Redskins, Indians, Trump e la polemica sui nomi delle squadre di Nfl e Mlb

Settantasette milioni di voti, quelli che ha ricevuto Donald Trump nelle elezioni presidenziali di nove mesi fa, non sono uno scherzo, rappresentando il 49,8% delle schede, contro i 75 milioni e il 48,3% della candidata democratica Kamala Harris. In attesa delle elezioni di metà mandato, che hanno però ovviamente dinamiche diverse, quei 77 e rotti sono l’unico elemento concreto con il quale sia possibile misurare la presa dell’attuale leader degli Stati Uniti sui suoi concittadini. Non le parole, non i sondaggi, non le percezioni, quindi non i social media, che racchiudono tutti gli elementi di cui sopra. Impossibile anche capire di quanta popolarità reale godano le iniziative di Trump nei vari settori, e negli ultimi giorni chi si occupa di sport professionistico si è trovato di fronte ad un nuovo dilemma, nato dalla scelta del presidente di andare all’attacco dei Washington Commanders della NFL e dei Cleveland Guardians della MLB. Ovvero di due storiche squadre che tra 2020 e 2021 hanno cambiato il loro nome originario, Redskins e Indians, ed è questo che a Trump, ma non solo, non va giù. Pellerossa e Indiani, in traduzione che però non rende giustizia alla motivazione del cambiamento, arrivato dopo parecchi anni di campagne, polemiche e prese di posizione, esacerbate nel 2020, dopo la morte dell’afroamericano George Floyd per la quale è stato condannato a 22 anni di reclusione l’agente di Polizia Derek Chauvin, dall’accresciuta tensione sul tema dei diritti civili che ha creato un movimento inarrestabile in vari campi. NATIVI AMERICANI. O AMERICANI NATIVI Ma la radice della contesa non è recente, appunto, e ha a che fare con la connotazione sostanzialmente negativa sia di ‘Redskins’ che di ‘Indians’, al di là dell’utilizzo errato del secondo termine, risalente ai tempi di Cristoforo Colombo e del suo viaggio verso le ‘Indie’, che avrebbe anche raggiunto se non fosse stato per quel piccolo ostacolo chiamato isole caraibiche e continente americano. Peraltro, ancora oggi gli stessi abitanti originari delle Americhe non hanno un nome che li identifichi in modo assoluto: si oscilla tra American Indians, Indigenous Peoples e Native Americans , tradotto maldestramente in italiano come ‘nativi americani’ invertendo quindi nome e aggettivo, termine che peraltro a metà Ottocento fu usato dai discendenti anglosassoni e protestanti dei primi cittadini degli Stati Uniti per distinguersi dagli immigrati irlandesi e tedeschi di religione cattolica. Insomma, un minestrone complicato dal fatto che tra di loro le popolazioni indigene di Nordamerica e Centroamerica erano assolutamente disomogenee e spesso conflittuali, e le differenze tra i Niitsítapi o Piedi Neri del nordovest e i Seminole del sudest erano enormi, per non parlare delle zone in cui una tribù guardava dall’alto in basso quella vicina, ritenendola etnicamente e culturalmente inferiore. Non si ritenevano insomma parte di una medesima comunità, sentimento che per paradosso si è costituito in maniera più concreta solo quando il loro territorio è stato suddiviso in stati e i loro destini sono stati più o meno simili, pur con grandi differenze di sviluppo e crescita. La nazione Seminole, tanto per citare un nome già fatto, è ad esempio proprietaria collettivamente della catena di ristoranti Hard Rock Café. LOUIS LEGEND Indians, dunque, è nome costruito sul nulla eppure diffusissimo, anche solo nello stereotipo ‘cowboys v indians’ di un intero genere cinematografico, letterario, fumettistico. L’adozione da parte della squadra di baseball risale al 1915, quando dopo la partenza del grande giocatore-allenatore Napoléon Lajoie, detto Nap, talmente forte e influente che il team da ‘Bronchos’ era diventato ’Naps’, il proprietario Charles Somers chiede ai giornalisti di trovare un nuovo nome. Fu comunque scelto