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NBA Finals, "Board man gets paid": gli anni al college di Kawhi Leonard

NBA

Un giornalista di The Athletic ha chiesto a compagni, allenatori e assistenti di Kawhi Leonard a San Diego State di raccontare come fosse la stella dei Raptors ai tempi dell’università. Ne è venuto fuori il ritratto di un ragazzo ossessionato dalla pallacanestro e dalla voglia di migliorare, in particolare sui rimbalzi perché "il rimbalzista piglia i soldi"

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Una delle cose più belle delle NBA Finals è che, con sole due squadre sotto i riflettori dell’intera lega, il mondo giornalistico si scatena alla ricerca dell’angolo più particolare per raccontare al meglio i protagonisti in campo. In casa Toronto Raptors, inevitabilmente, l’uomo più in vista è Kawhi Leonard, il quale però è notoriamente poco incline alla collaborazione con i media per far sapere qual è il suo pensiero. Anzi, il suo intero “personaggio” si basa proprio sul fatto di rendere imperscrutabile quale sia la sua opinione o i suoi interessi. Per questo una tecnica giornalistica piuttosto usata è quella di chiedere una sua descrizione alle persone attorno a lui che lo conoscono da prima che diventasse famoso, il che è esattamente ciò che ha fatto Jayson Jenks di The Athletic. Il giornalista ha chiesto a diversi compagni, allenatori e assistenti di Leonard ai tempi del college a San Diego State di raccontare come fosse Kawhi a 18 anni, e il ritratto che ne è emerso è esattamente quello che ci si aspetterebbe: un ragazzo interessato alla pallacanestro e a nient’altro, sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene da ogni allenamento, ossessionato dai video di Michael Jordan che consumava anche per quattro o cinque ore al giorno e dalle sfide per migliorarsi anche nei momenti morti della giornata, tirando con la mano sinistra (per allenarla, ovviamente) al canestro-giocattolo appeso in stanza e sfidando gli altri a batterlo.

"Board man gets paid", il mantra di Kawhi

Uno degli aneddoti più interessanti riguardo Kawhi è la sua espressività ridotta al minimo, quella che abbiamo imparato a conoscere anche nella NBA. Leonard, come ci si poteva immaginare, parlava pochissimo: anche solo per dire “andiamo al negozio” o “andiamo a fare un giro”, lui diceva solamente “I’m up”, io vado. Senza specificare null’altro, lasciando un po’ interdetti i suoi compagni di squadra che dovevano interpretare il suo pensiero. Solamente in campo diventava più vocale, ma anche lì parlava come un automa usando frasi fatte: quando segnava un canestro diceva solo “Bucket” oppure “Layup”, quando difendeva su un avversario impedendone i movimenti continuava a dire solo “No. No. No.” ad ogni passo. La frase che ripeteva più spesso, tanto da diventare quasi un mantra, era un’altra: “Board man gets paid”, il rimbalzista prende i soldi. La diceva ogni volta che conquistava un rimbalzo, una delle cose che più gli dava soddisfazione (non a caso ha chiuso per due volte su due come miglior rimbalzista della Mountain West Conference). Dice coach Hutson: “Una volta che lo diceva una volta, lo ripeteva altre 50. 'Rimbalzista, io sono un rimbalzista. Il rimbalzista prende i soldi'. Parlava per frasi fatte ripetendole ossessivamente”. Il suo compagno di squadra Tim Shelton, invece, lo caratterizza così: “Se faceva una battuta, al massimo ci metteva una o due frasi, e poi si lasciava andare a un ‘Yeeeeee’. Faceva più versi che vere e proprie parole”.

L’etica del lavoro e l’ossessione per i video di Michael Jordan

Gli aneddoti sulla sua etica del lavoro, ovviamente, sono leggendari. Leonard era solito allenarsi a qualsiasi ora del giorno e della notte, tanto che nessuno riusciva ad arrivare in palestra senza trovarselo davanti a tirare (“Conoscendolo, probabilmente rimaneva apposta per essere sempre l’ultimo. Sul serio” dice coach Hutson) e portandosi dietro una lampada per poter tirare anche a notte fonda quando venivano spente le luci della palestra. Anche alla sua visita al campus l’unica cosa che gli interessava era il campo di allenamento e misurarsi coi compagni, senza alcun interesse per tutti gli altri aspetti della vita universitaria. I suoi amici dicono di averlo visto a un party solamente una volta, rimanendo sempre in disparte e andandosene per primo — probabilmente per andare ad allenarsi. Anche nei momenti in cui non aveva un pallone in mano, prendeva il suo smartphone e guardava le partite di Michael Jordan a ripetizione. “Appena finita la partita cercava ‘Michael Jordan’ su YouTube. Immediatamente. Non mandava nessun messaggio, solo video di Mike. Tutto il giorno, tutti i giorni. E non ne parlava mai. Il coach aveva messo la regola che impediva di usare il cellulare alle cene di squadra, ma Kawhi se lo metteva sulla coscia e continuava a guardarli. Diceva sempre ‘Io sono Mike. A voi piacciono LeBron e Kobe? Sì, sono forti, ma io voglio essere Mike, voglio essere il migliore’. Non voleva nient’altro”. 

La frustrazione in difesa: "Perché non difendono come faccio io?"

Essere così nel proprio mondo, però, ha anche degli effetti negativi. Leonard, infatti, era solito lamentarsi delle regole di aiuto difensivo della squadra, senza riuscire ad afferrare il motivo stesso della loro esistenza. “Diceva sempre: ‘Coach, non capisco. Perché non riescono a stare davanti al loro uomo come faccio io? Perché devo aiutare dal lato debole?’” racconta sempre Shelton. “Quello è l’unico commento che gli ho sentito fare sulla difesa: ‘Dovrebbero stare davanti al loro avversario come faccio io’. Proprio non riusciva a capire perché gli altri non riuscivano a fare ciò che faceva lui”. Leonard inoltre era solito imporre ai suoi compagni di non aiutarlo in difesa, assicurando di potercela fare da solo a marcare il suo diretto rivale, che spesso era il migliore degli avversari — tra cui anche giocatori NBA come Paul George, Allen Crabbe o Jimmer Fredette. “La sua mentalità era: ‘Se io non ho bisogno di aiuto, perché voi ne avete bisogno?’” ha raccontato un altro compagno di squadra, D.J. Gay. “Però quell’atteggiamento ci ha reso migliori. La prendavamo sul personale perché ci metteva alla prova: se Kawhi non aveva bisogno di aiuto, non ne avevo bisogno neanche io. E così siamo diventati una delle migliori difese d’America”. Poi dopo due anni Leonard è andato in NBA, dove dalla posizione numero 15 al Draft 2011 è passato al premio di MVP delle Finals nel giro di tre stagioni. Ma tutto è cominciato a San Diego State, tra un rimbalzo, una frase fatta e un video di Michael Jordan e l’altro.

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