puoi imparare dagli errori commessi. La miglior lezione che posso ricavare da tutto questo è che qualsiasi cosa succeda in campo è frutto del mio approccio, per cui cerco sempre di imparare e lottare contro me stesso per continuare a progredire ed essere la miglior versione possibile del giocatore che posso essere”