Indians in onore di Louis Sockalexis, un nativo americano della nazione Penobscot che aveva giocato per tre stagioni nei Cleveland Spiders, precedessori dei Bronchos. Sockalexis ebbe una vita sregolata, raccontata con toni leggendari oltre la soglia del mito, e con testimonianze contraddittorie: si raccontava che una volta avesse tirato una pallina da una riva all’altra del fiume Penobscot, quindi a oltre 180 metri, e altre storie fantastiche giravano ad arricchire quelle, reali, della sua carriera sportiva, minata da una sempre più accentuata tendenza all’alcolismo. Indians voleva dunque essere un omaggio al primo nativo americano certificato ad avere giocato in Major League e passato attraverso la penosa esperienza della stagione 1899, quella in cui la squadra, svuotata dei migliori giocatori trasferiti a St.Louis dalla proprietà congiunta, aveva perso 134 partite su 154, record negativo di tutti i tempi. Tutto molto bello, ma parzialmente fasullo, come hanno dimostrato ricerche molto successive. Sì, Sockalexis era stato un mezzo eroe, più tragico che altro per via della sua vita sregolata, ma come dimostrò Joe Posnanski, giornalista locale molto noto, nel 1915, anno della nuova denominazione, NESSUNO tra i 300 quotidiani da lui consultati menzionò Sockalexis, nel raccontare che la squadra di Cleveland era diventata, da Naps, Indians. E la conclusione a cui arrivò nella sua indagine fu che il giocatore aveva sì influenzato il nome nuovo, ma molto tempo prima: nel 1897, contenti dell’arrivo di quel giocatore già noto, tifosi e anche quotidiani avevano cominciato a chiamare Indians gli Spiders, e il ricordo di quel nomignolo influenzò in parte la scelta del 1915, dettata però anche da altri motivi, ad esempio il grande successo dei Boston Braves nella stagione 1914. Quello che è interessante è che a quanto pare il nome e la leggenda di Sockalexis furono pressoché dimenticati fino a che, già dopo la Seconda Guerra Mondiale, non cominciarono le prime proteste, o meglio perplessità, su ‘Indians’. Parliamo di voci isolatissime, sia chiaro, che però portarono il club, preventivamente, a dare maggiore evidenza a quella storia delle origini. Club - va detto - che nel luglio 1947 mise sotto contratto Larry Doby, che diventò così il secondo afroamericano a giocare in Major League, tre mesi dopo il debutto del grande Jackie Robinson: la decisione fu del proprietario Bill Veeck, e gli Indians non potevano certo essere accusati di arretratezza o oscurantismo, eppure c’era qualcosa che a qualcuno - pochi, ribadiamo - dava fastidio. E più che il nome era il logo, il leggendario Chief Wahoo, Capo Wahoo. Che, per coincidenza, venne lanciato proprio in quel 1947: è la caricatura di un indiano con l’aria allucinata, che nel 1951 venne lievemente modificato, diciamo addolcito, per diventare quello che è poi stato fino al 2018, quando venne tolto dalla circolazione e sostituito dall’attuale, blandissimo simbolo di due G attorno ad una pallina, a simboleggiare i Cleveland Guardians, nome adottato nel 2021 e collegato alle due statue Art Deco di guerrieri situate ai lati di un ponte non lontano dallo stadio. Il Chief Wahoo utilizzato per 61 anni era diventato uno dei loghi più caratteristici, unici e apprezzati nel mondo dello sport americano: favorito anche dal fatto che fino all’era-LeBron James i Cavs erano tiepidamente popolari e con un logo non esaltante, e che la storica squadra di football, i Browns, un simbolo nemmeno ce l’ha, visto che il casco è arancione senza alcun fregio, Chief Wahoo a Cleveland era ovunque. Il problema fin dagli anni Settanta è stato però proprio nei tratti caricaturali che avevano differenziato Chief Wahoo da altri loghi a tema nativo americano, come quelli dei Chicago Blackhawks, dei Florida State Seminoles, dei Kansas City Chiefs, dei - massì - Washington Redskins. Anche se attenuata dal 1951, la simbologia