Passato, presente e futuro della strategia di gioco più offensiva, un tempo indispensabile per vincere il torneo di Wimbledon
Nel maggio del 1990 Ivan Lendl aveva appena compiuto 30 anni e veniva da due successi consecutivi all’Australian Open, nei nuovi campi in cemento di Melbourne. All’epoca il raggiungimento del trentesimo anno di età era un traguardo avanzato, a livello di età sportiva e biologica, per un tennista. Lendl, tuttavia, aveva vinto il suo primo Slam a 24 anni ed era ancora in ottime condizioni dal punto di vista fisico e mentale. Nonostante fosse un grande esecutore dei colpi a rimbalzo, decise di fare una scelta coraggiosa perché sapeva che la sua parabola sarebbe sfiorita di lì a poco: rinunciò al Roland Garros - che aveva vinto tre volte e dove sarebbe stato sostanzialmente il favorito - perché voleva preparare a fondo il suo gioco su erba e in particolare il suo serve and volley, che all’epoca era l’unica condizione per essere competitivi a Wimbledon.
Lendl perse nettamente in semifinale contro Stefan Edberg, un giocatore che il serve and volley avrebbe potuto insegnarglielo, come farà 24 anni dopo con Roger Federer. Ma all’epoca i due erano rivali e non ci fu, per Lendl, mai più un’altra occasione per vincere l’unico titolo che gli mancava, per il quale aveva trasformato la sua preparazione in una vera e propria ossessione.
Un episodio emblematico che certifica quanta importanza e cura ci fosse per il serve and volley fino a non molti anni fa, soprattutto per raggiungere la competitività necessaria per coronare il sogno di ogni tennista, quello di vincere Wimbledon. Un’azione biomeccanica che coniuga due fondamentali (servizio e volée, appunto) ma che giustamente viene intesa come un unico movimento, un unico colpo. Il serve and volley all’epoca sull’erba era un elemento imprescindibile come lo potrebbe essere oggi ad esempio il dritto sulla terra battuta, ma dopo molti decenni nei quali ha rappresentato non solo un gesto elegante - tipicamente apprezzato da quella frangia un po' alto-borghese che intendeva il tennis come l'arte dei gesti bianchi - ma anche necessario e pragmatico, il serve and volley è praticamente scomparso causando un fortissimo punto di rottura con il passato.
Il paradigma del gioco vincente su erba è profondamente cambiato ma sarebbe sbagliato semplificare troppo sulle motivazioni per le quali si è passati in poco tempo dall’adozione sistematica alla quasi repulsione di questa soluzione tattica. Anche perché il tennis, come altri sport, è fatto di cicli e ci potrebbero essere dei presupposti affinché l’importanza del serve and volley si materializzi nuovamente, sotto nuove spoglie.
Breve storia del serve and volley
Nella grande evoluzione del tennis negli ultimi anni un aspetto è rimasto costante per oltre un secolo, e cioè il filo che lega l’uso del serve and volley al successo a Wimbledon. Il tennis come lo conosciamo oggi è l’evoluzione del lawn tennis (letteralmente tennis su prato) a sua volta frutto di tre anni di correzione dei regolamenti del royal tennis. Con l’edizione di Wimbledon del 1877 nacque il tennis moderno, inizialmente proprio sull’erba: il primo vincitore del torneo fu il britannico Spencer Gore, passato alla storia come il primo esecutore del serve and volley. Si trattava però di un serve and volley eseguito in maniera arcaica, con il servizio dal basso, in un contesto in cui le dinamiche delle partite assomigliavano più all’attuale esercizio del “pittino” che non al tennis contemporaneo vero e proprio.
Una ricostruzione plausibile della prima finale di Wimbledon e più in generale della prima epoca del tennis.
Le discese a rete in realtà rappresentavano un’innovazione assoluta in uno sport che fino a quel momento, attraverso le varie forme in cui era stato praticato, prevedeva esclusivamente scambi caratterizzati da palleggi da fondocampo. L’efficacia del gioco di volo, tuttavia, era stata immediatamente compresa anche da altri tennisti e fu nell’edizione di Wimbledon dell’anno successivo, nel 1878, che Frank Hadow vinse il torneo degli sfidanti e si qualificò per la finalissima contro Gore, detentore del titolo. Conscio delle abilità a rete del suo avversario, Hadow in quell’incontro divenne il vero e proprio inventore del pallonetto, attraverso il quale costrinse Gore alla sconfitta per 7-5 6-1 9-7. Ma come avviene in ogni settore che si sta espandendo, l’evoluzione successiva del gioco si materializzò rapidamente, soltanto tre anni dopo: William Renshaw, giovane tennista britannico di 20 anni, si inventò lo smash per contrastare i pallonetti del reverendo John Hartley, già due volte vincitore di Wimbledon, e lo sconfisse dando inizio a una lunga serie di sei successi consecutivi ai Championships.
