Jonah Lomu è ancora oggi l'essenza del rugby

C’era stato un curioso quanto triste incrocio di voli, sulla tratta Filippine-Nuova Zelanda, in quel terribile 18 novembre del 2015. Mentre i suoi ex compagni - emozionati e con gli occhi stravolti dal pianto - portavano a spalla nella ‘casa degli All Blacks’, il mitico ‘Eden Park’ di Auckland, il feretro contenente le spoglie mortali di Jonah Lomu, faceva il suo ingresso sul prato Bernard Lapasset, presidente del rugby mondiale, giunto appositamente dalla Francia, mentre a Manila era invece trattenuto da una conferenza sul clima il Premier neozelandese John Key, che mai per nulla al mondo, in quel momento, avrebbe voluto essere così distante dal proprio Paese che salutava per sempre il suo campione e figlio più celebrato. A due metri da Lapasset, impassibile nella sua dolorosa dignità, la terza moglie dell’asso della palla ovale, Nadene, con i due figli tenuti per mano. Un passo indietro stava la mamma di Jonah. Quando Lapasset avanzò verso il microfono fra i guerrieri Maori, gli ex studenti del Wesley College e gli All Blacks del passato e del presente, il pubblico si zittì e l’haka di benvenuto terminò. I tifosi con la maglia nera, la felce argentata e il numero 11 di Lomu impresso sulla schiena si strinsero forte l’uno all’altro. Lapasset, con la voce rotta dalla commozione guardò prima in alto, diede poi uno sguardo tenero al feretro e disse poche ma semplici parole: “Jonah ci lascia oggi un vuoto enorme. E’ stato un vero gigante del nostro sport”. Non una frase di circostanza, non una frase di quelle a effetto dette per compiacere chi resta, non una frase buttata lì a caso per piaggeria. Ma il senso autentico dello smarrimento di tutto un movimento davanti alla perdita di quello che già allora poteva considerarsi la prima superstar mondiale del rugby. Un talento straordinario entrato nell’immaginario collettivo globale. Da quel giorno sono passati dieci anni e la percezione è diventata certezza. Jonah Lomu manca al rugby, ai tifosi, al mondo. Perché è stato un esempio per tutti, per i sacrifici affrontati prima di diventare una stella, per la sofferenza attraversata quotidianamente dopo esserlo diventato, quando la malattia congenita diagnosticatagli da ragazzo si rivelò per ciò che in realtà era: una grave forma di sindrome nefrosica. Dunque, quel ragazzo nato da genitori tongani, il cui nome originario Siona era stato trasformato in Jonah dopo i primi anni di studio in un collegio metodista, cresciuto in un quartiere marginale di Auckland lontano dalle luci e dai sogni di Mission Bay Beach, ma molto più vicino alla violenza delle periferie nelle quali era stato testimone dell’uccisione di uno zio a colpi di machete, era riuscito a emergere grazie allo sport e alla sua forza di volontà, ma anche per merito di un fisico straordinario. Già da adolescente Jonah era capace di correre i cento metri piani in 10”8 e avrebbe mantenuto la sua velocità anche da adulto dopo aver raggiunto una stazza ragguardevole: 196 centimetri per 119 chili di peso, tutti di muscoli molto ben distribuiti. Ma Jonah non poteva immaginare che la fama e la ricchezza che avrebbe più avanti conquistato le avrebbe pagate a caro prezzo a causa di quel rene maledetto che non voleva saperne di dargli tregua, neppure dopo una lunga pausa dall’attività agonistica, dopo il lungo purgatorio della dialisi che lo costringeva a tre sedute settimanali di filtraggio, dopo un trapianto reso possibile dalla donazione di un rene da parte del suo grande amico Grant Kereama, un conduttore radiofonico ed ex ‘bodybuilder pro’ di buon livello. Né mai avrebbe immaginato le cure molto costose nelle quali avrebbe speso i suoi ultimi anni di vita e tutti i suoi risparmi, che di fatto lo obbligarono a un secondo trapianto. Ma questa volta non si trovò un nuovo donatore. E mentre - tra sedute di depurazione e cedimenti del primo rene sostituito - anche le condizioni economiche di Nadene e dei figli Dhyreille e Brayley si aggravavano, il futuro iniziò a farsi sempre meno sereno. Fino a quel mercoledì mattina in cui il cuore cedette di schianto per un arresto, dovuto alle complicazioni legate alla degenerazione della malattia renale. Una morte che colse tutti di sorpresa, ma che forse non giunse improvvisa proprio per Jonah, che poco tempo prima aveva dichiarato in una intervista, quasi presagendo un futuro a breve termine che, in fondo, il rugby per lui aveva rappresentato la parabola dell’esistenza… “Per me è come la vita. È un modo breve per vivere velocemente". In questo caso, davvero troppo breve. Soprattutto per un uomo giovane descritto da tutti come dal cuore grande. Forse troppo grande per poter sostenere più a lungo così tanti carichi. Uno fra tutti quello di essere stato il giocatore di rugby più amato al mondo, una sorta di ‘colosso di Rodi’ con la palla ovale in mano e un avversario smarrito di fronte. Lomu era l’immagine del rugby, come la silhouette ‘Jumpman’ di Michael Jordan, Lomu era l’iconografia della palla ovale. E forse lo è ancora. Con quell’undici tatuato sul petto e inciso sul sopracciglio sinistro, il ciuffetto di peluria in fronte e quel ‘Power Within’ tatuato