Il n°30 degli Warriors quando trova ritmo in partita diventa infallibile: lo dimostrano le sue percentuali, che schizzano in alto ogni volta che i suoi tentativi oltre l'arco superano quota dieci. Il trucco più ovvio per il miglior tiratore della storia NBA è dunque provarci più spesso: il risultato è garantito
Trovare un razionale filo logico all’interno della selezione e della resa di Steph Curry nel tiro da tre punti è speranza vana ormai da anni. Avere a che fare con dei numeri infatti non è per forza sinonimo di metodo. L’osservazione dei dati alle volte può confondere le idee, smentire i fatti e il senso comune delle cose. Ed è proprio quello che il n°30 degli Warriors ha fatto negli ultimi anni: prima ha polverizzato ogni record NBA, poi ridisegnato il perimetro all’interno del quale è “consentito” tirare a canestro. Infine, ha chiuso il cerchio mandando in soffitta il concetto di “buon tiro”. Con lui anche Steve Kerr ha alzato bandiera bianca, conscio del fatto che l’imprevedibilità di Curry resta il combustibile necessario per dare linfa all’attacco degli Warriors. In un mondo che in economia si definirebbe a rendimenti di scala decrescenti (ossia, più tiro, più aumenta la stanchezza e meno riesco a trovare il fondo della retina dopo tante conclusioni), Curry ha invertito ancora una volta la tendenza, dimostrando che nel suo caso il volume di tiro non conta. Anzi, lo stimola e spesso lo motiva ad alzare ancora di più l’asticella. La percentuale di conversione del n°30 degli Warriors è impressionante se presa per intero, ma scandagliata nel dettaglio se possibile diventa ancora più clamorosa: stando alla brillante analisi condotta da Tom Haberstroh, il rendimento di Curry negli ultimi cinque anni con i piedi oltre l’arco cresce all’aumentare dei tentativi. Nei primi cinque infatti la conversione è del 43% (ben al di sopra della media NBA), così come per i tentativi che vanno dal sesto al decimo. A partire dall’11esimo tiro dall’arco in poi però la percentuale schizza al 49%, sintomo di come una volta preso ritmo Curry diventa un cecchino infallibile.
Curry migliora nel quarto periodo e dopo l’All-Star Game
Sono 331 i tentativi totali convertiti con un’efficacia fuori dal comune nell’ultimo lustro, spesso presi in serate in cui la mano ha già dimostrato di poter funzionare al meglio (se il tiro non vuol saperne di andare dentro, meglio fermarsi prima di giungere a dieci tentativi dal campo). Al tempo stesso però, per prendere 15 tiri da tre punti c’è bisogno di tempo e questo vuol dire che il rendimento di Curry cresce con l’andare avanti della partita, arrivando anche alle fasi in cui le gare si decidono. In questa regular season, ad esempio, il figlio di Dell sta tirando con il 52% dalla lunga distanza nel quarto periodo (questi dati non tengono conto del 5/9 raccolto nella sconfitta contro Utah, che al massimo ha ritoccato a rialzo le cifre). Una garanzia di successo quando più conta e che potrebbe perfezionare (mai porre limiti al meglio) dopo la pausa dell’All-Star Game: le sue percentuali dopo febbraio in carriera passano dal 43 al 46%, anche se mai aveva tenuto in precedenza una resa così alta già dalle prime sfide stagionali. Per ritoccare a rialzo una stagione da record bisognerà spiegare a coach Kerr quello che già ha compreso da tempo: che la logica con Curry non serve, così come i piani preventivi e le indicazioni scritte nere su bianco. Prendere dieci triple e mezzo di media a partita lo limita e paradossalmente esclude dalla sfida la parte migliore del suo rendimento. Quella che arriva dall’11esimo tiro dall’arco in poi, quella che abbiamo imparato così spesso ad amare in questi ultimi anni. Quella per cui Golden State sta dominando la Lega.