Come la vita di Steve Kerr è cambiata in 2,10 secondi

Chicago, allo United Center si gioca gara-6 delle NBA Finals 1997, in campo si affrontano i Chicago Bulls di Michael Jordan e gli Utah Jazz di Karl Malone e John Stockton. Il punteggio è sull’86 pari, mancano 11 secondi alla fine e la palla è nelle mani di Jordan, il finale è da scrivere ma molti immaginano già l’epilogo: l’uomo con più buzzer beater messi a segno in carriera ha l’opportunità di chiudere la serie e regalare a Chicago e a sé stesso il quinto titolo NBA. Michael attacca, arriva il raddoppio, forza il tiro? No, scarica in emergenza per non commettere infrazione di passi e da lì passano 2,10 secondi, tempo in cui Stephen Douglas Kerr, detto Steve, riceve, tira e segna diventando per questa volta lui l’eroe. La figura del padre Probabilmente ha voluto emulare il papà: sì, perché Steve nasce nel 1965 a Beirut, in Libano, città dove Malcolm Hooper Kerr ha deciso di costruire la propria famiglia insieme alla moglie Ann Zwicker. Malcolm era un professore a cui il coraggio non è mai mancato. Dopo essersi laureato in scienze politiche e specializzato in ‘studi sul mondo arabo’ negli Stati Uniti decise di tornare in Libano ricoprendo il ruolo di Rettore della American University of Beirut. Scrisse molto sul conflitto arabo-israeliano, diceva la verità così come la vedeva, e il suo impegno per la causa della pace arabo-israeliana e per la costruzione di un'intesa tra il mondo arabo e l'Occidente gli causarono non pochi problemi. Che finirono per portare a un tragico epilogo: il suo assassinio il 18 gennaio 1984, ucciso da due colpi di pistola alla nuca da uomini armati vicini all’organizzazione della Jihad Islamica. È così che cambia radicalmente la vita di Steve: è al suo secondo anno al college di Arizona e si ritrova ad appena 19 anni senza un padre e con tutta una carriera, ma soprattutto una vita, davanti. “Ogni volta che giocavo, pensavo sempre a lui. Tutte le volte che partiva l’inno nazionale non potevo fare a meno di pensare a quanto gli sarebbe piaciuto vedermi lì, anche se forse ci avrebbe creduto a stento”. La NBA da giocatore Steve Kerr decide così di dedicarsi totalmente al suo sport, nel 1988 con Arizona arriva alle Final Four NCAA per poi essere scelto al Draft dello stesso anno dai Phoenix Suns, al secondo giro. È un giocatore funzionale ma poco brillante, è un buon tiratore ma non va oltre gli 11 punti di media, sa leggere bene il gioco ma non ha un atletismo dirompente. Queste caratteristiche gli permettono di giocare in NBA ma mantenendo un basso profilo. Esordisce con Cleveland per poi passare a Orlando, fino ad arrivare alla trade che cambia per sempre la sua carriera: nel 1993 arriva ai Chicago Bulls, inizialmente privi di Michael Jordan, ed è da lì che inizia a ritagliarsi un ruolo fondamentale. La stagione chiave è quella del 1995-96. I Bulls di Jordan, Pippen, Rodman e ormai Kerr registrano il record per il più alto numero di vittorie in regular season, 72 . Arrivano alle Finals in cui spazzano via i Seattle Supersonics e per Kerr è il primo anello in carriera. L’anno dopo arriva il bis, con quel tiro che non solo gli varrà un nuovo contratto con gli Spurs dopo il threepeat dei Bulls, ma gli cambierà totalmente la prospettiva di vita. “Quel tiro non mi ha solo dato la fiducia di potercela sempre fare, ma anche la mentalità che ne consegue. Realizzare che non puoi preoccuparti di quello che sarà, ma devi lasciarti andare e rischiare. Ho lavorato molto per ottenere questa mentalità. Gli esercizi che Phil Jackson ci faceva fare, il mindfulness training: tutte queste cose mi hanno aiutato. Mettere sé stessi nel giusto assetto mentale è un qualcosa di davvero complicato, ma è un obiettivo che sono riuscito a raggiunge in quel periodo”. Dopo i tre titoli vinti a Chicago, Kerr va a San Antonio, dove alla sua bacheca aggiungerà altri due anelli sotto la guida di Gregg Popovich, prima di ritirarsi e quindi