NBA, chi è Collin Sexton, il pretendente al trono dei Cleveland Cavaliers
NBAL’ottava scelta dell’ultimo Draft rappresenta la speranza dei Cleveland Cavaliers di sopravvivere al dopo-LeBron James, ma la strada verso il successo è tutt’altro che agevole.
In tutto lo stato dell’Ohio se la ricordano bene, quell’estate di otto anni fa: cuori spezzati, canotte col numero 23 bruciate sulla pubblica piazza, lettere grondanti di rancore indirizzate al beniamino di casa fuggiasco. Ancora meglio, con ogni probabilità, si ricordano l’annata successiva: 19 vittorie raccolte da una squadra in cui spiccavano i fantasmi di Baron Davis e Antawn Jamison. Una vera e propria apocalisse sportiva che si sarebbe rivelata prologo di un quadriennio altrettanto tremendo, al netto dell’arrivo di Kyrie Irving. Esperienze del genere lasciano il segno, ma soprattutto fortificano la convinzione di non volerle più rivivere. Si spiegano forse così, con la volontà di non rievocare l’apocalisse del 2010, le reazioni ben più sobrie al secondo addio di James.
Il fatto che LeBron avesse nel frattempo mantenuto la sua promessa, portando finalmente un titolo in città e liberando i tifosi di Cleveland da una maledizione durata oltre cinquant’anni, ha probabilmente aiutato. Così come di certo ha aiutato il fatto che la squadra del cuore, rispetto all’accozzaglia messa a disposizione di Byron Scott otto anni prima, possa contare su alcuni elementi in grado di ispirare fiducia. E un posto speciale tra questi elementi lo ha senz’altro Collin Sexton, per distacco il volto nuovo più atteso tra le mura della Quicken Loans Arena. Ultimo e forse unico lascito della funesta trade che ha portato Irving a Boston, il prodotto di Alabama è da molti considerato l’antidoto potenzialmente in grado di salvare la franchigia da una nuova, profonda depressione.
Perché proprio Collin Sexton
Alla posizione numero 8, quella che sarebbe spettata ai Brooklyn Nets e che Boston aveva ceduto insieme ad Isaiah Thomas, Jae Crowder e Ante Zizic, non erano in molti i Mock Draft a riportare il nome Collin Sexton. Dati per assodati i magnifici sei Ayton, Bagley, Doncic, Jackson, Young e Bamba, dai Cavs ci si aspettava che scegliessero tra le opzioni ancora disponibili. L’impressione era che lo spoglio finale sarebbe stato tra la solidità di Wendell Carter e la scommessa ad alto rischio/alto rendimento Michael Porter Jr.. Oppure, ancora, ci si immaginava che il GM Koby Altman avrebbe optato per uno dei due Bridges o al limite per Knox, ali versatili dalle caratteristiche ideali per le esigenze dell’NBA contemporanea. Il giovane GM, nel ruolo da meno di un anno, sparigliava invece le carte puntando sul ragazzo da Marietta, Georgia, pronosticato dai più fuori dalla top 10. Per contro, le motivazioni che avevano spinto Altman a individuare in Sexton il profilo ideale apparivano chiare da subito.
Innanzitutto, tra le ragioni della scelta, c’era una riflessione strettamente tecnica. Anche quando potevano ancora contare su Irving, i Cavs avevano sempre denotato una certa debolezza nel ruolo di point guard, falla più volte sottolineata con forza anche dal Re nel corso del suo governo della franchigia. L’ingaggio di George Hill e Jordan Clarkson a metà della scorsa stagione ha messo solo una toppa, peraltro piuttosto malridotta, a un buco evidente da tempo. Appurata l’impossibilità di aggiudicarsi uno tra Luka Doncic e Trae Young, Altman ha quindi deciso di affidarsi al miglior talento ottenibile nel ruolo in quel momento del Draft.
