"Va bene non stare bene". Le matrioske di Naomi Osaka

Labubu e glitter nella città che ti acceca con le proprie luci e ti stordisce con i propri suoni. Per vivere il tennis a modo proprio e in un mondo tutto proprio. Il mondo di Naomi Osaka. Un mondo di scintille, quelle di una New York che si è piegata a celebrarla con il broncio, dopo che aveva strappato a Serena Williams il sogno di vincere il ventiquattresimo Slam. Un mondo di silenzi, quelli di un Arthur Ashe deserto e di un Major vinto sfidando il Covid-19 e rappresentando il movimento ‘Black Lives Matter’, nei giorni in cui serviva una voce più forte di altre che fosse di esempio per tutti, dall’NBA all’NHL. La carriera di Naomi Osaka è una matrioska di momenti che ti cambiano, ti spezzano, ti arricchiscono, ti portano lontano dal punto di partenza. Un punto di partenza che, per lei, in effetti ha radici in tutto il mondo. Papà di Haiti e mamma giapponese, nata a Osaka – e pensare che poi ha anche vinto il torneo che si gioca lì nel 2019 – ma da sempre in California, baby Naomi cresce nell’unico mito che conta per una aspirante numero 1 più nipponica che americana: Serena Jameka Williams. Serena è ispirazione, è carisma. È aura. Mentre Naomi deve lavorarci su: dopo aver vinto Indian Wells, classificato come Premier Mandatory nel 2018 e da sempre considerato il quinto Slam, Osaka riesce soltanto a biascicare un paio di frasi imbarazzate, stordita da sé stessa e dalle emozioni che non riesce a controllare, schernendosi e pronunciando quello che lei stessa definirà “Il peggior discorso di accettazione di un trofeo di sempre”. E, quando, dieci giorni dopo, da rampante campionessa ‘in the making’, perde nettamente contro una Serena Williams al rientro dopo la maternità, la reazione non è di chi vuole uccidere sportivamente il genitore per proiettarsi nel futuro, ma di chi, piuttosto, è ancora abbastanza felice di lasciarsi fagocitare dalla leggenda. Aspettativa continua Ed è qui che la matrioska inizia a scomporsi sotto la pressione e le aspettative. Il posto, di cuore e lacrime, è sempre Flushing Meadows, l’anno è sempre il 2018 e Naomi Osaka vince il primo Slam contro Serena Williams, approfittando di un penalty game dato alla 23 volte campionessa Major per – vero o presunto non è più importante – coaching. Nel boato di un Arthur Ashe ostile, Naomi non sa come comportarsi, qualsiasi parola viene accolta con un fischio e, girandosi verso il mito Serena, non trova una difesa, uno scudo, una protezione quasi genitoriale. La più giovane tra le sorelle Williams si scuserà poi con lei prima in privato, ribadendolo anche in un’intervista rilasciata ad ‘Harper’s Bazaar’ nove mesi dopo. Comunque non basta: la voragine dentro si è aperta e l’equilibrio tra chi si è e chi gli altri vogliono che tu sia è sempre più difficile da gestire. La vittoria con Petra Kvitova in finale agli Australian Open 2019 è il primo di una lunga lista di trionfi agro-dolci: Osaka diventa numero 1 al mondo, ma è evidente che non abbia voglia di esserlo in quel momento, perché anche essere numero 1 è qualcosa che lei vuole vivere alla propria maniera. Una maniera di attenzioni centellinate e di dichiarazioni mangiate, di ace, tanti, e di battaglie, non tante, ma sempre buone. Il terzo Slam arriva un anno e mezzo dopo, di nuovo agli US Open, nel 2020, quando, nel frattempo, Naomi è scesa al terzo posto nel ranking, lasciando la vetta a una Ashleigh Barty anche lei esperta di vivere la propria carriera secondo le proprie regole. In 15 giorni di un torneo strano e diverso, con i tifosi imprigionati nel computer e un virus letale a costringerci tutti a casa, Osaka scende in campo con sette mascherine nere con sopra sette nomi di uomini neri uccisi dalla polizia americana: Breonna Taylor , Elijah McClain , Ahmaud Arbery , Trayvon Martin , George Floyd , Philando Castile e Tamir Rice . Il gesto è quanto più significativo dopo che, una settimana prima, durante il Premier 5 di Cincinnati, ma trapiantato a New York, la giapponese aveva deciso di rinunciare alla propria semifinale contro Elise Mertens piuttosto che scendere in campo e sentirsi, di