La guardia dei Celtics contesta il metro arbitrale utilizzato nei suoi confronti e chiama apertamente in causa il suo allenatore: "Quando vengo preso di mira dagli arbitri vorrei che prendesse le mie difese. Se non lo farà, continuerò a proteggermi da solo"
Un giocatore che porta in campo il cuore, un agonista, un lottatore. Marcus Smart è conosciuto così, a Boston e nel resto della lega. Uno che non ha paura a sporcarsi le mani, a buttarsi per terra per un pallone vagante, a lottare fino all’ultimo. La sua carica agonistica è quello che gli ha permesso di arrivare nella NBA. La sua carica agonistica è anche quello che ogni tanto lo mette nei guai. Come durante la gara con Charlotte, quando a metà del terzo quarto si è visto fischiare il quinto fallo della sua serata, in attacco, arrivato una decina di secondo soltanto dopo un altro fischio degli arbitri che lo aveva penalizzato in difesa su Devonte Graham. Col quinto fallo arriva anche la sostituzione ordinata da coach Stevens, la goccia che fa traboccare il vaso e dà il via alla feroce arringa della guardia dei Celtics, contro tutto e tutti. Gli arbitri, per primi. “Vorrei soltanto che fischiassero in maniera corretta. Tanti dei falli che fischiano, davvero non li capisco. Perché poi quando sono in attacco io, invece, a me non fischiano mai un fallo”. Smart però ha un messaggio anche per il suo allenatore: “Quando mi ha sostituito gli ho detto che in quelle occasioni – quando io sento che gli arbitri se la stanno prendendo con me, e che lo fanno volontariamente – mi aspetto che lui arrivi a difendermi, che si schieri con me e prenda le mie posizioni. Gli ho detto che finché non lo farà, allora ci penserò da solo”. Una posizione forte, poi ammorbidita con parole un po’ meno abrasive: “Capisco il punto di vista di Brad ma da giocatore mi piacerebbe che prendesse di più le mie difese”. Dall’uscita dal campo ci sono voluti tre minuti abbondanti prima che il giocatore dei Celtics sbollisse la rabbia, fino alle scuse presentate al suo allenatore davanti a tutti i suoi compagni al successivo timeout di squadra. “La mia relazione con Brad è questa, sono qui da sei anni ed è successo più di una volta. Ma poi finisce lì, giriamo pagina e andiamo avanti”. “D’altronde questa è la parte di Marcus che amo di più, no?”, si chiede coach Stevens. “Quel fuoco dentro con cui scende in campo, la sua voglia di competere. Se c’è un momento in cui ce l’ha con me o con i suoi compagni, va bene, fa parte del gioco. Ma poi l’importante è andare avanti. Mi hanno urlato contro più di una volta, e mi sta bene. Amo Marcus, ho fiducia in lui. Abbiamo bisogno di lui e lui lo sa, perché gliel’ho detto tante volte. Non saranno mai le opportunità, a mancargli”. Tanto è vero che Stevens – nel quarto quarto – non ha problemi a rimettere in campo il suo giocatore. Che però ne aveva ancora, stavolta nuovamente per gli arbitri. “Quando Miles Bridges mi ha spinto a terra gliel’ho detto: ‘Se avessi fatto io una cosa del genere, mi avreste di sicuro buttato fuori dalla partita”. Per il giocatore degli Hornets invece soltanto un tecnico. “Gli arbitri ci chiedono sempre di lasciarli arbitrare, di permettere che siano loro a risolvere questo tipo di questioni. E io ci sto. Però devono farlo. Altrimenti ci penso da solo. Perché un giocatore, prima ancora un uomo, alla fine deve poter proteggersi”. E questa, detta da Smart, sembra quasi una minaccia.