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NBA, qui New Orleans: Anthony Davis da solo non basta, quale futuro per i Pelicans?

NBA

Massimo Marianella

Un giro nella metropoli più caratteristica della Louisiana è l'occasione per scoprire il legame tra la città e i suoi tifosi, indagare le prospettive future e domandarsi le reali ambizioni di una franchigia condannata a restare comunque sempre all'ombra dei Saints della NFL

ANTHONY DAVIS: "SONO IL PIU' FORTE AL MONDO, MEGLIO DI KD E LEBRON"

NEW ORLEANS – Una passeggiata sulle rive del Mississippi River regala sempre splendidi scenari, con le sue sponde lontane unite da acque tranquille, con le vecchie Steamboats con le pale rotanti dietro ancora attive che accendono la fantasia e ci riportano a un secolo fa. Ancora meglio se effettutata al mattino presto, col profumo dei tipici, meravigliosi, beignet per colazione e un po’ di nebbiolina che rende l’immagine ancora più scenografica. Stessa nebbiolina che circonda però, qualche miglio più a Ovest del fiume, la squadra di basket cittadina, i Pelicans. Squadra che vanta una storia un po' travagliata alle spalle e un futuro con qualche ombra, pur a fronte di un presente agonistico felice. Ottimi giocatori, una solida gestione societaria e una superstar col numero 23 sono certamente una realtà positiva. Il problema difatti non è né tecnico, né di gestione, per una squadra che ragionevolmente ambisce alla postseason: la questione, in prospettiva, è quella di mantenere una squadra in una città meravigliosa che ha però già un grande e unico amore: i Saints della NFL. New Orleans è una città di football, per tradizione professionistica e anche a livello di college, nonostante Shaquille O’Neal (così come Ben Simmons) sia un prodotto di LSU, ammirato a lungo a Baton Rouge, non lontano da qui. I Saints sono e sempre saranno la squadra della città, quella con cui una popolazione che ha sofferto il dramma dell’alluvione causato dall’uragano Katrina si è identificata e con cui poi sono tornati grandi assieme (col suggello del Superbowl vinto nel 2009). I nero-oro hanno più di 50 anni di storia, sono qui da sempre. Il basket invece è venuto, andato, ha cambiato nome, è tornato con un'altra franchigia e infine è stato salvato proprio dalla proprietà dei Saints. Il fatto che ci sia una sola maglia ritirata – la n°7 del compianto Pete Maravich - è un forte legame col passato, un motivo di orgoglio, ma anche un monito. I Jazz, novità ed entusiasmo degli anni ’70, se ne andarono nello Utah alla fine di quel decennio, nel 2002 sono arrivati in città gli Hornets poi spostatisi a Oklahoma City durante l’alluvione prima di tornare diventando però i Pelicans. Un percorso tortuoso, che ha reso difficile il legame con la città e la tifoseria. Lo Smoothie King Center è un’arena bellissima, ma nonostante i prezzi dei biglietti siano i più bassi di tutta la lega rimane spesso mezzo vuoto. Vero che il football gioca solo 10 partite all’anno e deve quantificare in quelle, ma i parcheggi, che sono gli stessi (visto che i due impianti sono a un marciapiede di distanza) costano 25 dollari in meno per i match dei Pelicans rispetto a quelli dei Saints. Andare poi in giro per la città (ed è una visita da fare obbligatoriamente) a cercare del merchandising dei Pelicans diventa quasi un’impresa: meglio dirigersi direttamente al palazzetto, altrimenti è dura trovare qualcosa, tanto nei negozi di souvenir che in quelli sportivi. Come andare a Barcellona e cercare un gadget dell’Espanyol, stesso rapporto. Si trovano infatti oggetti dei Saints come dei blaugrana a ogni angolo, ma dei Pelicans pur chiedendo e impegnandosi rimane difficile. 

Cosa funziona oggi a New Orleans

Tutti segnali che contrastano con la realtà agonistica e societaria florida, ma che non possono non preoccupare in prospettiva: il fatto che la famiglia Benson (che quest’anno ha perso il patriarca, che ha lasciato tutto alla moglie) abbia la proprietà di entrambe le franchigie è, al tempo stesso, una garanzia e un‘incognita. E se un giorno dovessero decidere che i Saints siano l’unico e il vero gioiello di famiglia su cui concentrarsi? Per il momento la garanzia è rappresentata da Anthony Davis. È lui il riferimento per tutti i tifosi, è lui che garantisce una vetrina nazionale, è lui la certezza agonistica. Tutto legato quasi esclusivamente al prodotto di Kentucky, sotto contratto fino al 2021 (i Lakers di LeBron James e le sirene di L.A. permettendo…). I Pelicans di oggi però meriterebbero decisamente maggiore credibilità e attenzioni in generale. Sono la seconda squadra per punti realizzati di tutta la NBA (oltre 118 a sera, quinti per efficienza offensiva), Nikola Mirotic e Anthony Davis sono stati per i primi due mesi di stagione la seconda miglior coppia di rimbalzisti della lega dietro a quella di Detroit formata da Drummond&Griffin mentre Jrue Holiday è uno dei due giocatori con medie stagionali di almeno 20 punti e 9 assist (l’altro è Russell Westbrook). La fiducia non manca neppure nello spogliatoio, dove con più o meno discrezione tutti – tra staff, giocatori e giornalisti al seguito – dicono che senza DeMarcus Cousins rispetto allo scorso anno i Pelicans sono una squadra migliore, certamente nell’unità di spogliatoio ma non solo. Casomai rimpiangono un po' Rajon Rondo, ma un ambiante così tranquillo e una situazione tecnica favorevole sono serviti ad esempio a rigenerare un Julius Randle che con la maglia gialloviola dei Lakers sembrava un talento sprecato e che qui – nel suo ruolo preferito da 4, in uscita dalla panchina –  sembra pronto a sbocciare (il recente career high da 37 punti e 8 rimbalzi sembra confermarlo). Oggi Randle, con meno pressioni e molte motivazioni – compresa quelle di un contratto biennale da $18 milioni in scadenza nell’estate 2019 – è il terzo miglior realizzatore NBA uscendo dalla panchina con 17 spaccati a sera. 

Tradizione & futuro

Di giocatori ottimi nella sua seppur breve storia questa franchigia ne ha avuti molti, da Baron Davis a Trevor Ariza, da Chris Paul a Steve Smith, da Peja Stojakovic a Jamal Mashburn ma anche PJ Brown, Kenny Anderson e il nostro Marco Belinelli, ma questa squadra potrebbe essere, come gruppo, quella più strutturata di sempre per ottenere finalmente una certa identità. Serve un acuto, una fiammata che possa dare inizio a una storia duratura. Finora sette apparizioni alla post season in 16 anni di esistenza – ma solo due serie vinte, senza mai superare il secondo turno dei playoff – non hanno aiutato a generare una tradizione. Perché è bellissimo che lo Smoothie King Center sia un ambiente familiare, pienissimo di bambini, ma servono con urgenza generazioni di tifosi un po' più legati alla squadra. Se si riuscirà a creare questo legame probabile allora si possa prendere per tanti anni ancora un caratteristico tram da Canal St. o altrimenti fare quattro passi dal French Quarter per digerire un gumbo o un étouffe e continuare ad andare alla partita. Non lontano dal palazzetto, in uno dei luoghi più iconici della città, si viene accolti da un’enorme statua di un cestista con la scritta NOLA sulla maglia e i colori del Mardì Gras – giallo, verde e viola. Una statua che rappresenta una speranza cui bisogna dare un volto e un numero. Servono poi però anche una storia e un’impresa.