traverso, complice anche lei di una tragedia sottotraccia. In finale, Osaka dà tutto fisicamente e mentalmente, rimontando da 1-6, 0-2 e chance di 3-0 con due break per Azarenka. Poi si ferma, rinunciando al Roland Garros, e riparte, vincendo il quarto Slam, forse il più felice, agli Australian Open 2021, con una prova di forza per quasi tutto il torneo e forse soprattutto nella partita contro Muguruza agli ottavi di finale, in cui la giapponese salvò due match point. Naomi domina una finale anti-climatica contro Jennifer Brady e sembra pronta a tornare regina, per davvero. Se non fosse che, in fondo, le vecchie crepe vengono fuori. Durante la cerimonia di premiazione, Osaka sembra di nuovo la bambina sperduta che non sapeva cosa dire a Indian Wells tre anni fa. Presa dal panico chiama Jenny, ‘Jennifer’ in una gaffe diventata virale. Due mesi dopo, basta che lei sappia che è a un torneo dal tornare numero 1 al mondo e il giocattolo si rompe. Naomi perde 6-4, 6-0 nei quarti di finale del WTA 1000 di Miami contro la greca Maria Sakkari, arriva al Roland Garros interiorizzando un atavico odio per la terra rossa e si rifiuta di presentarsi in conferenza stampa, multe o non multe. Il supporto dalle altre tenniste è minimo se non nullo e la giapponese ha soltanto il tempo di sconfiggere Patricia Tig al primo turno, per poi ritirarsi – un po’ per protesta, un po’ per spirito di preservazione – prima di scendere in campo contro Ana Bogdan. Demoni e depressione, status da regina indesiderato e doveri dai quali non è possibile esimersi: Osaka porta la torcia olimpica verso il braciere a Tokyo 2020, ma poi perde agli ottavi di finale contro Marketa Vondrousova, che sarà medaglia d’argento, sconfitta in finale da Belinda Bencic. Una tra quelle che non aveva esattamente apprezzato la scelta di sottrarsi dai doveri con la stampa. Quindici giorni prima, la giapponese aveva pubblicato, a proprio nome, su ‘Time’ un “essay”, per dirla in inglese, dall’emblematico titolo: ‘It’s okay not to be okay’. Traduzione: va bene non stare bene. E mentre ci si interroga se Naomi Osaka ha pensieri di ritiro, pensieri di rivalsa o pensieri misteriosi e basta, a ottobre 2022 la giapponese cambia ancora dimensione alla propria matrioska, annunciando di essere incinta di una bambina, Shai, nata a luglio del 2023 e avuta dal rapper Cordae, che era con lei agli US Open 2020, nei giorni in cui nessuno era a Flushing Meadows, ma che non sarà con lei a gennaio 2024, quando Naomi torna in campo a fortune alterne e con ancora un po’ troppo orgoglio al pensiero di indietreggiare e scendere a giocare i tornei di categoria WTA 125. Eppure, quando finalmente Osaka si decide ad andare a Saint-Malo, a maggio 2025, il risultato è un trofeo che dà fiducia e morale vinto in finale contro Kaja Juvan. Trofeo che poi sfiora, di nuovo, in finale a Montreal, con l’ex numero 1 al mondo che, avanti di un set e un break, d’improvviso di spegne contro Viktoria Mboko, classe 2006 alla quale in cerimonia di premiazione riserva ‘il trattamento Serena’ che lei aveva a propria volta subito sette anni fa e che, forse è la dimostrazione, definitiva, che la Naomi che segue le aspettative altrui ormai è rimasta incastrata tra una matrioska e l’altra, forse per sempre confinata in una realtà alternativa di se e di ma. A Flushing Meadows, Osaka ha perso in semifinale contro Amanda Anisimova, una che ne sa di salute mentale e di resilienza. Per dare un dato di quanto fosse e rimane cinica la giapponese nelle fasi finali di uno Slam, questa è la prima volta che Naomi ha perso dopo i quarti di finale a livello Major. Chissà che questa sconfitta, più che riaprire vecchie ferite, non sia l’inizio di un’ultima matrioska da mostrare al mondo. Quella più piccola, ma anche quella più autentica, quella che raccoglie in uno spazio minuscolo tutto il sapere, il volere, la passione e le emozioni. Esiste sempre la smania di capire il momento in cui una big in crisi riesce a tornare finalmente grande tra le grandi. Il momento è adesso: US Open 2025. Adesso sì che Naomi Osaka “is back”.

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Michela Curcio