Tra quelli in attività, solo 5 giocatori hanno segnato più punti di DeMar DeRozan, che in carriera ne ha messi (finora) 23.582, solo 86 in meno di Steph Curry. Giocando a questo livello per altre tre stagioni, la guardia appena ingaggiata dai Sacramento Kings potrebbe entrare nella top-10 all-time dei migliori realizzatori NBA. Ma se segnare gli è sempre venuto facile, la sua vita lo è stata meno. Come racconta in un libro
Il rumore. E la calma. Non a caso queste sono due delle parole chiave per indagare l’ultima fatica di DeMar DeRozan, che non va cercata nei libri di record della NBA ma che è fatta di pagine e di inchiostro. “Above the noise: my story of chasing calm” (si può tradurre come “Sopra il frastuono: la mia storia alla ricerca della calma”) è il libro che il neo-giocatore dei Sacramento Kings ha dato alle stampe recentemente e che ora sta portando in giro per l’America. Per presentarlo (e venderlo) certo, ma anche per organizzare incontri che divantano la scusa per parlare della sua storia e soprattutta di tutti quelli che, come lui, hanno incontrato il male oscuro della depressione a un certo punto della loro vita. Che per DeRozan è un punto ben preciso: il 7 febbraio 2018. Con un orario preciso: le 3:06 del mattino. O almeno, quello è il momento in cui la superstar NBA, al tempo in forza ai Toronto Raptors, ha reso pubblico – con un tweet – il suo malessere. Era appena tornato a Los Angeles, la sua città, che da lì a poco avrebbe ospitato l’All-Star Game NBA, a cui DeRozan era convocato, tra le stelle più lucenti della lega. Ma qualcosa non andava, e quel qualcosa è ciò che DeRozan ha scelto di raccontare in un libro dopo aver dato via a una discussione – quella sulla cosiddetta “salute mentale/mental health” degli sportivi ad alto livello – che negli anni ha annoverato anche Kevin Love e Michael Phelps, Naomi Osaka e Simone Biles. Perché i campioni sono superstar, ma non sono Superman, e “il nostro lato Clark Kent non lo vede mai nessuno”, ha ricordato DeRozan. Che nato a Compton, quartiere non certo facile di L.A., fin da subito deve nascondere le sue debolezze, per sopravvivere a una realtà domimata dalle gang e da un machismo obbligatorio. Vietato pensare che sia una storia esagerata: “Due miei zii erano membri di alto profilo delle gang: Kevin nei Crips, Lemar nei Bloods”, ammette DeRozan, che aggiunge: “Anche se non facevi parte di una gang, si viveva osservando le loro regole non scritte”.
Le luci, le ombre - e le parole di Gregg Popovich
Il resto della storia – quella di successo – la conosciamo: il talento nel basket, il college a USC, lo sbarco in NBA. Sei volte All-Star, più di 23.500 punti segnati (oltre i 21 di media in carriera), le medaglie d’oro ai Mondiali (nel 2014) e alle Olimpiadi (nel 2016). Ma il resto della storia, quella forse più importante ma sicuramente più difficile e meno raccontata, è il motivo per cui DeMar DeRozan ha deciso di scrivere un libro. Perché, come racconta Gregg Popovich nell’introduzione, “DeMar è stato testimone di cose che nessuno di noi si augura, ma è riuscito a far scelte e prendere decisioni che gli hanno permesso di fuggire a quel destino che per molti invece è diventato realtà […]: finire in prigione, o addirittura morire”.