Intervenuto a Sky Sport 24, Flavio Tranquillo ha raccontato la sua versione di Manu Ginobili, che nella notte ha visto la sua maglia numero 20 ritirata dai San Antonio Spurs. "Mike D’Antoni mi diceva: Ginobili non è uno dei dieci, venti o forse neanche trenta più forti in NBA, ma è uno dei dieci più decisivi. Che è tutta un’altra cosa"
Tutto il mondo della NBA nella notte si è idealmente stretto attorno a San Antonio, dove gli Spurs hanno celebrato una delle proprie leggende ritirando la maglia numero 20 di Manu Ginobili. Un campione che Flavio Tranquillo ha avuto l’opportunità di conoscere e commentare da vicino nell’arco della sua inimitabile carriera, che pure non è stata esattamente semplice agli inizi. “Ha avuto difficoltà anche prima di diventare professionista, visto che la madre non lo voleva neanche mandare a giocare dicendogli ‘Ma dove vai, pesi venti chili bagnato…’” ha raccontato in un intervento con Sky Sport 24. “Poi quando hanno cominciato ad offrirlo in Europa insieme a Fabricio Oberto, al Barcellona hanno detto ‘Non siamo interessati’, e da lì è andato a Reggio Calabria. Alla prima partita di Eurolega ha chiuso con zero canestri ed Ettore Messina ha detto ‘E questo sarebbe il nostro miglior giocatore?’. Poi a fine stagione ha vinto l’MVP. Dulcis in fundo, a me è capitato nel novembre del 2002, alla sua stagione da rookie in NBA, di vedere una partita in cui San Antonio era avanti di 20 nell’ultimo quarto e Gregg Popovich lo ha messo in panchina tre volte nel giro di quattro minuti. Dentro, fuori, dentro, fuori, dentro. Questo è uno che ha avuto la testa più dura degli altri, c’è poco da dire. Perché non ha preso tutto quello che gli è successo come una mancanza di rispetto o come montagne impossibili da scalare, ma come problemi da risolvere. E li ha risolti tutti”.
Il ruolo da sesto uomo
Nel corso della sua carriera Ginobili si è spesso “limitato” a un ruolo in un uscita dalla panchina per il bene della squadra. E anche se avrebbe avuto l’opportunità di giocare da altre parti con ruoli maggiori, ha sempre preferito rimanere a San Antonio. “Perché onestamente è uno dei pochi che ha un piacere profondo di giocare a pallacanestro e di fare la vita del giocatore di pallacanestro” ha spiegato Tranquillo. “Il che non significa che fosse ossessionato dal basket: in molti hanno correttamente ricordato come abbia una curiosità su qualsiasi altro argomento davvero ragguardevole. Però per lui giocare e vivere la pallacanestro in un certo modo era fondamentale. E aver trovato, un po’ per caso, quel tipo di contesto a San Antonio, gli ha fatto pensare: ‘Io resto qui volentieri’. Mike D’Antoni una volta mi ha detto: lui non è uno dei dieci, venti o forse neanche trenta più forti in NBA, ma è uno dei dieci più decisivi in NBA, che è tutta un’altra cosa. Perché se ne facciamo una questione di quanti tiri, quanti punti e quanti assist ha fatto, non siamo a determinati livelli. Per fortuna però la pallacanestro, come tutte le cose, va un po’ oltre la superficie”.
L’adattamento alla "Spurs Culture"
Questo non significa che a San Antonio sia andato tutto per il verso giusto fin dall’inizio, anche con qualche suo compagno che ha provato a metterlo alla prova. “Bruce Bowen è un giocatore che ha incarnato a lungo il senso di cosa sono stati San Antonio Spurs: un grande difensore, certo, ma anche un giocatore limitato che con la mentalità è arrivato a un certo livello. Quando Manu, nell’estate del 2002 prima di partire per il ritiro con la nazionale argentina, è andato a vedere San Antonio e cercare casa, ha fatto una partitella con Tim Duncan e Bowen, con il secondo che gli ha riservato il ‘trattamento Bowen’: sgambetti, trattenute, provocazioni. Duncan ha raccontato giusto ieri notte come vedendo questo argentino che non faceva neanche una piega davanti a uno che poteva essere molto noioso come Bowen avesse capito che il test era stato superato”.
Conquistati i compagni, Ginobili ha anche dovuto fare breccia nel cuore di un allenatore molto esigente come Gregg Popovich: “Tutti noi che lo conoscevamo dai quattro anni passati in Italia tutto sommato vedevamo questa componente ‘selvaggia’ del gioco di Manu, ma in maniera molto più sfumata di quanto la vedesse Popovich” ha raccontato Tranquillo. “La realtà è che gli Spurs avevano appena vinto nel 1999 il primo titolo e lo avevano vinto con un sistema e una cultura di squadra molto rigida, sia nel bene che nel male. Popovich all’inizio esprimeva l’incapacità culturale di comprendere uno che faceva cose non rigide, ma che non erano neanche follie in senso assoluto. Sì, ogni tanto esagerava con un passaggio, però anche Pop ha capito che dopo ogni esagerazione arrivava una giocata di grande mentalità. La realtà è che in una realtà meno rigida, lui non avrebbe avuto questa importanza; lì invece era il fattore anomalo che dava un minimo di diversità culturale, ed è stato l’uomo giusto al posto giusto”.
La curiosità come chiave del successo di Ginobili
Ciò che lo ha reso uno dei migliori giocatori internazionali di sempre — e di sicuro un prossimo Hall of Famer — è la capacità di andare oltre quello che si trovava davanti ai suoi occhi: “Senza la componente agonistica o fisica, ovviamente non sarebbe stato possibile nulla. Ma la curiosità che aveva Manu è stata molto sottovalutata. Non si può nascere con il dono di capire la pallacanestro, soprattutto nei tempi infinitesimali che sono richiesti per poter eccellere a quel livello. Lui non è nato con questa dote, ma l’ha maturata perché la curiosità con cui affronta la vita lo ha portato ad approfondire ogni cosa. Ancora oggi se hai bisogno di una notizia basta contattarlo per sapere che lui ce l’ha. Poi te la può dare o non te la può dare, ma lui sa tutto. Appena arrivato nella NBA aveva visto una lavagna in spogliatoio e mi ha detto ‘Questa è come quella che avete a Tele+’. Perché comunque lui studiava tutto, anche quello che facevamo noi in tv, così come i giornali locali prima ancora di sapere bene l’inglese. È un grande programmatore, e questo lo ha aiutato tantissimo”.