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Parla Sergio Scariolo: "Qualità e profondità: a Est i Raptors hanno qualcosa in più"

NBA

Lorenzo Scatigna

Il capo allenatore della nazionale spagnola, da quest'anno assistente di Nick Nurse sulla panchina di Toronto, fa il punto sulla sua prima annata NBA, sulle avversarie più temibili nella Eastern Conference e dice la sua sul futuro di Leonard: "Noi abbiamo fatto tutto il possibile..."

LE PAROLE DI SCARIOLO A SKY SPORT A INIZIO STAGIONE

TORONTO PASSA A MIAMI ANCHE SENZA LEONARD

MIAMI – Sergio Scariolo, vice allenatore dei Toronto Raptors al suo primo anno su una panchina NBA, è approdato – si può dire stranamente – con qualche anno di ritardo nella lega di basket più famosa del mondo. La sensazione nel parlarci assieme però è che abbia già tutte le carte in regola per poter puntare in un futuro a breve termine a diventare un head coach di una franchigia NBA. A una conoscenza tecnico-tattica del gioco a livello globale, unisce impressionanti capacità manageriali, gestionali, linguistiche (parla correntemente spagnolo e inglese) ma anche di pubbliche relazioni. Nel settembre 1989 esordiva come capo allenatore dell'allora Scavolini Pesaro per diventare dieci mesi dopo, a soli 29 anni da poco compiuti, il più giovane allenatore ad aver vinto uno scudetto nella Serie A italiana. Da quel momento la sua carriera nel basket europeo è esplosa a livelli altissimi approdando quest'anno nella NBA.

Coach Scariolo, dopo 29 anni da capo allenatore di squadre di club e nazionale ai massimi livelli europei ha scelto di rimettersi in gioco, sì al top ma da assistente di un allenatore pure lui al primo anno. Contento finora della scelta? Quali i pro e i contro e quali anche le analogie col suo capo allenatore Nick Nurse?

“Il discorso per me e Nick Nurse può essere simile: siamo tutti e due in un ruolo nuovo, diverso, e siamo stati chiamati qui perché abbiamo dimostrato, in un altro ruolo, di poter essere competitivi in questa professione. Però è chiaro che siamo chiamati a dimostrare un po’ tutto di nuovo da zero: certo, abbiamo una sorta di credito, ma dobbiamo guadagnarcelo ogni giorno perché in America nessuno regala niente, né ai giocatori, né allo staff tecnico o all'ultimo dei componenti dell'organizzazione. Nick lo sta facendo molto bene finora, tanto per i risultati che per il modo in cui gioca la squadra; io da parte mia cerco di farlo mettendo a disposizione le mie idee, le mie esperienze e prestandomi anche a fare da ponte con la pallacanestro europea, con la quale resto ovviamente in contatto quotidiano non solo per il mio ruolo di allenatore di una delle squadre nazionali migliori dell'universo FIBA [quella spagnola, ndr] ma anche osservando direttamente le competizioni e vedendo tante partite. Direi che questa in NBA è una sfida nuova. Personalmente era da tempo che l'idea di uscire dalla mia zona di comfort mi intrigava e devo dire che sono contento della decisione che ho preso. Sono riuscito abbastanza in fretta ad adeguarmi ai grandi carichi lavorativi che spettano a un assistente riuscendo a trovare un giusto compromesso con le ore di sonno. Il fatto poi di avere gerarchicamente qualcuno più in alto di me a cui riportare, per il quale svolgere mansioni non tipiche di un head coach, non mi permette di adagiarmi – e anzi, mi fa restare sempre sveglio, mi fa sentire vivo”.

Negli staff tecnici delle franchigie NBA i compiti sono divisi spesso in maniera che possiamo definire verticali (per squadra avversaria) e orizzontali (per aree di responsabilità). Qual è la vostra struttura?