sulla schiena. Jonah Lomu era ed è il rugby anche per tutti quelli che non conoscono il rugby, come Pelé e Maradona sono miti universali anche per chi una partita di calcio non l’ha guardata mai. Un eroe buono e romantico, un vero leader di spogliatoio, un trascinatore, un simbolo capace di oscurare in parte anche la vittoria del Sudafrica sull’apartheid nella Coppa del Mondo di Rugby del 1995. Perché Nelson Mandela era la libertà e François Pienaar era gli ‘Springbocks’. Ma Jonah Lomu era il rugby. "Ragazzi, sono pronto a morire per la maglia nera", aveva detto in quella Coppa del Mondo ai compagni Jonah Lomu. E non scherzava. Era in tutto e per tutto un neozelandese. Amava giocare per gli All Blacks. In Nuova Zelanda, il rugby è cultura, è religione, è stile di vita, è come il calcio in Brasile. Per il rugby vibra l’intero Paese. Il rugby è ‘haka’, è identità nazionale. Ma il rugby è anche ciò che sottrasse Lomu al degrado suburbano di Māngere, di un quartiere tossico nel quale da ragazzini ci si passava al volo i pezzi di auto smontati e rubati anziché la palla ovale. Il rugby per Jonah era il ricordo delle prime scarpe, lui che correva sulle piste di atletica in ciabatte o a piedi nudi e vinceva lo stesso. Prima di diventare a 19 anni e 45 giorni il più giovane giocatore a giocare per la nazionale ‘kiwi’ di rugby, gli All Blacks. "Ragazzi, sono pronto a morire per la maglia nera", aveva detto in quella Coppa del Mondo… …e in maniera devastante aveva invece rassegnato al macello sportivo il terzino dell’Inghilterra Mike Catt, demolendo lui e la sua nazionale con quattro mete nei quarti di finale: un'immagine indelebile. Che rimarrà impressa nelle memorie di tutti più di Mandela, di Pienaar e degli Springbocks. Sì, certo, Jonah Lomu come uomo aveva anche dei difetti. Soprattutto prima di conoscere Nadene cambiava donne e auto con frequenza e finivano i soldi e i matrimoni . Ma, una volta presa coscienza della propria grandezza e di cosa rappresentasse per il suo Paese, Jonah cambiò registro: resistette a una grandiosa offerta per passare al rugby a 13 o addirittura al foorball americano in NFL e rimase invece in Nuova Zelanda. E fu così che la NZRugby Football Union depositò il suo nome come un marchio registrato, proprio mentre a Londra - nel celeberrimo museo di ‘Madame Tussauds’ dedicato ai personaggi famosi - veniva inaugurata una meravigliosa statua in cera a grandezza naturale che lo raffigura mentre indossa il completo degli All Blacks. E intanto fiorivano leggende di un Jonah Lomu affabile e molto alla mano con chiunque lo incontrasse per strada, alla stazione di servizio, in aeroporto. Forse, se avesse vinto anche quella coppa del Mondo del 1995, oggi le cose non sarebbero poi così diverse. Perché nella sua vita Jonah ebbe tutto quel che poteva avere, anche nel momento in cui la finale la vinsero gli altri: rimase comunque lui al centro dell’attenzione, al centro dell’obiettivo, al centro della leggenda. E non può essere diverso per uno che ha segnato 37 mete in 63 test match ed era considerato una delle ali più forti di sempre. E maledetta quella sindrome nefrosica. Quando all’Eden Park’ di Auckland si fece largo Nadene con i figli, mentre la macchina si avviava con il feretro andando verso l’uscita, la folla vide il piccolo Brayley divincolarsi e lasciare la mano della mamma, quindi fare qualche passo dietro all’automobile. Fu forse il momento più difficile e straziante della cerimonia. L’addio al padre. Quel padre che all'età di un anno fu mandato a vivere con dei parenti a Tonga e che ritornò in Nuova Zelanda quando ne aveva sette per diventarne il simbolo del successo, come sottolineò ai presenti Steve Tew, amministratore delegato della Federazione neozelandese di rugby: “Jonah era una leggenda, un magnete per l'attenzione. È stato il primo grande campione di questo sport, sicuramente nella nostra zona”. Julian Savea, ala come lui, sottolinea oggi come “Lomu è una parte importante degli All Blacks e quello che ha fatto per questa maglia è sorprendente”. Lomu rimane ancora il detentore del record congiunto per il maggior numero di mete segnate in Coppa del Mondo - a pari merito con il sudafricano Bryan Habana - ed è stato nominato il più grande giocatore di sempre del torneo in un sondaggio condotto in Inghilterra e inserito nella Hall of Fame dell'International Rugby Board e nella World Rugby Hall of Fame. Una delle foto più iconiche del rugby rimane quel momento in cui si arrampica su Catt contro gli inglesi in quella coppa del Mondo del 1995 usandolo come una scala a pioli per andare in meta. Immagine diventata virale di un ragazzino di venti anni esplosivo e inarrestabile. Anni dopo Lomu dirà: “Per il rugby, quella Coppa del Mondo ha cambiato tutto. Quando ci ripenso ora, capisco meglio il mio impatto. Quando in TV trasmettono dei filmati su di me, i miei figli mi guardano ed è un compito arduo cercare di spiegare loro ciò che ho realizzato”. Sono certo che adesso, da grandi, ora che lui non c’è più, però ne abbiano preso coscienza. Ci manchi, Jonah.

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Jonah Lomu è ancora oggi l'essenza del rugby

Lucio Rizzica