è parsa progressivamente troppo accentuata a un numero crescente di persone che ha cominciato ad esprimere contrarietà: quell’espressione, che peraltro a tanti appare più furbesca e beffarda che allucinata, e anche per questo ha sempre suscitato simpatia al tifoso medio, risultava indigesta proprio perché innaturale, caricaturale appunto. Nel suo libro ‘Redskins? Sports mascots, Indian nations and white racism’ il sociologo James Fenelon la accosta addirittura alle raffigurazioni degli ebrei che la rivista tedesca Der Stürmer faceva negli anni Trenta: un paragone esagerato, uno dei tanti che in un’opera altrimenti eccellente a volte fanno sembrare Fenelon più un attivista che un esaminatore della realtà, perché è abbastanza ovvio che il Chief Wahoo degli Indians avesse l’intento esattamente opposto rispetto alla testata diretta da Julius Streicher, ovvero onorare e non denigrare. LA WORLD SERIES DELLA POLEMICA Nel 1995 la finale MLB, la cosiddetta World Series , fu tra Indians e Braves, quelli di Atlanta, e da alcuni attivisti di Cleveland fu ribattezzata ‘World Series of Racism’. I Braves sono gli eredi della squadra di Boston del 1914, passata poi per Milwaukee, e il nome indica sì il ‘coraggio’ ma è anche quello che nel 19esimo secolo i pionieri che cercavano l’espansione a ovest diedero alle popolazioni locali delle pianure che si opponevano con alla conquista. C’era un evidente intento di rispetto, di ammirazione, ma a rovinare tutto ci fu nel 1966, appena dopo l’arrivo del club ad Atlanta, un altro logo caricaturale, quello di un ‘brave’ con un’aria tra lo strafottente e il ridanciano, che però a guardare bene caricaturale è poco, e anzi molto realistico. Quel logo fu eliminato nel 1987 e sostituito da quello attuale, un’ascia di guerra, che di per sé avrebbe poco di offensivo se non fosse che dal 1991 i tifosi hanno l’abitudine di fare il cosiddetto ‘tomahawk chop’, ovvero il gesto di piantare l’ascia, effettuato muovendo l’avambraccio da posizione verticale a posizione orizzontale, in avanti. Praticato già da tempo dai tifosi di Florida State, fu introdotto da Carolyn King, l’organista dello stadio, che durante i turni di battuta suonava proprio la ‘tomahawk song’. Preoccupata per qualche polemica, King chiese di parlare con un esponente locale nativo americano che protestava ma si sentì dire "guarda che se anche ti dimetti tu per solidarietà loro prenderanno un’altra persona, quindi tanto vale che tu resti". Il gesto dell’ascia viene fatto da sempre anche dai tifosi dei Kansas City Chiefs della NFL, e anzi lo stadio al completo che lo esegue, cantando anche una nenia pseudo-tribale, è uno dei più tipici spettacoli di un campionato stereotipato e triste dal punto di vista dell’atmosfera, ma anche lì da tempo ci sono proteste e polemiche, nonostante l’origine stessa del nome Chiefs, non direttamente legata al mondo nativo americano: The Chief era infatti il soprannome di Harold Roe Bartle, sindaco di Kansas City tra il 1955 e 1963, che nella sua carriera da dirigente dei Boy Scout aveva creato una sezione dedicata ai nativi americani ed era stato apparentemente accettato come ‘onorario’ da una tribù locale della nazione Arapaho col nome ‘Chief Lone Bear’, Capo Orso Solitario. Tornando al 1995 si può dire che quella World Series aprì il capitolo moderno delle proteste, coinvolgendo entrambe le squadre e permettendo tra l’altro a Fenelon di organizzare un sondaggio tra gli studenti della sua e di altre università, con un esito particolare: se i bianchi erano favorevoli al mantenimento di nome e iconografia ‘indiana’ e i nativi americani erano contrari, gli afroamericani erano sostanzialmente indifferenti, comparendo in percentuali meno sbilanciate rispetto agli altri gruppi etnici. Si trattava ovviamente di un’indicazione su un campione microscopico di popolazione. E il problema di tutta la questione sollevata da