Nonostante la maggior parte delle regole del gioco fosse stata già fissata nel 1877, veniva tuttavia rivista con grande frequenza l’altezza della rete e con essa cambiava anche il modo di servire dei tennisti, che ben presto iniziarono a comprendere i vantaggi del servizio effettuato sopra la testa anche a scopo tattico e non solo per contrastare la crescente altezza della rete sul campo. Già nei primi del Novecento l’australiano Norman Brookes si segnalava per la potenza del suo servizio, che utilizzava per scendere immediatamente a rete e attraverso il quale si aggiudicò Wimbledon nel 1907 e nel 1914 e l’Australian Open nel 1911. «Quando serve, la palla ti arriva come un treno express che sfreccia sulle rotaie nelle montagne», diceva un giocatore dell’epoca, «non fai in tempo a sentire il ronzio della palla che arriva che nel frattempo l’hai persa di vista».
In seguito il serve and volley verrà utilizzato da giocatori leggendari come gli statunitensi Don Budge - il primo a completare il Calendar Grand Slam - e Bill Tilden, ma fu soprattutto l’altro americano Jack Kramer che, negli anni Quaranta, alzò l’asticella della potenza del servizio e praticò il serve and volley sistematico anche con la seconda palla. Nel 1961, inoltre, un’altra modifica regolamentare agevolò ulteriormente i battitori: da quel momento, infatti, non era più obbligatorio mantenere almeno un piede a terra al momento dell’impatto del servizio, ma bastava non calpestare la linea prima del movimento. Questo fattore incrementò la velocità dei servizi perché ogni giocatore poteva utilizzare una maggiore spinta verticale verso l’alto per impattare con più forza e verso un rettangolo del servizio “più grande”, visto dalla prospettiva dall’alto.
Rispondere ai servizi, con le racchette di legno dal piatto corde molto ridotto, divenne sempre più difficile. Fino alla fine degli anni Ottanta correre verso la rete e giocare la prima volée dopo il servizio sui campi veloci - ma non solo - non era un’impresa, in relazione alla scarsa pesantezza della palla che tornava in seguito al servizio. I più grandi interpreti del serve and volley negli anni sono stati Rod Laver, John Newcombe, John McEnroe, Pat Cash, Boris Becker, Stefan Edberg, Michael Stich e in età ancora più moderna Pete Sampras, Pat Rafter, Tim Henman, Richard Krajicek. Ma anche per i tennisti tipicamente da fondocampo adattarsi a giocare il serve and volley era più semplice rispetto a oggi, anche se all'epoca i giocatori erano più spesso costretti a farlo, mentre ora si tende più o meno a mantenere il proprio stile di gioco fedele tutto l'anno.
Anche Bjorn Borg, il vero e proprio Nadal degli anni Settanta, a Wimbledon sulla prima di servizio praticava quasi sempre il serve and volley. Ma qui si vede bene perché a quell'epoca era più facile impostare questa tattica: con le racchette di legno le risposte di rovescio erano quasi sempre appoggiate in back, e pur non essendo perfetta la volée di approccio il secondo passante di Gerulaitis viene preparato in ritardo in virtù del rimbalzo più basso e rapido dell'erba di allora.
Anche la prima evoluzione dei materiali non modificò questi paradigmi e, anzi, in una prima fase favorì ulteriormente i battitori finché non vennero ampliati i piatti corde e gli sweet spots (punti di impatto ideali sulle corde) sulle racchette, che consentivano entrambi di rispondere molto più facilmente i servizi più potenti. In aggiunta a questo elemento, sempre più giocatori venivano impostati con il rovescio bimane e più agevolmente riuscivano a impattare in avanti la risposta rispetto a chi possedeva il rovescio classico a una mano. In questo periodo, più o meno con l'arrivo del nuovo Millennio, Michael Llodra, Radek Stepanek e Taylor Dent furono i profili principali di questo stile di gioco che stava già diventando più facilmente contrastabile, mentre la bandiera viene portata ancora in alto soprattutto da Mischa Zverev, Nicolas Mahut, Sergiy Stakhovsky e Pierre-Hugues Herbert, il più giovane di tutti, ma che già sul cemento non effettua serve and volley sistematico.