Eppure, ridurre la scelta di Sexton a mera valutazione di ordine tecnico significherebbe ignorare alcuni elementi che, in tutta evidenza, hanno pesato non poco nell’orientare le decisioni del front office di Cleveland. Perché al di là degli equilibri tattici del roster, c’è una cosa di cui i Cavs del dopo-LeBron hanno disperato bisogno: un leader a cui aggrapparsi. Da questo punto di vista, per quanto breve, il curriculum di Sexton è eloquente. Per provare a definirne il carattere e la natura competitiva basta citare l’episodio andato in scena a Brooklyn il 25 novembre dello scorso anno.
Sul parquet del Barclays Center si affrontano Alabama e Minnesota: il clima non è dei più sereni e quando mancano 11 minuti al termine della gara i Crimson Tide si ritrovano a giocare in 3 contro 5. Tra infortuni, falli tecnici ed espulsioni dirette, Sexton resta in campo con due soli compagni e il tabellino dice +11 per gli avversari. Invece di gettare la spugna, il freshman trascina i suoi in un tentativo di rimonta che si spegne a un passo dal traguardo. Il risultato finale arride a Minnesota per 89-84, mentre Sexton torna negli spogliatoi con 40 punti, 6 rimbalzi, 5 assist. Ci sarebbe di che essere oltremodo orgogliosi, eppure il 18enne è letteralmente furibondo. Avery Johnson, coach di Alabama e personaggio che ha costruito la sua carriera sulla ferocia competitiva, non si dice sorpreso: “Il ragazzo, prima di tutto, odia perdere, sempre e comunque”. Quando più tardi gli verrà chiesta un’opinione sul potenziale futuro di Sexton in NBA, Johnson - di solito avaro di complimenti, specialmente con le point guard - regalerà una definizione calzante del suo pupillo: “Credo che quando Collin si troverà a giocare contro Curry, Westbrook o Harden non si fermerà dopo la partita per chiedere un autografo”.
Koby Altman dev’essere rimasto impressionato dalla prestazione e dalle parole di Avery Johnson, così come dalle parti di Cleveland non deve essere passata inosservata la presenza in palestra del futuro rookie alle 23 della sera precedente al Draft, a riprova di un’etica lavorativa già robusta nonostante la giovane età. La speranza che Sexton possa salvare Cleveland da una nuova catastrofe sportiva sembra quindi ben riposta. Il domani dei Cavs, però, non dipende solo da lui.
Si gioca (e si perde) in cinque
Per quanto riguarda l’aspetto caratteriale, l’incastro tra l’esuberanza di Sexton e le caratteristiche dei nuovi compagni promette bene. Dopo aver firmato una sontuosa estensione contrattuale da 120 milioni di dollari che lo legherà ai Cavs per i prossimi cinque anni, sarà Kevin Love a vestire i galloni di uomo franchigia. Tra le qualità per cui il cinque volte All-Star si è fatto apprezzare nella sua ormai decennale carriera non spicca però di certo l’inclinazione al comando: che si tratti di prendere le redini della squadra in campo o nello spogliatoio, Love appare poco convincente come prima opzione. E il resto dell’organico a disposizione di Tyronn Lue, infarcito com’è di comparse riunite sotto lo stesso tetto all’unico scopo di fungere da supporting cast per James, offre poche alternative. Pur con tutte le intuibili limitazioni dell’esordiente, a Sexton toccherà quindi da subito provare a guidare la squadra.
Le responsabilità in arrivo non sembrano però pesargli, così come non sembrano pesargli i paragoni con chi l’ha preceduto. Appena scelto, ha subito informato Altman della sua intenzione di vestire la maglia numero 2, quella indossata fino a dodici mesi prima da Kyrie Irving, autore del canestro più importante nella storia dei Cavs. Quanto all’altra eredità che Sexton si troverà ad affrontare, quella davvero impossibile da sostenere come termine di paragone, la storia non sembra essere molto diversa. Prima che James annunciasse al mondo il suo trasferimento a Los Angeles, il rookie aveva espresso pubblicamente l’auspicio che il suo arrivo a Cleveland potesse servire a convincere il Re a tentare un nuovo assalto al titolo partendo dall’Ohio. Una volta preso atto che ciò non sarebbe successo, il laconico commento con cui Sexton rispondeva ai giornalisti che lo incalzavano chiedendogli cosa pensasse dell’addio di LeBron racchiude tutta una filosofia di vita: "Niente".
