Essere Venus Williams non è mai stato così bello

Un quarto di secolo and still counting. Venus Williams ha fatto il suo ingresso sull’Arthur Ashe vestita di bianco nello Slam che predilige il total black. Nel giorno dell’addio di Petra Kvitova e Caroline Garcia, nella settimana in cui Maria Sharapova è stata inserita nella Hall of Fame e Serena Williams ne ha omaggiato l’ingresso con un bel discorso e un bell’abbraccio che ha voluto significare la fine dell’astio e dunque la fine del gioco, Venus, la più anziana, ha scelto di rimanere. La sua partita numero 101 a New York non è stata una last dance. Il ritorno a Flushing Meadows dell’americana non ha niente a che vedere con il tormento o con la malinconia. Inutile scomodare Freud, il rifiuto del time out, della parolina 'ex' che incombe, il terrore di andare oltre. Il come back di Venus Williams è la risposta a un istinto, quello dei bambini: “Sono felice quando colpisco forte la pallina. Il mio obiettivo è fare ciò che voglio fare”. Dunque giocare a tennis in una sera di fine agosto, accettare una wild card a 45 anni non per chiudere un cerchio, ma per decorarlo. L’americana ha perso al suo esordio in tre set contro la testa di serie numero 11 Karolina Muchova. Una sconfitta, non una sentenza. Sarebbe stato molto più facile raccontare un funerale tennistico, la verità è che non lo è stato. L’intenzione di Venus Williams, il diritto che si è conquistata dopo quattro decadi di tennis, è quello di non andarsene, non ancora. “Volevo concedermi l’opportunità di giocare libera dal dolore”, ha detto nella conferenza stampa post match. Così è stato. Venus Williams è stata la prima campionessa del nuovo millennio. Il 9 settembre del 2000. L’americana indossa un abito arancione che le scopre la schiena, le spalle baciate dai vent’anni appena compiuti. Ha scelto di indossare un cerchietto che luccica e ricorda una corona. Ora si può dire, quella sera nessuno fa il tifo per lei, gli spettatori tifano per l’altra americana in campo, quella più simile a loro, Lindsay Davenport. Venus se ne accorge e se ne frega. “Nessuna copre il campo come te”, le dicono durante la premiazione. Lei sorride e fa spallucce: “Sì, in questi giorni sono molto veloce”. Sugli spalti papà Richard scatta centinaia di foto, mamma Oracene l’ha appena abbracciata dicendole: “Great job”. Un gran bel lavoro, davvero. Succedeva venticinque anni fa. La maggiore delle due sorelle stava per diventare la prima afroamericana della storia a occupare il numero uno al mondo, l’ultima americana a vincere lo US Open prima del crollo delle Torri Gemelle. Ha fatto la Storia, prima che la sua, di storia, venisse cancellata dall’avvento della sua sorella minore. Non dev’essere stato facile essere Venus Williams negli ultimi venticinque anni. Non dev’essere stato facile obbedire senza opporsi alla profezia di papà Richard: “Sarà Serena la più forte di tutte, la più forte di sempre, pure di Venus”. È il 2002 l’anno della resa. Serena esplode, Venus fa retromarcia. Da allora, nei momenti di trionfo della sua versione in miniatura, la sua versione rivista, aggiornata e incattivita, lei, quando non è la finalista sconfitta, si accontenta di stare in piedi a scattare le foto di sua sorella e delle sue vittorie. È una pessima domanda da farsi venire in mente, però è lecita: trattandosi dello stesso sport, le vittorie di una non equivalgono alle sconfitte dell’altra? Venus scompare, l’ombra di sua sorella se la mangia. Come ha scritto Chris O’Connell in un articolo dal titolo The transit of Venus, pubblicato sul quarto numero della rivista 'Racquet': "L’unico problema di Venus è che sua sorella è la più grande giocatrice di tutti i tempi. Il problema non è che Venus non sia riuscita a sopravvivere alla turbolenta trascendenza di sua sorella, il problema è che non esiste un essere umano in grado di farlo». Dopo gli esordi e la solitudine totale, la carriera di Venus è sempre stata messa in relazione a quella della sorellina minore. Questo ha avuto la conseguenza di trasformare ogni suo successo in una preparazione per quelli di Serena, come se la sua esistenza non potesse essere considerata autonomamente, al di fuori dell’altra. La maggiore delle due è stata sommersa e oscurata dai paragoni, dai trofei di una Williams che non era lei. Eppure sette titoli dello Slam, quarantanove in totale, un oro alle Olimpiadi, le Wta Finals. Possono sembrare poca cosa se l’unico termine di confronto sono i 23 Major del sangue del tuo sangue e le sue 319 settimane in cima al ranking mondiale. Eppure Serena ha lasciato e Venus è rimasta. Un anno dopo un delicato intervento chirurgico in cui le è stato rimosso un adenomioma, un tumore benigno all’utero, ha deciso di accettare tutte le wild card che le avrebbero offerto nell’estate americana, sedici mesi dopo aver giocato il suo ultimo torneo. “Questa sera a New York c’era una luce bellissima. Non mi sono mai sentita supportata così tanto in tutta la carriera. Ho sentito il tifo degli spettatori dell’Ashe Stadium. Ma anche quello degli americani, e forse di tutto il mondo”. No, non è tormento e non è nostalgia. È tornare nel luogo in cui siamo stati felici. E senza farsi troppe domande, colpire la pallina più forte che si può.

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Giorgia Mecca