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NBA, Damian Lillard davanti a un bivio: rimanere o andarsene da Portland?

NBA

Dario Ronzulli

Il numero 0 dei Portland Trail Blazers è alla vigilia di una stagione cruciale per la sua carriera: ricevere le giuste rassicurazioni dalla franchigia potrebbe portarlo a rimanere a vita, altrimenti potrebbe essere arrivato il momento per tentare un’avventura da altre parti

Nel rutilante mondo dell’NBA capita pure che i giocatori si divertino a sovvertire i ruoli o, se preferite, a invadere campi di lavoro altrui. Damian Lillard, ad esempio, ha informato il mondo dei media del passaggio del giornalista Chris Haynes da ESPN a Yahoo Sports. Due giorni dopo ha anticipato con un’altra “Dame Bomb” (sulla falsariga delle “Woj Bomb” di Adrian Wojnarowski) il passaggio di Sam Amick da USA Today a The Athletic. Ma l’estate di Lillard sui social è stata anche quella della presa in giro dei workout dei suoi colleghi e della pubblicazione di alcune tracce del suo nuovo disco rap, dopo Letter O e Confirmed. Insomma, quella del 2018 è stata l’estate del ritorno di Dame D.O.L.L.A. Una off-season piena, con abbondanti dosi di ironia e autoironia, in linea con il modo di approcciare Twitter e Instagram che il prodotto di Weber State ha sempre mostrato.

Se il post carriera con un posto nell’entertainment musicale sembra già definito, più nebuloso è invece il futuro a breve termine del Lillard giocatore. Tra i vari tweet estivi ci sono stati anche quelli in cui il numero 0 ha risposto a chi ipotizzava un suo imminente addio all’Oregon magari destinazione California, Los Angeles per la precisione, sponda Lakers per essere ancora più precisi. Smentite categoriche, accompagnate a volte da commenti sarcastici e/o da dichiarazioni d’amore verso Portland e i Blazers. Ma fino a quanto queste smentite sono considerabili di rito e quanto realmente il futuro di Lillard è destinato a rimanere in Oregon?

In missione per conto di se stesso

Partiamo da un presupposto: stiamo parlando di un giocatore fortemente convinto di essere nella ristretta élite dei migliori nella Lega e soprattutto di avere poi le capacità di trasformare questo pensiero in azione, senza nessun tipo di timore reverenziale verso chicchessia. L’idea di essere sottovalutato ha alimentato la fame e la voglia di emergere di Lillard sin dall’inizio, tanto da fargli esplorare nuovi limiti sul campo da gioco. Fuori, invece, non le ha certo mandate a dire, come ad esempio lo scorso gennaio dopo l’ennesimo mancato inserimento nella rosa dell’All-Star Game - al quale ha poi comunque partecipato da riserva, tornandoci dopo due anni di assenza. Lillard è un giocatore costantemente in missione per conto di se stesso: il mondo non lo capisce, non lo apprezza e allora tocca a lui fare tutti gli sforzi possibili per convincere gli scettici. La rabbia che lo muove sin dal college è benzina costante per il suo motore. Per quanto abbia affermato di non sentire di dover dimostrare ancora più nulla a nessuno, è difficile che il suo modo feroce e talentuoso di aggredire le partite e più in generale gli obiettivi possa venir meno.

La stagione passata ha rappresentato per molti versi il suo apice dal punto di vista tecnico, con notevoli picchi statistici personali: miglior Net Rating a +4.8, miglior PIE a 16.5, miglior rating offensivo a quota 120 (dato Basketball Reference), miglior box plus-minus a +6.7 e miglior VORP - valore rispetto ad una riserva - a +5.9. Tutto questo ben di Dio ottenuto in regular season in cui Portland che ha dato una paurosa accelerata nella seconda parte finendo addirittura terza ad Ovest e Lillard al quarto posto per la classifica dell’MVP.

Poi però ci sono stati i playoff e lì la favola si è trasformata in una tragedia: 0-4 al primo turno contro i Pelicans, Blazers incapaci di difendere, Lillard fantasma con il 41.5% effettivo dal campo e -14.5 di Net Rating, mangiato dalla difesa di Jrue Holiday. “È stata dura specialmente per me, come leader della squadra” ha dichiarato a The Athletic. “Quando perdi la colpa è tua, l’indice di tutti è puntato verso di te. Ci sta, lo accetto. Non ho ancora dimenticato quella sconfitta, e non intendo farlo”.

Belle parole. Ma adesso, per citare Enrico Ruggeri, Dame è davanti ad un bivio. E, a 28 anni, si tratta di un bivio cruciale per la propria storia, non solo quella di atleta.

Ipotesi A: restare in Oregon

Portland è casa sua, i tifosi impazziscono per lui. Damian ha più volte ribadito, anche recentemente, il suo amore per la città, il suo legame con la comunità e la sua devozione per la squadra. In quella zona degli States non deve dimostrare nulla, tutti sanno il suo valore, tutti sanno che è tra i più forti della lega e, con ogni probabilità, uno dei tre migliori ad aver mai indossato la maglia dei Blazers. Per una franchigia che ha subito una serie di sfighe inenarrabili nel corso degli anni - do you remember Brandon Roy and Greg Oden? - averlo per altri anni a roster sarebbe quasi un risarcimento da parte del destino.