La stessa risposta, “niente”, Sexton l’ha data alla domanda su cosa si fosse comprato con i primi soldi guadagnati da professionista (tra cui quelli corrisposti da Nike, con cui il neo-Cavs ha firmato un contratto pluriennale).
Come si inserisce Sexton
Se in merito allo slancio che il rookie saprà portare in Ohio la fiducia è legittima, la questione del suo inserimento nel quadro tattico dei Cavs, e più in generale in quello della NBA, si delinea parecchio più complessa. Nella sua prima e unica stagione di college basketball, Sexton ha denotato una tendenza ad accentrare il gioco, lasciando i compagni a contendersi le poche palle giocabili nelle metà campo avversaria. Le cifre raccimolate durante l’annata ad Alabama (19.2 punti e 3.6 assist di media tirando con il 44.7% dal campo) vanno tuttavia inquadrate all’interno di un contesto tecnico che gli offriva un supporto alquanto scadente. Stesso canovaccio, peraltro, seguito durante la sua più recente esperienza in Summer League dove, circondato da una manciata di onesti giocatori da G-League a caccia di un contratto, Sexton ha fatto registrare cifre sostanzialmente identiche (19.6 punti e 3.4 assist tirando con il 42.9%).
Dall’unica annata di college basketball di Sexton traspare una certa qual fiducia nei propri mezzi.
Lo scenario, però, sarà del tutto diverso quando il prossimo 17 ottobre Cleveland inaugurerà la sua stagione con la trasferta a Toronto. Perché così come da una parte il posto in quintetto per l’ultimo arrivato non sembra in discussione, almeno a sentire le dichiarazioni di fiducia elargite sia da Altman che da coach Lue, dall’altra i compagni che vestiranno la stessa maglia lo costringeranno a dover, almeno in parte, modificare il suo approccio alla partita. Detto del connubio con Kevin Love, ideale compagno di pick and pop, il resto del roster dei Cavs assomiglia a un enigma di difficile risoluzione.
Una cosa è certa, la linea guida dettata dalla proprietà è stata chiara sin dal giorno successivo alla dipartita di James: l’obiettivo è andare ai playoff. Il proprietario Dan Gilbert, memore delle disastrose annate seguite al primo addio del Prescelto, non ha nemmeno per un secondo preso in considerazione l’idea di impostare la modalità “tanking”. L’estensione concessa a Love e un mercato orientato all’acquisizione di giocatori in cerca di riscatto dopo stagioni deludenti - da Sam Dekker e David Nwaba a Rodney Hood, ri-firmato per un anno - confermano l’intenzione di voler schierare una squadra almeno sulla carta in grado di poter competere per un posto nella post-season. È probabile perciò che la situazione in cui Sexton si troverà ad operare sarà una sorta di compromesso tra la necessità di provare a dire la propria nella peraltro non irresistibile Eastern Conference e quella di dare spazio ai prospetti, a dire il vero nemmeno così numerosi, fin qui lasciati ai margini del progetto tattico come Osman, Zizic e in parte Nance.
A prescindere da chi sarà in campo con lui, il compito di Sexton sarà innanzitutto quello di elevare il livello di efficacia difensiva della squadra. Missione tutt’altro che impossibile, visto che lo scorso anno i Cavs si sono visti soffiare lo scettro di peggior rating difensivo solo dai derelitti Phoenix Suns. Qualche accenno del cambio di mentalità che il rookie potrà favorire si è già visto nelle partite giocate a Las Vegas, ma sarà fondamentale far diventare quell’attitudine minimo comune denominatore condiviso dal resto dei compagni. Anche perché, per una squadra che nel giro di dieci mesi ha perso due talenti offensivi come Kyrie Irving e LeBron James, la tenuta nella propria metà campo si farà necessità vitale. Senza poter più contare sull’effetto James, catalizzatore e macchina motrice dell’attacco come forse nessuno mai nella storia del gioco, Lue dovrà poi per forza reinventare da capo un’identità offensiva modellata negli ultimi quattro anni attorno all’unicità di LeBron.