Forse la vittoria recente di serve and volley più famosa è quella di Stakhovsky su Federer a Wimbledon 2013. In questi due punti si vede tuttavia quanto sia più difficile giocare la prima volée e altrettanto necessario calibrarla quasi perfettamente, rispetto al passato. Federer non era al massimo della condizione ma riesce a vincere il primo di questi due punti nonostante un'ottima stop volley stretta e corta di Stakhovsky.
Queste contingenze hanno fatto gradualmente diminuire l’efficacia del serve and volley in generale, causando un’inevitabile modifica nell’impostazione dei giovani giocatori nelle nuove generazioni. Ma nel caso più specifico di Wimbledon le cose sono cambiate radicalmente dall’edizione 2002, con la famosa finale tra Hewitt e Nalbandian, due fondocampisti puri: come aveva ricostruito Federico Ferrero, già l’anno precedente il capo giardiniere Eddie Seaward aveva cambiato il modo di seminare i campi, passando da un misto di 70% di loietto perenne e 30% di festuca perenne a un composto formato esclusivamente da loietto perenne e pressato in modo differente attraverso i rulli, per rendere il terreno più compatto e dal rimbalzo più alto e regolare.
In questo modo l’efficacia del serve and volley, molto più elevata in passato grazie ai vecchi rimbalzi molto bassi dell'erba, è calata drasticamente. Giocatori di vecchia generazione come Tim Henman e soprattutto Roger Federer hanno diminuito le discese a rete dopo il servizio, mentre i tennisti più giovani - escludendo rarissime eccezioni - non sono più neanche stati impostati in quel modo. Anche i giovani australiani che crescono sull’erba, come Bernard Tomic, Luke Saville, Nick Kyrgios, Thanasi Kokkinakis e ora Alex De Minaur, si adattano ai prati attraverso colpi piatti in anticipo, aperture brevi e rovesci bimani e non praticano serve and volley sistematico. In questo modo, forse per la prima volta dopo oltre 120 anni, la scomparsa del serve and volley e della sua efficacia a Wimbledon rappresenta forse il più grande punto di rottura della storia del tennis dal punto di vista tecnico.
Perché si usa il serve and volley
Non bastano i semplici mutamenti di attrezzi e superfici per giustificare la progressiva tendenza all’estinzione del serve and volley, ma c’entra anche la naturale evoluzione del gioco che sarebbe avvenuta in ogni caso. Nel suo libro Match play and the spin of the ball, il campione Bill Tilden - considerato anche uno dei più grandi studiosi del gioco - aveva anticipato in parte quello che sarebbe prima o poi accaduto e che si è verificato soprattutto con l’arrivo del nuovo millennio: «Il giocatore perfetto da fondo batterà sempre 6-0 il giocatore perfetto di serve and volley», scrisse Tilden, «perché le sue risposte al servizio saranno passanti vincenti».
In effetti anche il semplice aumento dei ritmi di gioco, per ragioni tecniche e atletiche, sarebbe avvenuto anche senza l’abbandono delle racchette di legno e a lungo termine avrebbe forse favorito sempre di più il gioco da fondocampo, anche se in maniera molto più lenta e progressiva nel corso degli anni di quanto realmente accaduto. Il serve and volley oggi si riesce a giocare molto più facilmente a livelli più bassi di quelli dei migliori giocatori al mondo.
Alla base dell’utilizzo del serve and volley c’è ovviamente il vantaggio di non lasciar rimbalzare la palla su un terreno irregolare come quello dell’erba, di spezzare il ritmo da fondocampo di un avversario più solido o di sfruttare i rimbalzi più bassi e rapidi proprio dell’erba e di campi duri piuttosto lisci. Ma non è solo questo. Jack Kramer, nella sua autobiografia del 1979, scrisse che iniziò a giocare serve and volley sistematico in un incontro contro Bobby Riggs nel 1948 come reazione all’aggressione dell’avversario: «Sono diventato famoso per uno stile, il serve and volley, che non avevo pianificato coscientemente. Bobby mi attaccava sempre, anche quando servivo la seconda, per cui mi ha forzato ad attaccarlo a sua volta cercando di prendergli il rovescio, il suo punto debole».