Trump, ma anche di qualsiasi tema controverso sul piano sociale e politico, è anche questo: chi si espone e protesta, magari in maniera vistosa, chi manifesta e urla è percentualmente irrilevante rispetto a chi non lo fa, e però finisce con l’influenzare, con la sua efficacia mediatica, le persone che devono prendere decisioni. DA CHIEF A C Cleveland perse quella World Series, così come quella del 1997 contro Florida/Miami, proseguendo così in quella che agli occhi di molti era una specie di maledizione, dopo il titolo vinto nel lontano 1948, ma la polemica su Wahoo rimase, anche perché a complicare le cose c’era stato nel 1989 il celeberrimo film ‘Major League’, uno dei classici della cinematografia sportiva americana, con gli Indians protagonisti e il logo del Chief ovunque, ancor più diffuso in tutta America proprio per la onnipresenza e - agli occhi della maggioranza - simpatia. Le proteste continuarono per anni, sempre con il meccanismo per cui pochi manifestavano, altri si limitavano al dissenso più o meno manifesto - online, da quando ciò divenne possibile - e la maggioranza faceva finta di niente o era addirittura ostile al solo pensiero di cambiare nome e logo. Non generalmente per razzismo, giusto dirlo, ma per difficoltà o incapacità di capire la profondità delle sensazioni di chi vedendo il faccione di Chief Wahoo si sentiva a disagio. A complicare la questione, ed evidenziare ulteriormente come non ci siano punti fermi, ci fu la vicenda di Russell Means, attivista della nazione Lakota, che nel 1972 aveva fatto vanamente causa agli Indians per l’utilizzo del logo e aveva protestato in maniera forte con i Braves per la presenza di Chief Noc-A-Homa , mascotte della squadra, un tizio vestito da ‘indiano’ che inscenava balletti in campo e apriva fumogeni a ogni punto segnato. Il guaio era che Noc-A-Homa era interpretato da un vero nativo americano, Levi Walker jr, che non solo non si sentiva offeso ma aveva addirittura chiesto in maniera insistente di essere assunto per il ruolo, che ricoprì dal 1968 al 1986, anno della sua abolizione, e in un dibattito a distanza con Means disse "penso che la nostra gente debba essere orgogliosa di veder utilizzato il proprio nome da una squadra professionistica". Tra una pressione e l’altra, però, nel 2014 il Chief Wahoo fu ufficialmente declassato a logo secondario e sostituito da una grande C, ma il cappellino con la sua raffigurazione continuò ad essere indossato dai giocatori in abbinamento ad alcune delle divise, e fu visibilissimo durante la World Series del 2016 persa in gara7 contro i Chicago Cubs, suscitando così ulteriore divisione tra favorevoli e contrari. Nel 2018 però Chief Wahoo fu eliminato dal tutto da qualsiasi oggetto legato al club, nel dicembre 2020 venne annunciata una procedura di revisione del nome, nel 2021 vennero vietate copricapi e trucco facciale ‘indiani’ e il 23 luglio 2021 fu annunciato che dalla stagione successiva la squadra si sarebbe chiamata Guardians. DIETZ IRAE E Washington? Ci arriviamo tramite Richard Sneed, importante esponente della nazione Cherokee nel North Carolina e in generale nel sudest. Dichiarandosi favorevole o perlomeno non contrario all’uso di ‘Braves’ e del tomahawk chop da parte della squadra di Atlanta, Sneed prima della World Series del 2021 disse "ho sempre pensato, fin da piccolo, che [l’iconografia Braves] fosse un riconoscimento dello spirito guerriero della nostra gente, della nostra forza… noi nativi americani continuiamo ad avere così tanti problemi che mi sembra davvero triste concentrarsi su un gesto che viene fatto ad una partita di baseball. Mi hanno chiesto varie volte se non mi offendesse, e io ho sempre risposto ‘ma un tomahawk è un oggetto, perché mai dovrei essere offeso?’