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NBA: Jaylen Brown, un giocatore acuto, irrequieto e molto diverso dagli altri

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Intelligente, curioso, pieno di interessi: il n°7 dei Celtics è un giocatore unico nel suo genere. Una persona piacevole da ascoltare - ospite per la seconda volta del MIT di Boston - anche quando non si parla di pallacanestro, ma di vita, futuro e tecnologia

LE CRITICHE DI IRVING A COACH STEVENS

IL VOLO CHE HA CAMBIATO LA STAGIONE DEI CELTICS

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Spesso un microfono, una domanda, l’obbligo di parlare di quanto accaduto sul parquet, mette in difficoltà atleti in grado di gestire pressioni e sfide ben più complicate da vincere. Spesso durante conferenze stampa e interviste a fine gara assistiamo a scene piene zeppe di retorica, frasi fatte e dichiarazioni che sanno di compitino imparato a memoria. Alcune volte però, ci sono giocatori che dimostrano di avere qualcosa da dire. Di non volersi fermare soltanto alla superficie delle cose. Di essere curiosi ben oltre quanto ci si aspetterebbe da un uomo che ha deciso di dedicare la sua vita e i suoi sforzi al solo scopo di diventare un giocatore NBA. Jaylen Brown entra di diritto in questa categoria di persone: acuto, brillante, irrequieto nella sua spasmodica ricerca di conoscenza. “É sempre stata nella mia indole l’attitudine a pormi delle domande e cercare di capire perché le cose stanno così - racconta in una lunga intervista rilasciata a GQ - da quando ero piccolo, mi sono sempre chiesto la ragione che stava dietro ciò che mi circonda. Non ho mai avuto paura a fare domande a chiunque, a non assecondare l’idea dominante e a cercare una mia risposta alle mie inquietudini”. E tutto questo ha portato il giocatore dei Celtics a riempire la sua vita di libri, letture impegnate, lezioni di pianoforte e interminabili partite a scacchi contro sé stesso. L’avversario migliore contro cui gli piace confrontarsi, in una sfida continua come quella che lo accompagna “sin da quando ne ho memoria”. Il modo migliore per accrescere la propria conoscenza.

Brown “Un leader sa che dal basso possono arrivare le idee migliori”

Intervistato a margine del suo secondo intervento al Media Lab organizzato dal MIT di Boston - era già stato invitato dopo essere diventato un giocatore dei Celtics - Brown riesce con evidente arguzia a mescolare il piano della discussione del suo intervento (“Dopo l’ultima partita ho finito di leggere il libro del direttore del Media Lab, dal quale ho tirato fuori più di cinque pagine di appunti”) con gli interrogativi che l’esperienza ai Celtics inevitabilmente fa scattare nella sua testa: “Uno degli argomenti principali trattati nel libro è la capacità di far emergere le idee andando oltre l’autorità a cui compete la gestione. Molte volte siamo portati ad accettare passivamente ciò che la struttura ci impone, al posto di lasciare spazio alla creatività che ci circonda. Dovrebbe esserci un approccio che va dal basso verso l’alto: il capo e i suoi sottoposti sono ugualmente importanti. Hanno bisogno l’uno degli altri per sopravvivere, e spesso ce ne dimentichiamo. Lo si vede spesso purtroppo anche nello sport, quando un allenatore ignora ciò che gli viene consigliato da un assistente, o il leader dello spogliatoio non ascolta il rookie. Un approccio del genere non spinge chi sta sotto nelle gerarchie a sentirsi stimolato, a essere creativo e diventare componente fondamentale per il successo. Se sei un leader del genere, gli altri al massimo possono recitare il ruolo dei follower, dei seguaci. Se invece si fanno circolare le informazioni, i consigli, si lavora insieme, l’ambiente generato da un’esperienza di questo tipo permette di affrontare al meglio le sperimentazioni, i fallimenti e porta alla crescita di tutti”. Ogni riferimento a Kyrie Irving sarà anche puramente casuale, ma l’associazione logica appare immediata.

Gli hobby e la disciplina: “Tante decisioni sbagliate sono frutto della noia”

La vita e la sua gestione da professionista è soltanto questione di attenzione e disciplina: “Non penso che esistano delle formule universali, qualcosa che permetta a tutti di restare concentrati e focalizzati sull’obiettivo. Io cerco di mantenere una disciplina che mi sono imposto durante la stagione, lontano dalle distrazione e curo il più possibile ciò che mi interessa. Avere degli hobby lontano dal parquet aiuta: suonare il piano, leggere, scrivere, guardare la TV; tutto distrae la tua mente, la tiene lontana dal campo e ti permette poi di focalizzarti meglio. Prima che tu te ne accorga, magari sono già volate via quattro ore. Un sacco di pessime decisione sono frutto solo ed esclusivamente della noia. Per questo cerco di tenermi sempre impegnato, per evitare di scegliere in maniera sbagliata”. Un po’ come negli scacchi: “Quel gioco è una delle cose più importanti che ho imparato a fare da bambino. Ho iniziato a giocare a quattro anni e ti insegna a prendere rapidamente delle decisioni. Proprio come nella vita. Ci sono milioni di modi differenti per affrontare una partita a scacchi, ma tu devi saper scegliere il migliore possibile per battere il tuo avversario. Quando gioco, lo faccio quasi sempre da solo. Come succede tutti i giorni, sei sempre tu il più grande avversario di te stesso”. Un modo per uscirne sempre vincitore? “Dipende dalla prospettiva da cui guardi le cose: se giochi da solo sei portato a distrarti, a far vagare la mente. È un modo per mettere alla prova il livello di concentrazione. E per far ridere gli altri che ti vedono passare da solo da un lato all’altro della scacchiera”.

Brown: "La mia vita non può dipendere dal risultato di una gara di pallacanestro"

Non parlare di basket in una lunga chiacchierata con Brown non è un problema. Anzi, a leggere le sue parole non viene neanche il dubbio che la pallacanestro possa rientrare in maniera polemica all’interno del discorso. “Io sono positivo nei confronti dello sviluppo, credo che l’innovazione - l’argomento di cui si discute qui al MIT e al quale mi sto interessando negli ultimi tempi - sia la chiave per rendere il mondo un posto migliore. Bisogna prendersi dei rischi per sperare di avere successo. Sentirsi al sicuro non porterà mai nessuno da qualche parte, mentre osare spesso ti costringe a ripensare te stesso. Sono sempre ottimista di fronte a qualcosa di nuovo, una scoperta che allarghi l’orizzonte delle mie conoscenze. Sono cose a cui mi appassiono, che voglio approfondire, di cui cerco di fare parte”. La profondità di pensiero di un ragazzo così giovane che passa gran parte del suo tempo in palestra a lavorare sul suo fisico da atleta - a guardare la facilità con schiaccia ed esegue le indicazioni di coach Stevens, si capisce che è uno sforzo che porta i suoi frutti - è sorprendente: “Ho imparato a separare le cose buone da quelle che possono avere una pessima influenza su di me. Sono il primo a essere esigente con me stesso, ho imparato con il tempo fino a che punto spingermi. C’era un tempo in cui avevo delle evidenti ricadute anche a livello fisico ogni volta che perdevo. Quando all’high school abbiamo perso il titolo di campioni statali, ero molto depresso. Mi è venuta la febbre. In quel momento ho capito che era un problema, che non potevo associare una così grande fetta della mia vita al risultato di una partita di pallacanestro. Sia nel caso di vittoria che di sconfitta. Ci sono molte altre cose a cui dover pensare”.