Please select your default edition
Your default site has been set

NBA, intervista esclusiva a Shawn Marion: "Il titolo possono perderlo solo i Nets"

ESCLUSIVA

Dario Vismara

Il campione NBA Shawn Marion ha parlato in esclusiva con Sky Sport della sua carriera, di chi vincerà il titolo e delle stagioni di Phoenix e Brooklyn, che si affrontano domenica sera alle 21.30 su Sky Sport NBA e in streaming aperto a tutti su SkySport.it. "Phoenix sta giocando molto bene, ma i Nets con i giocatori che hanno possono solo perdere questo titolo. Quando giocavo mi arrabbiavo se parlavano troppo del mio tiro"

Sono passati quasi sei anni da quando Shawn Marion ha giocato la sua ultima partita in NBA. E forse proprio essersi allontanati così tanto dai sui giorni sul parquet fa apprezzare maggiormente un giocatore che ha anticipato molte delle caratteristiche che oggi vediamo in campo. Il soprannome era futuristico — “The Matrix”, datogli da Kenny Smith in una delle sue prime apparizioni proprio perché sembrava uscito dal film che dominava l’immaginario collettivo in quegli anni —, ma anche il resto del suo gioco era avanti, permettendo ai Phoenix Suns di Mike D’Antoni e di Steve Nash una versatilità che nessuno poteva permettersi in quegli anni. Di questo e di molto altro tra presente e passato ha parlato in esclusiva per SkySport.it, anticipando la sfida tra Brooklyn e Phoenix che si potrà seguire domenica sera alle 21.30 in diretta su Sky Sport NBA e in streaming aperto a tutti sul sito di Sky Sport. D’altronde chi meglio di lui, che ha passato le sue prime nove stagioni in Arizona e conosce più che bene i due leader della panchina dei Nets in Nash e D’Antoni? Ma pur essendo vicino a entrambe le squadre, Marion non si è risparmiato — come quando ai tempi in cui giocava tutti parlavano del suo strano tiro in sospensione, facendolo decisamente arrabbiare.

Domenica trasmetteremo in live streaming la sfida tra Phoenix e Brooklyn. Cosa pensi della stagione dei Suns fino a questo momento? Pensi che possano arrivare fino in fondo nella Western Conference?

“Non saprei, sarà difficile. La Western Conference è molto dura, però stanno avendo una grande stagione. Verrebbe da dire che tutto può succedere ai playoff. È un pensiero molto ottimista, ma stanno giocando molto bene, sono secondi in classifica e posso immaginarmeli superare il primo turno dei playoff, ma già dal secondo turno le cose potrebbero farsi difficili. Quello per loro sarà il vero test”.

 

Ti ha sorpreso vedere Steve Nash prendere la panchina dei Brooklyn Nets?

“No, non mi ha sorpreso. Era una grande situazione per lui: tanti altri allenatori avrebbero voluto prendere un posto del genere, con Kevin Durant e Kyrie Irving in squadra e i mezzi necessari per raggiungere James Harden. A chi non piacerebbe? Non c’era neanche da stare a pensarci”.

 

Cosa ne pensi della sua prima stagione da capo-allenatore con Mike D’Antoni come assistente?

“Sta ancora imparando. È la sua prima esperienza, ma è in giro da abbastanza anni per cavarsela. Con quei giocatori che ha a disposizione poi basta solo dargli le chiavi della macchina e poi ci pensano loro. Steve deve solo controllare la destinazione in cui stanno andando, perché loro sanno già come si guida. Non c’è molto altro da dover fare”.

suns_nets_streaming

approfondimento

Brooklyn-Phoenix in streaming aperto a tutti

Shawn Marion in maglia Suns

Parlando della tua carriera: com’era giocare per quei Suns con Nash e D’Antoni? Avevi la sensazione in tempo reale che il vostro stile avrebbe cambiato il modo in cui si gioca in NBA per gli anni a venire?

“A dire il vero non ci pensavo al tempo. Molte squadre già provavano ad emularci, e noi essenzialmente giocavamo come ora si gioca nella NBA di oggi, con lo small ball e la versatilità dei lunghi di questa era, oltre alla mancanza di centri tradizionali. Ora i lunghi vogliono giocare da piccoli e i piccoli vogliono giocare da lunghi. Ma è una situazione in continuo mutamento, con l’evoluzione del gioco, il talento e le capacità di questi giocatori. È una pallacanestro più divertente”

 

Al tempo in cui giocavi la tua versatilità non era la norma, mentre oggi tutti sembrano cercare quelle ali nelle posizioni di 3-4 capaci di marcare più posizioni e giocare senza palla: ti senti un precursore di questo tipo di giocatori che tutti inseguono?