. Per quello che mi riguarda, l’unica cosa davvero offensiva e inaccettabile è il termine ‘Redskins’". Bingo. Soprannome che la squadra di football di Washington ha dal 1933, per decisione del proprietario George Preston Marshall, che l’aveva fondata l’anno prima a Boston chiamandola originariamente… Boston Braves, a imitazione di quella di baseball. Nel 1937 ci fu lo spostamento nella Capitale, con discreto successo, dato che arrivarono le vittorie nel campionato NFL del medesimo anno e del 1942, vittorie equivalenti agli attuali Super Bowl ma conteggiate diversamente. Marshall fu un personaggio particolare, che nel football riversò un entusiasmo illimitato, ritenendolo lo sport più puro che ci potesse essere: "il giorno in cui uscirò dal football non farò niente altro nella vita, perché solo il football mi fa stare bene. E non è questione di soldi: fare qualcosa che non ti piace è una forma di prostituzione morale". L’origine di ‘Redskins’, allora: nel 1933 Marshall si era ‘accorto’ che avere due Boston Braves poteva portare a equivoci, e aveva scelto il nuovo nome per restare comunque sul tema ‘indiano’, parallelo a ‘Red Sox’ che era l’altra squadra locale di baseball, e onorare il suo coach William ‘Lone Star’ Dietz , appartenente al ceppo Oglala dei Lakota , ex studente della celebre Carlisle Indian School, che peraltro meriterebbe un capitolo a parte. Anzi, un’altra versione racconta che sarebbe stato lo stesso Dietz a scegliere il nome e dare un contratto a quattro ‘indiani’. C’è però un problema, diverso ma non dissimile da quello di Sockalexis a Cleveland. È una storia pazzesca, e abbiate pazienza, ma va raccontata. Perché Dietz diceva di essere nato nella riserva indiana di Pine Ridge, in South Dakota, da una Lakota di nome Julia One Star e da padre tedesco, William, impiegato delle ferrovie che lì si era rifugiato per sfuggire a non si sa bene quale pericolo, ma il suo certificato di nascita e poi quello di matrimonio portavano come luogo Rice Lake, nel Wisconsin. Reale luogo di nascita, tanto che nel 1916 alcuni ex vicini di casa trasferitisi sulla costa occidentale leggendo di un ‘One Star Dietz’ brillante allenatore a Washington State e vedendo sul giornale una sua foto del 1912 con la maglia di Carlisle decisero di non farsi i fatti propri e di denunciarlo alle autorità. Si arrivò ad un doppio processo che fece scalpore in ambito locale: nella questione del furto di identità Dietz fu sconfessato dalla presunta sorella Sally Eagle Horse, che disse di non averlo mai visto prima, ma difeso dalla madre Leanna, tedesca come il padre, che con toni drammatici confessò che il ragazzo non era realmente suo figlio, ma il figlio di un’amante indiana del marito che le era stato portato, a pochi giorni di vita, per… sostituire il bambino che aveva in grembo e che era venuto al mondo privo di vita. Una storia grottesca raccontata con melodrammaticità che convinse parzialmente la giuria, alla quale il giudice disse di valutare non tanto se Dietz fosse realmente un Lakota ma se si sentisse tale, aiutato in questo da un aspetto che certamente lo faceva più assomigliare a un nativo americano che ad un tedesco. Assolto dall’accusa di furto, e condannato poi a 30 giorni di reclusione per falsa dichiarazione di identità ai fini della leva militare, per il resto della sua vita Dietz portò avanti la propria versione dei fatti, divenendo anche pittore e illustratore di nome. HAIL TO THE COMMANDERS Redskins, allora, in onore di Dietz. Marshall non volle mai sentire ragioni, anche di fronte alle prime proteste per quel nome. Che in origine, peraltro, non aveva toni offensivi e nasceva da una incompatibilità di fondo tra due differenti visioni del mondo. Nel suo libro Fenelon racconta infatti quanto gli disse uno degli ultimi sciamani dei Lakota, Chancy Dupree, cioé che la tradizione orale identificava i quattro punti cardinali con colori e che risultava dunque impossibile persino capire come gli occidentali usassero invece ‘bianco’ o ‘rosso’ per distinguere categorie