“La nostra è una forma un po' atipica: io riporto solo e direttamente al capoallenatore, ma tra i tre assistenti di prima linea – cioè Adrian Griffin, Nate Bjorkgren e il sottoscritto – ci dividiamo i compiti e ruotiamo le tre grandi aree di competenza – attacco, difesa e situazioni speciali (ovvero rimesse, giochi specifici, difesa a zona ecc.) – con una frequenza di 10/15 partite a testa, anche se poi i compiti di ognuno verranno definiti meglio durante i playoff. Per me questo sistema è stato molto utile perché così, pur essendo al mio primo anno, non ho dovuto specializzarmi su un'area sola ma ho potuto realmente conoscere, studiare e analizzare il gioco da tutti i punti di vista. Quando poi si giocheranno partite importanti e decisive come quelle dei playoff, un pizzico in più di esperienza rispetto agli altri penso di poterla mettere sul tavolo e allora spero di poter dare ancora di più il mio contributo a questo gruppo”.

Come giudica la situazione a Est? Toronto, Milwaukee (con l'arrivo di due spagnoli che conosce molto bene come Nikola Mirotic e Pau Gasol) e Philadelphia vi siete rinforzati alla trade deadline; Boston è rimasta immutata ma ancora non convince al 100%, Indiana nel frattempo ha perso Oladipo…

“Secondo me sono cinque squadre che hanno una differenza di valori veramente minima l'una dall'altra. Bisogna dare credito a Milwaukee per quello che sta facendo: è una squadra temibile per la propria atipicità, con questa struttura che prevede giocatori sul perimetro, ma i Bucks sono tosti anche dietro, con eccellenti difensori a roster. Boston e Philadelphia hanno tantissimo talento, Indiana un carattere pazzesco che gli ha permesso di reggere all'infortunio di Oladipo in una maniera forse inaspettata. Noi forse rispetto alle altre abbiamo forse un po’ di qualità in più, una profondità di organico un pochino più grande. Se non succedono grossi scossoni, siamo in una situazione in cui è difficile poter pensare di poter puntare al primo posto ma contemporaneamente non dovremmo scendere al terzo”.

A proposito dei vostri rinforzi a febbraio, qual è stato il suo ruolo nell’arrivare alla firma di Marc Gasol?

“Diciamo soltanto che ho potuto dare una mano e sono contento che sia servita, perché sono davvero felice che Gasol abbia scelto noi. Marc ci può dare qualcosa in più, soprattutto permettendoci di attaccare in un altro modo, manovrando di più il pallone - lui ad esempio è eccellente nel ribaltare il lato dalla punta - con i tagli lontano dalla palla, con la sua incredibile capacità di agire da playmaker dentro l'area, sia in post alto che dal post basso. A questo va a sommarsi il fatto che anche difensivamente Marc rimane un giocatore importante, uno che protegge il ferro molto bene, che ha molta intelligenza nell'intuire e anticipare le situazioni offensive avversarie. Penso sia stata davvero una buona trade per noi”.

Come valuta il suo processo di inserimento finora?

“Mah, direi bene. Ogni giorno si sente un po' più a suo agio. Noi abbiamo una gestione del ruolo di centro flessibile, nel senso che sia lui che Serge Ibaka – un altro giocatore a cui sono molto affezionato e che ci dà una dimensione un po' diversa da Marc – sono giocatori molto complementari. Quindi in funzione dell'avversario o del momento scegliamo di utilizzare più uno o l'altro. Ibaka lo sta aiutando molto ad adattarsi e comunque Marc è un ragazzo intelligente, capace di aggiornare molto velocemente le sue conoscenze. Direi che il suo inserimento procede molto bene”.

Kawhi Leonard. La scommessa è trattenerlo a fine anno. Quali sono le sue impressioni? Quale sarebbe eventualmente il piano B, dovesse andare via a fine stagione?

