Gioie e (tanti) dolori: il ritiro di Del Potro è un inno alla fragilità umana

Quel pomeriggio di fine estate indossa una bandana arancione, porta la barba incolta, gli avambracci scoperti. Ha vent’anni, li avrà ancora per qualche giorno, non può saperlo ma non sarà mai più stato così giovane e forte. New York, settembre 2009. Roger Federer cerca il suo sesto Us Open consecutivo. Nella strada per il titolo la finale pronosticata dai bookmakers è la solita, contro Rafa Nadal. Ma quell’anno a Flushing Meadows i protagonisti sono il maltempo e Juan Martin del Potro, un ragazzone argentino che gioca come i moderni: servizio e dritto da far male, e infatti è capace di fare male a chiunque. Con lui, dopo 18 tornei del Grande Slam vinti consecutivamente dai Big 3 si respira aria nuova, made in Tandil. Durerà troppo poco. Quel pomeriggio di settembre lo abbiamo visto sdraiarsi sul cemento dell’Arthur Ashe, coprirsi gli occhi e piangere di gioia. Il dolore non era ancora comparso. Prima di quel giorno nessuno era riuscito a battere uno dopo l’altro i 'Fe-dal'. Lui, da testa di serie numero 6, sconfigge prima lo spagnolo in semifinale con un triplo 6-2, poi subito dopo lo svizzero al quinto set. “He got the game” commenta John McEnroe guardandolo giocare in quelle due settimane. Secondo l’ex numero uno al mondo il sudamericano è l’unico tennista che ha il gioco per competere con i cannibali, per diventare cannibale lui stesso. Dopo il primo Slam conclude l’anno in top 10, è il più giovane della lista. La 'torre di Tandil', così lo chiamano. Nessuno nel circuito è così alto e così vincente. Quasi due metri di statura, un metro e 98 centimetri che però non prevengono il dolore, anzi, se possibile lo rendono ancora meno sopportabile. Nel 2010 il primo scricchiolio su quel corpo da gigante, polso destro, pochi mesi dopo il sinistro: in totale quattro interventi agli arti superiori, ma il peggio deve ancora arrivare. E il peggio non è la spalla destra, l’anca, gli addominali, gli stop forzati, la convalescenza, la riabilitazione perenne, scivolare sempre più basso in classifica, guardare un mondo di cui non fai più parte allontanarsi ogni giorno di più. Il peggio è rendersi conto di essere un gigante a cui cedono le gambe. Il peggio è non avere la certezza che prima o poi potrai guarire. Quel titolo a New York doveva essere il primo di una lunga serie. Ci avevano scommesso in molti. Invece il palmares di Juan Martin del Potro dopo diciannove anni di carriera quasi tutti trascorsi in sofferenza comprende uno Slam, un argento ai Giochi Olimpici di Rio 2016, la vittoria della Coppa Davis sempre nel 2016 e infine l’ultimo titolo, a Indian Wells nel 2018. Chapeau, certo. E applausi su applausi. Ci sono ottimi tennisti che hanno iniziato e finito la carriera senza aver mai sfiorato l’ipotesi di una vittoria Slam. Il problema è la memoria, i ricordi di quel 2009, la promessa che quel ragazzo faceva intravedere in campo. Il problema è che ancora oggi è lecito farsi la seguente domanda: i Big 3 sarebbero stati così immensi anche con del Potro con un corpo intatto? Il 2018 è stato l’anno del suo ultimo titolo e del suo ultimo sorriso che aveva a che fare con il tennis. Quella vittoria a nessuno è mai sembrata un come back, soltanto un addio, la cerimonia dei rimpianti e della nostalgia, ciò che il tennis avrebbe potuto vivere senza dover fare i conti con un corpo a pezzi. Quasi vent’anni di carriera, nessuno trascorso indenne, ventidue titoli, 439 vittorie e 174 sconfitte. Troppo poche, o forse troppe, a seconda di chi giudica. Per Juan Martin del Potro il dolore a un certo punto era diventato eccessivo, inutile, fine a se stesso. Non si trattava più di tennis, ma di salire e scendere le scale di casa, di guidare senza avere voglia di mettersi a urlare, del desiderio di trascorrere una notte, soltanto una, senza maledire le proprie gambe. E invece, fine pena mai. Ai quattro interventi subiti al polso bisogna aggiungere le otto operazioni al ginocchio destro. “Ha vinto il mio ginocchio, mi ha sconfitto”, ha ammesso l’ex campione qualche giorno prima de, El ultimo desafio, la sua ultima partita in carriera, giocata a Buenos Aires contro Novak Djokovic. A 36 anni l’argentino è costretto a prendere dalle 6 alle 8 medicine ogni giorno. Ansia, dolore nudo e crudo e infiammazione. Ecco di cosa soffre oggi del Potro. A vent’anni sopporti il male, pensi che passerà, ti ricordi bene cosa hai provato quel giorno in cui ti sei sentito campione, lo vuoi riprovare, ti mordi le labbra e vai avanti con le torture di medici e fisioterapisti, ti hanno detto che guarirai, che tornerai più forte di prima, non c’è motivo per non crederci. Ma cosa succede quando di anni ne hai appena compiuti trentasei e te ne senti addosso settanta? Cosa succede se ogni giorno è un po’ peggiore del precedente, se quando ti guardi allo specchio ti rendi conto che ciò che ti era stato promesso non si è avverato, che avevi tutta la vita davanti e invece questa vita così com’è andata a finire non ti basta? Cosa succede quando non è colpa tua e non è colpa di nessuno? Fa più o meno male? Per mesi, per anni hanno chiesto a Juan Martin del Potro: “Ma quando torni?”. Il tennis lo rivoleva indietro. A un certo punto ha cominciato a dargli fastidio anche quella domanda, che in realtà era piena di affetto. Lui non aveva risposte, soltanto dubbi e dolore. Non sapeva quando sarebbe tornato, non sapeva se sarebbe tornato. Infine, il dubbio peggiore: si sarebbe mai liberato da tutto quel male? Ma soprattutto, ne valeva la pena? "Se almeno potessi avere un po' di pace nelle gambe per due o tre ore, per godermi qualcosa su un campo da tennis per l'ultima volta, sarebbe bellissimo” ha detto l’ex campione argentino prima del suo ultimo match contro Djokovic, prima delle lacrime d’addio, prima di diventare un ex giocatore, prima che decidesse che era giunto il momento che il tennis finalmente lo lasciasse in pace.

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Giorgia Mecca