di persone, anche quando questo utilizzo sia semplice riflesso di una reale impressione cromatica e non di una visione creativa e spirituale della geografia. Il tema è però davvero complesso, che si legga Fenelon o un altro scrittore dai toni molto aggressivi come Richard King o si consultino semplicemente gli infiniti siti web che affrontano la questione. Perché la tradizione solo orale dei nativi americani impedisce di risalire ai tempi in cui non c’era stato un contatto con gli occidentali: e allora capita di leggere che secondo Ives Goddard, linguista e responsabile del dipartimento di antropologia dello Smithsonian Institution nonché principale esperto mondiale della lingua algonchina, ‘pellerossa’ era inizialmente stato usato dai medesimi nativi americani, non di per sé ma - aggiunge e chiarisce Johnathan Buffalo, capo della conservazione storica dei Meskwaki - per distinguere se stessi nel momento dell’incontro con i ‘pellebianca’ e i ‘pellenera’, ovvero i loro schiavi, categoria peraltro non sconosciuta ai nativi americani stessi. E in più, nei primi contatti con le popolazioni locali gli americani di origine europea tendevano più a descriversi come ‘cristiani’ che come ‘bianchi’, per cui siamo davvero in un groviglio di ipotesi, sensazioni, ricordi, percezioni, con l’unica certezza che ‘redskins’ già verso la fine del 19esimo secolo aveva preso un’accezione negativa. La gestione Marshall a Washington peraltro toccò altri temi delicatissimi: ad esempio il suo rifiuto a mettere sotto contratto giocatori afroamericani e la grottesca risposta, alle critiche, "lo farò quando gli Harlem Globetrotters firmeranno un bianco". Nel suo caso, come in quelli di molti altri personaggi del secolo scorso, a volte è difficile capire se si trattasse di razzismo puro e convinto, di pigrizia nell’uscire da mentalità consolidate o semplice opportunismo, ovvero ambizione a non perdere il seguito della parte preponderante di pubblico. Per quanto ora possa sembrare assurdo anche geograficamente, i Redskins furono infatti per decenni la squadra più meridionale della NFL e alla maggioranza di tifosi e sponsor ‘sudisti’, cioè quelli che permettevano alla squadra di sopravvivere, l’idea di un giocatore afroamericano semplicemente non piaceva. Fu un altro presidente, John Kennedy, a mettere Marshall alle strette. Lo snodo fu la costruzione dello stadio finanziato con fondi federali, approvati nel 1958 dal presidente Dwight Eisenhower: Kennedy infatti minacciò di togliere lo stadio ai Redskins se il club non avesse aperto le proprie porte a giocatori afroamericani. Il primo a scendere in campo, nel 1962, fu dunque il running back/wide receiver Bobby Mitchell e il paradosso ulteriore fu che Marshall ne divenne presto grande tifoso personale. Comunque sia, nel corso dei decenni ‘Redskins’ ha raccolto sempre più critici, uniti anche nello sdegno verso il logo, ma anche qui la storia confonde e non è univoca. Lo storico logo con il ‘pellerossa’, assolutamente non caricaturale e anzi ieratico e maestoso, quasi nobile, fu infatti disegnato nel 1971 da Walter ‘Blackie’ Wetzel, ex consulente del presidente Kennedy nella commissione per lo sviluppo dei diritti civili, capo del consiglio nazionale dei nativi americani e presidente della nazione dei Niitsítapi o Piedi Neri, un personaggio dunque difficilmente sospettabile di tendenze discriminatorie e autolesionistiche, e ancora nel 2014 il figlio, Don, disse "quel logo è stato creato con i toni giusti. Rappresenta il popolo dalla pelle rossa e ne siamo orgogliosi". Nello stesso periodo, un sondaggio apparentemente serio condotto da un istituto universitario, e ripreso due anni dopo dal Washington Post, indicava che il 90% dei nativi americani non era offeso da nome e logo, ma siamo sempre lì: a quanti era stato chiesto, chi erano, cosa rappresentavano? Il National Congress of American Indians, la più