concludere la sua carriera con 5 titoli vinti e il primato di miglior tiratore NBA per percentuale da tre punti, tutt’oggi imbattuto. Ed è qui che potrebbe terminare la sua parabola, è in questo momento che chiunque altro potrebbe dire: “Ho fatto quello che dovevo fare, e anche di più”. Ma non è questo il caso. Il coach del destino Una volta ritiratosi decide di fare il commentatore per il network televisivo TNT, con un discreto successo . Dopo un po’ viene chiamato dai Phoenix Suns dove diventa President of Basketball Operations, torna ad avvicinarsi al campo da gioco ma non si sente completamente a suo agio. Steve è stato allenato da Phil Jackson e Gregg Popovich, due dei più grandi allenatori della storia e non essere influenzati dai loro insegnamenti è praticamente impossibile. Sfuggendo dalla corte dello stesso Phil Jackson - che lo voleva a New York sulla panchina dei Knicks - nel 2014 decide di dare il via alla sua carriera da allenatore ai Golden State Warriors, dove sin da subito dimostra di avere qualcosa di speciale. Arriva in una squadra che è pronta a esplodere. La scelta di puntare su Stephen Curry come stella comincia a dare i suoi frutti e la franchigia decide di investire bene le proprie scelte al Draft, selezionando Klay Thompson come 11^ scelta nel 2011 e Draymond Green come 7^ nel 2012, tre giocatori che saranno a dir poco fondamentali nella carriera da allenatore di Steve Kerr. È l’uomo giusto al momento giusto, riesce a incastrare tutti i tasselli del puzzle grazie a un talento ben specifico: la comunicazione. Quella che è stata anche la forza di suo papà mentre cercava, a suo modo, di cambiare il mondo. Da quella stagione parte il cammino trionfale di Steve Kerr che lo porterà a essere uno degli allenatori più vincenti della storia. I Golden State Warriors raggiungono cinque Finals consecutive che hanno portato a tre titoli, un dominio intervallato solo dalla straordinaria impresa di LeBron James nel 2016 con i Cavs. Ma è nel 2019 che la luce sembra spegnersi. Crollo, rinascita e un cerchio ancora aperto Gli Warriors arrivano alle NBA Finals contro Toronto con tutti i favori del pronostico, i Raptors di Kawhi Leonard non sembrano in grado di poter contenere la forza dei ragazzi di Kerr che però, durante la serie, crollano sotto i colpi degli infortuni: rottura del legamento crociato per Klay Thompson e rottura del tendine d’achille per Kevin Durant. La dinastia pare chiudersi lì, sembra essere arrivato il momento della fine. A quel momento seguono due stagioni estremamente sottotono ma Steve non molla, tiene duro perché sa che non è ancora finita. Nel 2022 infatti gli Warriors tornano a splendere, Kerr e gli ‘Splash Brothers’ sono di nuovo campioni NBA. Forse si chiude un cerchio, ma un altro è rimasto aperto. Il 24 maggio di quell’anno Kerr va in conferenza stampa per rispondere alle solite domande legate ai playoff della sua squadra ma questa volta non riesce a trattenersi: “Non è successo nulla alla nostra squadra nelle ultime sei ore, giocheremo come sempre, ma il basket ora non conta. Da quando abbiamo finito la sessione di tiro 14 bambini e un insegnante sono stati uccisi a 400 miglia da qui. Quando faremo qualcosa? Sono stanco, sono così stanco di venire qui e fare le condoglianze alle famiglie devastate che sono là fuori. Sono stanco di tutti i minuti di silenzio. Basta!". Non accade spesso che una figura sportiva di spicco prenda una posizione così decisa. È un fatto che si verifica raramente, soprattutto in Italia, ma del resto dentro Steve Kerr c’è il fuoco del padre Malcolm che arde e incendia l’animo con quella voglia di farsi sentire per cambiare le cose. E Steve nel mondo del basket le cose le ha cambiate eccome. Nel resto del mondo ci sta ancora provando ma sicuramente, anche arrivato a 60 anni, non ha alcuna intenzione di gettare la spugna. Proprio come avrebbe voluto suo papà.

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Matteo De Angelis