Nel doppio, a parità di livello di gioco tra i quattro tennisti in campo, il punto se lo aggiudica quasi sempre chi riesce per primo a prendere la rete con entrambi i componenti della coppia, coprendo quasi tutto il campo al passante. Rimanere a fondocampo dopo il servizio, anche in doppio, sta diventando una strategia sempre più utilizzata perché in molti casi si preferisce spingere con il dritto come primo colpo, anziché rischiare di prendere una risposta sui piedi a rete. Ma, per lo meno sulle superfici veloci, il serve and volley in doppio rimane ancora pressoché imprescindibile. Per fare un esempio, Marc Lopez è forse il tennista più caratteristico dell’ideale del nuovo doppista, non necessariamente forte con servizio e volée quanto lo è invece nella lettura del gioco e nelle capacità nei passanti e nei pallonetti: tuttavia il suo servizio debole e la sua tendenza a stare a fondocampo hanno creato un’enorme discrepanza tra i risultati in doppio che ha ottenuto sull’erba (a Wimbledon non ha mai passato il terzo turno, il suo miglior risultato in un torneo sui prati) e sulle altre superfici, dove ha raggiunto la finale sia allo US Open che al Roland Garros (l’unico Slam vinto, nel 2016) e la semifinale all’Australian Open, oltre all’oro olimpico con Nadal a Rio 2016 sul cemento.
Sul campo indoor - quindi in condizioni più rapide - delle ATP Finals di Londra, Marc Lopez rimane a fondocampo e viene aggredito dalla risposta di Kontinen e dalla volée di Peers. Solo un pallonetto miracoloso lo salva, ma questi sono i rischi costanti di chi viene pressato in doppio sulle superfici veloci se non effettua il serve and volley.
Per eseguire il serve and volley, inoltre, c’è bisogno di effettuare tantissimi aggiustamenti tecnici. Non si tratta solo di unire i due fondamentali del servizio e della volée, ma piuttosto di creare tutto un movimento unico che parte dal lancio di palla, che deve essere rivolto più in avanti rispetto al servizio “normale”, con la conseguenza che c’è più rischio di mandare la palla in rete. Non solo viene modificato il lancio, ma anche l’impatto stesso deve essere preferibilmente in slice interno o in kick esterno (un tempo si faceva il lift, quando le corde non producevano tutte queste rotazioni in top spin che oggi permettono il kick) per dare più tempo al battitore di scendere più vicino possibile alla rete. Il lancio in avanti, inoltre, permette che lo stacco da terra dei piedi sia meno alto e di conseguenza l’atterraggio sia meno pesante e avvenga in un tempo inferiore e in un punto più vicino alla rete, condizione fondamentale affinché lo scatto verso la rete sia il più rapido possibile soprattutto nei primi due o tre passi.
Diventa fondamentale, inoltre, l’arresto e il piccolo salto (tecnicamente lo split step) che vengono eseguiti nel momento esatto in cui l’avversario impatta la risposta, ed essendo il servizio il colpo più rapido del gioco capita che lo split step venga effettuato spesso dietro la riga del servizio, perché la palla torna presto. A quel punto una volta si giocava quella che veniva definita volée di approccio, un colpo sempre più difficile da eseguire e praticamente scomparso. Oggi, con i passanti così potenti, è necessario essere aggressivi e provare a chiudere il punto già dalla prima volée. In tal caso, basta una prima volée dopo il servizio giocata in modo interlocutorio per offrire al ribattitore grandi possibilità di fare il punto.
Mischa Zverev, uno dei più grandi interpreti attuali del serve and volley, ne svela i segreti. A un certo punto spiega l’importanza dello split step: «È importante saper accelerare ma anche saper decelerare. Lo split step ti permette di vedere cosa accade dall’altra parte della rete per capire dove e quando partire per iniziare il movimento di impatto della volée».
Possibili sviluppi futuri
Il serve and volley, a livello tecnico, prevede che molte cose si incastrino perfettamente l’una con l’altra, ma lo sviluppo che i giocatori negli anni hanno compiuto con il servizio e il primo colpo in uscita permette loro di preferire il più delle volte di spostarsi e comandare subito con il dritto. Anche la corsa in avanti dopo il servizio richiede una brillantezza atletica che, in caso di momenti di stanchezza durante il match o di scarsa forma fisica in un determinato periodo, risulta spesso più decisiva per determinare l’inefficacia del serve and volley rispetto alle questioni tecniche.
Sempre dalla sfida tra Stakhovsky e Federer, in questo punto si vede bene come una volée di approccio non perfetta (in questo caso con la palla che si alza dopo una risposta bassa e corta) ai giorni d'oggi dia al ribattitore la chance di giocare un passante anche piuttosto semplice.