grossa struttura sovrannazionale - nel senso di nazione come tribù - di nativi americani, aveva invece sempre fatto grandi pressioni perché il team abbandonasse logo e nome, e insomma siamo al solito nodo impossibile da sciogliere, tra tendenze in un senso e nell’altro, pressioni e percezioni. Quel 2020 però fu decisivo anche qui: l’1 luglio di quell’anno 87 azionisti di minoranza, che per il club rappresentavano complessivamente un valore potenziale di ben 620 miliardi di dollari, scrissero a sponsor importanti chiedendo loro di ritirare il loro appoggio se non fossero cambiati nome e logo, e il 23 dello stesso mese il proprietario Dan Snyder, dopo aver opposto una lunga e a tratti feroce resistenza, annunciò la nuova denominazione, Washington Football Team, diventata poi Washington Commanders dal 2022. Nel frattempo, e anzi molto prima , avevano cambiato nome varie università e licei con appellativi riferiti ai nativi americani, mentre nel 2005 Florida State aveva ricevuto il permesso di continuare a chiamare Seminoles le proprie squadre direttamente dal capo della locale nazione Seminole, Max Osceola. E i Braves continuano a chiamarsi Braves e i Chiefs a chiamarsi Chiefs e i loro tifosi a far letteralmente oscillare lo stadio ogni volta che fanno il tomahawk chop. Per ribadire la complessità della situazione. IL NODO DELLO STADIO Sul social media da lui creato, Truth Social, Trump ha scritto "I Washington Nonsoche dovrebbero IMMEDIATAMENTE tornare a chiamarsi Redskins. Tanti lo chiedono. E lo stesso vale per i Cleveland Indians, uno delle sei squadre più antiche, con una storia grandiosa. La nostra grande gente nativa americana, in massa, lo chiede. Poco alla volta le stanno togliendo la sua eredità culturale e il suo prestigio. I tempi sono cambiati rispetto a tre o quattro anni fa, ora siamo un paese di passione e buon senso. Proprietari, fatelo!". Come sempre, solo percezioni e opinioni, perché non è dato sapere quanti siano ‘i tanti che lo chiedono’ citati, ma quello che forse è stato sottovalutato nelle parole di Trump è il riferimento ai ‘tempi cambiati’. Al di là delle teorie, delle campagne, delle proteste, delle legittime sensazioni di genti che si sono viste sottrarre terre e ritrarre in caricature, che i tempi siano cambiati lo ha dimostrato proprio uno dei pochissimi dati concreti, ovvero il risultato delle elezioni 2024, ed è su questo che il presidente americano ha fondato il suo sfogo più recente. Che coinvolge anche la minaccia di bloccare la costruzione del nuovo stadio di Washington, per il quale già c’erano polemiche vista la richiesta del proprietario Josh Harris di un miliardo di dollari di contributi pubblici sui 3,8 del preventivo, solo mitigata, proprio giovedì 24, dalla scelta di restituire alla comunità locale una somma quasi equivalente: la curiosità è che lo stadio, per il sostegno al quale mesi fa Harris aveva ringraziato Trump, sorgerebbe esattamente nel luogo di quello per il quale Kennedy stava per porre il veto 64 anni fa, e che la sua costruzione fa parte di una spinta verso la riappropriazione di simboli del passato, confermata anche dalla scelta di utilizzare, nella stagione 2025, divise retrò che richiamano gli indimenticabili anni Ottanta e Novanta nel quali arrivarono tre vittorie nel Super Bowl. Interessante comunque notare come Muriel Bowser, dal 2015 sindaca afroamericana di Washington, e spesso polemica con Trump, abbia dichiarato che un eventuale cambio di denominazione non modificherebbe il suo totale appoggio alla costruzione dello stadio, sul quale avrebbe oltretutto parola più diretta rispetto al presidente. Che però tutto questo porti al ritorno di Redskins, e Indians è abbastanza improbabile. Ma è, anche questa, solo una percezione.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Redskins, Indians, Trump e la polemica sui nomi delle squadre di Nfl e Mlb

Roberto Gotta