La parte di Sexton, in tutta questa riorganizzazione, sarà con ogni probabilità quella di creatore di gioco primario, deputato a sfruttare le proprie caratteristiche coinvolgendo i compagni. Dotato di un primo passo fulminante e dell’atletismo necessario per attaccare il ferro con continuità, l’ex Alabama dovrà però lavorare sulle evidenti lacune in quanto a visione del campo e tiro da fuori. Attorniato da tiratori virtualmente letali in situazioni di spot-up come Love, Smith, Korver e Hill (ormai più efficace in quel ruolo che in quello di portatore di palla), a Sexton sarà chiesto di affinare la capacità di trovare il compagno meglio piazzato per la conclusione, aspetto del gioco in cui fin qui è sembrato molto limitato.
L’altra sfida di fronte a cui il rookie si troverà sin dalla prima palla a due sarà quella di migliorare la sua percentuale da dietro la linea dei tre punti, requisito ormai irrinunciabile per affermarsi ad alti livelli, a maggior ragione per un giocatore che sfiora a malapena il metro e novanta. Non farsi subito battezzare dalle difese avversarie, generando così pesanti svantaggi per il resto del quintetto, potrebbe tuttavia rivelarsi impresa difficoltosa: durante la sua esperienza in NCAA, Sexton ha tirato poco (4 tentativi a partita) e sotto media (33.6%) dalla lunga distanza, anche questa tendenza confermata durante la Summer League (3/13 complessivo). Per diventare davvero una stella e salvare Cleveland dalla nuova catastrofe, Sexton dovrà per forza costruirsi un jumper quantomeno affidabile e dovrà farlo in fretta. Il punto di partenza, sotto questo aspetto, non è dei più incoraggianti, ma d’altra parte le sue cifre al college non sono nemmeno troppo distanti da quelle registrate un anno prima da Jayson Tatum, poi rivelatosi macchina da pallacanestro pressoché perfetta già al suo primo anno da professionista. Ed è forse anche per questo motivo che attorno al suo sbarco in NBA perdura un malcelato entusiasmo, sentimento condiviso anche dai suoi pari-età.
Con affetto e sincera stima
A logica, i favori del pronostico per il premio di Rookie of the Year dovrebbero essere terreno esclusivo delle primissime scelte al relativo Draft. Ed in effetti le quotazioni dei maggiori siti di scommesse favoriscono i vari Ayton, Doncic e Bagley, staccati di diversi punti dal resto del gruppo. Viceversa, il consueto sondaggio effettuato tra i giocatori appena sbarcati in NBA ha consegnato un risultato alquanto inaspettato: in cima la lista, appaiati con il 18% delle preferenze, sono risultati la prima scelta assoluta dei Suns e Collin Sexton. Per la prima volta nessuno tra i prossimi esordienti ha ricevuto più del 20% dei voti, così come sempre per la prima volta a spartirsi il ruolo di favorito sono rimasti in due (il terzo e quarto classificato, rispettivamente Doncic e Knox, non hanno superato la soglia del 9%). Per completezza d’informazione, va ricordato che durante gli ultimi vent’anni i rookie hanno azzeccato la previsione una sola volta (2007, Kevin Durant): ciò nonostante, la fiducia riposta in Sexton dagli altri esordienti assume comunque un significato interessante. Al di là dei difetti tecnici, pecca da cui nessun giocatore è immune, tantomeno quelli alle prime armi, la sensazione comune è che Collin sia più che mai NBA-ready.
Di certo se lo augurano a Cleveland, dove la distanza tra il ritorno nel più lugubre degli anonimati e l’utopia di vivere di luce propria nel dopo-LeBron si misurerà proprio con le prestazioni del rookie da Alabama. In fondo, il gigantesco banner che ritraeva il numero 23 in piena downtown attende di essere sostituto. Il casting per chi dovrà prendere il posto di James nel cuore dei tifosi di tutto l’Ohio è appena cominciato, e Sexton non sembra aver paura di proporsi per il ruolo di erede al trono.