Un'eccezione alla regola che vede i giocatori sempre più lontani dalla rete, tuttavia, è rappresentata da Milos Raonic, che nel 2016 fece un grande salto di qualità e raggiunse le semifinali all'Australian Open e la finale a Wimbledon proprio perché migliorò le sue capacità tecniche alla volée - soprattutto di dritto - e di scelta e gestione della varietà del servizio, per sfruttare meno la potenza e di più i tagli.
Oggi Raonic, dopo vari lunghi infortuni, sembra aver perso sicurezza nel variare il servizio e preferisce rifugiarsi di più sull'antico servizio potente, ma non per questo sull'erba ha dimenticato il serve and volley. Tuttavia ora lo esegue molto spesso dopo un servizio quasi a massima velocità, perché confida nelle sue leve lunghissime per raggiungere comunque rapidamente la rete e confida allo stesso tempo in una risposta non perfetta dell'avversario. Quel tipo di servizio è sconsigliato da seguire a rete perché la palla torna troppo presto: ad esempio, nei primi anni Novanta, Rino Tommasi disse che Pete Sampras avrebbe dovuto rallentare il servizio e migliorare i tagli se avesse voluto vincere anche a Wimbledon. Tuttavia Raonic ogni volta che segue a rete un servizio ben oltre i 200 km/h scommette sul fatto che la risposta dell'avversario sia giocoforza debole.
Qui, in semifinale a Stoccarda qualche giorno fa, due punti consecutivi di Raonic che tira il servizio molto forte e prende comunque un gran vantaggio sul campo dopo la prima volée. Soltanto una prodezza di Pouille nel primo scambio gli impedisce di fare il punto.
Raonic decise insieme al suo coach di allora, Riccardo Piatti, di seguire più spesso a rete il servizio perché la sua statura e le sue leve lunghe gli impedivano di essere efficiente negli spostamenti laterali, cercando quindi di accorciare gli scambi. Un altro problema che possono incontrare i giocatori molto alti, infatti, può essere quello della reattività in uscita dal servizio, soprattutto sulle risposte profonde che tendono a cadere sui piedi del battitore che si sta riassestando dopo il servizio: un problema che attanaglia Alexander Zverev più di tutti, soprattutto quando la risposta dell'avversario gli arriva sul suo dritto che non ha la rapidità di braccio sufficiente per aprire in tempo.
In questo modo la crescente statura dei giocatori potrebbe permettere una nuova fase di utilizzo del serve and volley principalmente nel modo in cui lo pratica Raonic nella maggior parte dei casi, ma anche Ivo Karlovic: cercare quindi, sulle superfici veloci, di approfittare dello slancio al servizio e dei passi lunghi che portano velocemente a rete per evitare, invece, che risposte profonde possano mettere in crisi il battitore, soprattutto se dotato di gambe lunghe e quindi di poca rapidità e reattività con il primo colpo da fondo dopo il servizio. Dopo tutto il serve and volley costringe l'avversario a modificare la risposta, che nella maggior parte dei casi - quando il battitore rimane a fondo - viene eseguita profonda e centrale per non dare angolo, ma che invece è la risposta perfetta per chi scende a rete perché se la ritrova al corpo e con una buona altezza sulla rete. In questo senso dovrebbero però venire incontro nuove generazioni di tennisti presumibilmente ancora più alti e potenti al servizio, sempre che nel frattempo non vengano nuovamente modificate le condizioni di gioco.
Nadal di recente si è detto preoccupato per la crescente altezza dei giocatori e ha proposto di alzare la rete di metà campo, sottolineando un altro fattore chiave del tennis: l'aumento progressivo del numero degli scambi brevi, principalmente sotto a 4 colpi. Forse mantenere le regole attuali approfittando della crescente potenza al servizio dei giocatori, invece, potrebbe essere l'unica arma in possesso del serve and volley per tornare in auge anche presso i giocatori più forti.
Con il passare degli anni, e con l'arrivo delle nuove generazioni di pubblico, oltre al serve and volley è diminuito anche il richiamo nostalgico di quel gesto. In fin dei conti non sarebbe neanche giusto sentire l'esigenza di tornare al passato, perché con esso si ripresenterebbero altre situazioni che nel frattempo sono progredite e che hanno rinnovato ed evoluto il gioco. Anche se il serve and volley potrebbe davvero tornare più di attualità, il suo utilizzo sarebbe forse ormai lontano da quel raffinato classicismo che viene ancora emanato dai pochi superstiti che lo praticano con costanza. Ma potrebbe quanto meno servire per aumentare le variabili all'interno di un gioco che si sta fisiologicamente standardizzando, ma nel quale molto spesso la varietà di stili tra i diversi giocatori viene sottovalutata.