"Soprattutto qui nella NBA c’è forte separazione fra l'area del management e quella della
conduzione tecnica, e io faccio l’allenatore. Ovviamente noi siamo molto contenti di avere Kawhi e saremmo felicissimi di averlo anche l'anno prossimo. Ci sono in ballo tantissime componenti,
alcune delle quali possiamo controllare e altre no, compresa la competizione di tante altre squadre ovviamente interessate a un giocatore forte come Leonard. Dal nostro punto di vista credo che fin qui abbiamo fatto e stiamo continuando a fare assolutamente del nostro meglio per metterlo nelle condizioni tecniche ideali per tornare al suo livello migliore, prestando molta cura alle sue condizioni fisiche, risparmiandolo quando è necessario e aiutandolo in ogni modo in questo processo di recupero dopo quasi un anno intero di inattività. Meglio e di più non potevamo fare, credo. Poi è chiaro che le decisioni finali saranno sue e soltanto sue, ma comunque la prossima estate il mercato dei free-agent offrirà talmente tante opzioni che credo sia molto difficile che in un modo o nell’altro i Raptors non avranno un top player. Ovviamente noi speriamo che quel giocatore sia Kawhi Leonard”.

Come giocatore e persona com’è? Silenzioso ma leader, giusto?

“È un leader per l’esempio che porta in campo, pazzesco al punto che i suoi numeri di rendimento difensivo sull'uno contro uno in qualunque zona del campo credo non li abbia nessuno in tutta la lega. In più è un giocatore da quasi 30 punti a partita, che segna con buone percentuali. Dal punto di vista del rendimento quindi la sua leadership è unica e innegabile. Poi abbiamo altri giocatori come Kyle Lowry che è un ragazzo molto brillante, estroverso e loquace, la cui leadership vocale sicuramente compensa quella di Leonard. Lui è un giocatore con una influenza molto pesante sul nostro rendimento ma a proposito di leadership devo citare sia Fred VanVleet – altro elemento di grande personalità, capace di guidare la nostra second unit – e pure Marc Gasol. A questo punto si tratta più di armonizzare le diverse tipologie leadership, ma le buone dinamiche personali che si sono sviluppate fra i nostri giocatori mi lasciano abbastanza ottimista”.

Come spiega l'esplosione di Pascal Siakam?

"Credo sia la conseguenza di un naturale processo di evoluzione perché Pascal è un giocatore con un talento naturale incredibile, che mi aveva già sorpreso durante i nostri allenamenti estivi. In difesa deve ancora migliorare ma sta dimostrando di poter arrivare a essere un giocatore di alto livello su entrambi i lati del campo. Offensivamente la sua velocità, la sua visione di gioco, il trattamento di palla in rapporto all'altezza e ora anche la sua consistenza nel tiro da tre punti dagli angoli sono davvero incredibili. Quando completerà la sua evoluzione sia a livello difensivo che fisico, perfezionando anche la sua crescita nel tiro da tre punti in altre zone del campo che non siano gli angoli, lo vedo come un sicuro All-Star: mi sorprenderei molto se questo ragazzo non arrivasse a giocare una partita delle stelle nel giro di uno/due anni”.

La ricetta del successo di una squadra vincente come i Raptors: quanto contano in percentuale le componenti mentali, fisiche e tecniche?

“Fare dei numeri è difficile pero è chiaro che la consistenza mentale è importante perché in una stagione lunga come quella NBA non è difficile perdere due, tre partite consecutive. A noi finora è successo un paio di volte, può capitare, ma l’importante è essere immediatamente capaci di rispondere. Evitare una striscia negativa è più un fattore mentale che altro. L'aspetto fisico poi è ovviamente importantissimo: noi abbiamo avuto diverse assenze dovute a infortuni di piccolo/medio livello e questo ci ha un po' limitato sia nella consistenza che nella continuità. Poi ci sono le risorse tecniche, componente anche questa importante: la squadra è cambiata decisamente nel corso dell'anno, ha avuto un paio di movimenti in corso d'opera che le hanno dato maggiore versatilità e profondità. Da questo punto di vista siamo ancora in una situazione un po' da lavori in corso, cercando di ottenere il meglio dai nuovi arrivati, Marc Gasol e Jeremy Lin, che lasciano intravedere dei discreti margini di miglioramento”.