“Sì, ma adesso è facile giocare così: se non ci sono lunghi che giocano in post basso, è facile andare piccoli. Tutti vogliono tirare da tre, perciò non è difficile preparare uno schema contro questo tipo di gioco. Il ritmo è talmente alto da aver cambiato il modo in cui si gioca in campo, ed è più facile andare in transizione”.

 

Nelle finali del 2011 hai fatto un lavoro per certi versi sottovalutato su LeBron James, rendendogli la vita difficile e contribuendo alla sua peggior serie in carriera. Qual era il piano partita per fermarlo?

“È stato uno sforzo di squadra. Eravamo io, DeShawn Stevenson, Jason Kidd, ma un po’ tutti lo abbiamo marcato, non solo io. Cominciavo io le partite su di lui, ma se si guardano i dati ho marcato per più tempo Dwyane Wade nel corso della serie. La cosa più importante era non farlo sentire a suo agio, togliergli le soluzioni che voleva prendersi. Quando riesci a preparare la partita, eseguire il piano gara e avere tutti concentrati in quella maniera, è una sensazione eccezionale. Avere tutti i giocatori che fanno quello che serve fare, senza permettere agli altri di eseguire quello che vogliono fare in campo”.

 

L’idea nello specifico era di togliergli il pitturato e costringerlo a tirare?

“Erano molte cose diverse assieme. Volevamo prenderlo fin dalla rimessa e farlo lavorare su 28 metri di campo per farlo stancare, poi abbiamo cercato di togliergli i canestri facili senza farlo arrivare al ferro per i sottomani. Quindi abbiamo deciso che, se ci avesse battuto, avrebbe dovuto farlo tirando in allontanamento o in sospensione”.

Per gran parte della tua carriera si è parlato del tuo particolare stile di tiro: ti dava fastidio che tutti si concentrassero su quello e non su tutto il resto che riuscivi a fare in campo in maniera speciale?

“È divertente che tu me lo chieda. Quando giocavo mi faceva molto arrabbiare, perché sembrava che non si parlasse nient’altro che non del mio tiro. Ma la realtà è che nessuno nella lega tira in maniera uguale a un altro: tutti hanno un tiro strano, ogni tiro è unico. Perciò pensavo che stessero sminuendo tutto il resto che facevo in campo. Ma le mie statistiche parlano da sole: era una mancanza di rispetto parlare solo di quello. Ma non me ne potrebbe importare di meno: andavano dentro, e tiravo meglio di molta altra gente che tirava in maniera ‘consueta’ o con ‘il tiro perfetto’. Ma non rendevano giustizia alle cose che sapevo fare in campo per quella che era la mia stazza, ma tutti insistevano su quello. La cosa triste è che i media va così: si crea una narrativa e tutti ci vanno dietro, anche i tifosi, perché quello di cui si parla poi rimane come base della discussione”.

 

Hai mai pensato di cambiare la meccanica?

“Perché avrei dovuto? Come ho detto: tutti tiravano in maniera diversa. A volte capita che qualcuno debba cambiare il proprio tiro perché a qualcuno non piace, ma se ci lavori con costanza e ne segni abbastanza, allora può funzionare. E se funziona per te, perché ti ha portato a giocare in NBA, allora bisogna solo rimanere costanti nel replicarlo. Nella NBA conta la continuità, il duro lavoro e quanto ci metti la testa: spesso capita che dei giocatori comincino a cambiare la meccanica ma non ne hanno un beneficio, ma molto spesso conta soprattutto come spezzi il polso, avere continuità e avere le opportunità di tirare in campo”

 

Oggi tutti sembrano cercare i sottomani e le triple, ma tu avevi un talento particolare per i tiri in avvicinamento o i floater con cui sorprendevi tante difese: è un tiro su cui hai lavorato o ti veniva naturale?

“Io ero un realizzatore. E quando sei un realizzatore, sai segnare in ogni modo: in post, al ferro, con la tecnica, con i ganci, con i tiri in corsa, fino ai tiri dalla media distanza e da tre punti. Pensateci un attimo: molti giocatori non sono in grado di farlo. Non tutti hanno un gioco di tocco, mentre i realizzatori sanno segnare in più di un modo. È la differenza che esiste tra uno che sa segnare e uno che sa tirare: i tiratori sono limitati a tirare la palla. Giocatori diversi fanno cose diverse: quando sai segnare, trovi sempre nuovi modi per riuscire a mettere la palla nel canestro”.

 

Ultima domanda: chi vince il titolo quest’anno e perché.

“In questo momento gli infortuni sono una piaga. Ci sono tanti giocatori forti con problemi, ma penso che il titolo sia nelle mani di Brooklyn e solo loro possano perderlo. Non vedo nessuna squadra in grado di batterli in una serie al meglio delle sette partite. Sono l’unica squadra in grado di segnare 150 punti senza nessun problema. Davvero nessuno. È irreale. Non mi interessa neanche che difendino poco, se possono segnarne 150 ogni sera. Ed è pazzesco”.