Rimanere un Blazer per la vita renderebbe Lillard in primis un giocatore-franchigia in tempi in cui le star non si fanno troppi problemi a cambiare canotta - non è un giudizio, solo una constatazione - e questo gli permetterebbe di differenziarsi dal resto della concorrenza. Inoltre manterrebbe la leadership della squadra in cui gioca senza che nessuno possa metterla in dubbio. Le sue cifre personali ne guadagnerebbero, come minimo rimanendo sui livelli ottenuti fino a qui. Arrivare all’All-Star Game nel quintetto titolare - a dispetto del giocare in una squadra con minor appeal presso la grande massa dei tifosi votanti - ne suggellerebbe lo status all’interno dello Lega.

Ipotesi B: salutare e cercare nuove sfide

I rapporti con dirigenza e proprietà restano, se non proprio tesi, quantomeno complicati. Lo scorso gennaio Lillard e il patron Paul Allen hanno avuto un lungo confronto perché il giocatore voleva sapere che cosa avesse in mente il proprietario per il futuro della franchigia. Quell’incontro è stato utile per dare energia nella già citata seconda parte della stagione ma, secondo molti addetti ai lavori, non ha chiarito del tutto i dubbi nella testa di Dame. In un’intervista di inizio luglio, dopo aver confermato amore eterno verso i Blazers, ha poi aggiunto: “L’unica cosa che voglio sottolineare, come già successo la scorsa stagione, è che abbiamo l’urgenza di compiere i passi nella giusta direzione per portare a compimento il nostro percorso di crescita. E io sono focalizzato sugli stessi problemi di tutti gli altri, il mio obiettivo è provare a compiere il salto finale”. E se la giusta direzione di Lillard non coincidesse con quella di Portland, bensì siano due rette parallele che non si incontrano e se si incontrano non si salutano (cit.)?

Il sesto monte salari più alto della Lega è un macigno sulle ambizioni dei Blazers: per quanto coach Stotts provi a inventarsi ogni anno situazioni nuove, soprattutto nella metà campo difensiva, il materiale a disposizione sembra aver raggiunto il suo tetto massimo Aggiungere Seth Curry e Nik Stauskas al posto di Shabazz Napier e Pat Connaughton non modifica la sostanza della squadra che resta Lillard e McCollum-dipendente.

L’affinità di coppia dentro e fuori dal campo è evidente, il peso nell’economia della squadra anche. Nel 2017-18 i due hanno firmato il 45.7% dei punti di squadra, prendendosi il 43.6% dei tiri e andando in lunetta esattamente quanto tutti gli altri membri del roster. Inoltre l’intesa tra i due in campo è cresciuta partita dopo partita: il 35% degli assist ricevuti da McCollum sono arrivati dalle mani di Lillard. Infine da non sottovalutare la crescita nella propria metà campo: il defensive rating del duo è passato in una stagione da 108.1 a 103.9.

Poi è arrivata la rullata subita da New Orleans che ha riaperto il dibattito: hanno raggiunto il loro limite massimo di rendimento? In questo contesto di squadra, possono andare oltre q quanto fatto? Loro due sono convinti di sì, la dirigenza anche, e Stotts pure. Oltre questa cerchia tuttavia il pensiero è molto differente e anche su questo si basano i desideri delle squadre che vorrebbero portare Lillard alla propria corte.

Al momento l’ipotesi A è in netto vantaggio sull’ipotesi B, che resta però tutt’altro che peregrina. Di fatto Damian Lillard - insieme ad Anthony Davis, che ha un contesto di squadra simile - è la superstar maggiormente a rischio di scambio nella stagione che sta per aprire i battenti. Entrambi, va detto, sono nel pieno del proprio contratto al massimo salariale con scadenza 2021 (AD ha una player option nel 2020): non è dunque neanche semplice imbastire uno scambio quando rimangono così tante stagioni a prezzo controllato, fattore che ovviamente fa lievitare il valore del giocatore. Non bisogna dare per scontato che la troppa concorrenza nel ruolo e tra le franchigie nella Western Conference possa portare in automatico Dame ad Est: si tratta pur sempre di un giocatore ultra competitivo, e più ci sono avversari forti davanti più lui dà tutto quello che ha.

La domanda, alla fin fine, è molto semplice: questa versione dei Trail Blazers può ambire a fare strada nei playoff ad Ovest? La risposta, allo stato attuale delle cose, sembra essere no. Togliendo Warriors e Rockets, Portland può rientrare in quel nugolo di squadre che ballano per i rimanenti sei posti per la post-season. Ma il confine tra fare i playoff e rimanerne fuori è molto sottile, e qualsiasi docile soffio di vento - un infortunio al momento sbagliato, una serie di partite perse sul finale - può modificare il destino di una squadra.

Per cambiare fisionomia in modo sostanziale e puntare più in alto bisognerebbe sacrificare uno dei big. Ma ne vale la pena? A questa domanda per ora la dirigenza ha risposto sempre no. Il rischio però di restare così, in un limbo senza direzione, è molto elevato e, per quanto Lillard adori Portland e la sua gente, la voglia di mettersi alla prova in una squadra realmente da titolo potrebbe davvero portare a vedere il numero 0 su un’altra canotta.