Il giocatore della Virtus Bologna, con un grande passato e un titolo NBA vinto con i San Antonio Spurs in carriera, è stato ospite d'eccezione del Jordan World of Flight - spazio unico al mondo inaugurato a Milano. L'occasione per parlare con lui dei suoi ricordi legati a MJ, della sua NBA (diversa da quella di oggi) e di cosa voglia dire aver giocatore per la franchigia di cui lo storico giocatore dei Bulls è ora proprietario
Marco Belinelli ha legato buona parte della sua carriera al mondo NBA, che ora guarda da questa parte dell’oceano Atlantico con curiosità e con grande consapevolezza: ma dovesse oggi ritornare nella lega, quale franchigia sceglierebbe? “Andrei a giocare a Miami: mi piace il loro stile di gioco e sono una squadra che ha una grande organizzazione alle spalle”. Una delle squadre di cui non ha vestito la maglia, a differenza degli Charlotte Hornets del proprietario Michael Jordan - il protagonista della giornata nel corso della quale è stato presentato il Jordan World of Flight; uno spazio unico nel suo genere al mondo in pieno centro di Milano. Sky Sport ne ha approfittato per fare qualche domanda a Belinelli, che ha raccontato di quanto sia cambiato il gioco rispetto ai suoi esordi nella lega ormai 15 anni fa: “Quando sono arrivato negli Stati Uniti, era una pallacanestro completamente diversa: all’epoca i ruoli erano ben definiti, il 5, il 4, ecc. Si giocava con palla dentro/palla fuori, con movimento e tutto il resto: oggi invece è molto più prendi e tira. Per i giovani d’oggi può essere divertente, ma non è la vera pallacanestro. Io sono un po’ old school, ma preferisco un altro tipo di basket”.
Una carriera nata sognando di essere Michael Jordan
Impossibile poi non parlare con Belinelli di Michael Jordan: “Sono cresciuto guardando Jordan: i suoi tiri, lo stile di gioco e tutto il resto. Mi fermavo a osservare anche come arrivava vestito alle partite”. Un’icona di stile anche prima di lanciare il suo famoso marchio: “Da piccolo guardavo una videocassetta con le sue giocate e il giorno dopo al campetto cercavo di imitare tutto di lui: da piccolo dicevo replicando quello che faceva lui che mi sentivo un po’ “Michael Jordan”, poi ovviamente non era così. Ho sempre sognato di giocare contro di lui, ma per ragioni anagrafiche non è potuto accadere. Il post MJ per me è stato Kobe Bryant, con cui ho potuto avere un confronto, un contatto, delle sfide in campo, delle cene insieme fuori. Con Jordan invece ho parlato per la prima volta a telefono quando sono andato a giocare agli Charlotte Hornets: quando poi me lo sono ritrovato nello spogliatoio sono rimasto basito”. Ma cosa rende così magnetico un personaggio del genere: “Dal mio punto di vista è un figo perché è un vincente, ben oltre la semplice questione di stile. E anche nella scansione dei successi: ha trionfato, si è fermato e non appena ha ripreso ha vinto di nuovo”.