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NBA, la corsa al premio di MVP: Curry e Durant

NBA

Stefano Salerno

Steph Curry e Kevin Durant hanno deciso di unire le forze e in parte a rinunciare a inseguire il premio di MVP in nome di un obiettivo ben più importante: il titolo NBA

L’ultima volta che né Steph Curry, né Kevin Durant hanno sollevato al cielo il premio di MVP al termine della stagione regolare, LeBron James giocava ancora a Miami, Kobe Bryant  era costretto a saltare l’ultima serie playoff disputata dai suoi Lakers a causa della rottura del tendine di Achille e Steve Kerr passava le sue serate comodamente seduto a bordocampo, ma con le cuffie alle orecchie e un microfono davanti la bocca per commentare quello che accadeva sul parquet. Da lì in poi il titolo è andato prima al numero 35 e poi al playmaker con il 30 sulle spalle per due volte in fila. Quattro anni dopo sembra sempre più probabile che la coppia degli Warriors sarà costretta ad abdicare, lasciando spazio a uno tra Russell Westbrook, James Harden, LeBron James o Kawhi Leonard; un riconoscimento sacrificabile in nome della corsa ben più importante e prestigiosa al titolo NBA. Una divisione dei compiti e della scena che in parte falsa la percezione di quello che sia Steph che KD stanno mettendo in mostra sul parquet, abituati com’eravamo al one-man show che spesso e volentieri hanno concesso nell’ultimo triennio. Ma davvero giocare nella stessa squadra ha peggiorato così tanto le loro prestazioni?

È sempre record nel tiro da tre – A guardare gli ultimi cinque mesi di Curry, accecati dal bagliore della passata regular season, sembrerebbe proprio di sì. Ma superato lo scetticismo iniziale dettato dalle sensazioni, si capisce presto che il playmaker degli Warriors si sta concedendo un “terzo anno” di altissimo livello, frutto anche del solito immancabile (e immarcabile) tiro da tre punti, scalfito soltanto in parte dalle difficoltà di qualche settimana fa. Il 7 novembre scorso infatti, il prodotto di Davidson ha fissato il nuovo record di triple in una singola partita (13 contro i Pelicans), tre giorni dopo aver interrotto a quota 157 le gare consecutive con almeno un centro dall’arco. Uno 0/10 contro i Lakers, bissato a fine febbraio tirando 0/11 contro i Sixers: mai nessuno nella storia NBA aveva sbagliato così tanto da tre senza trovare mai il fondo della retina. Se c’è uno che può permetterselo però, è proprio Steph, che nonostante la stagione in parte rapsodica, è pronto a raggiungere l’ennesimo traguardo. Infatti, sono già 282 le triple mandate a bersaglio dal figlio di Dell, pronto a migliorare la seconda prestazione ogni epoca per canestri da tre punti realizzati (286, fissata nel 2015) e soprattutto a scollinare le 300 triple in regular season; impresa riuscita soltanto a lui 12 mesi fa, quando ha portato l’asticella fino a quota 402. Come un tennista costretto a difendere troppi punti nel ranking conquistati al termine della straordinaria annata precedente, ecco quindi qual è il vero problema nella percezione di quello che il numero 30 sta facendo da ottrobre: fare meglio della passata regular season è virtualmente impossibile e, se presa come termine di paragone, tutto svilisce inevitabilmente al confronto. Una parabola discendente stride con il concetto di MVP, nonostante sotto molti aspetti un passo indietro di Steph Curry continui a lasciarlo saldamente davanti a tutto il resto della NBA.

Come nel 2015 – A guardare le prestazioni che gli valsero il premio due stagioni fa infatti, il confronto regge eccome. Nel 2014-2015 il numero 30 chiuse con 23.8 punti e 7.7 assist in 32 minuti, tirando con il 63.8% di true shooting (quella che dà un peso maggiore al tiro dall’arco e che tiene conto della percentuale ai liberi), mettendo a referto uno strabiliante +17 di Net Rating. Gli Warriors delle 73 vittorie dovevano ancora palesarsi e il record di 67-15 fu la ciliegina sulla torta in una stagione da protagonista. Quest’anno? 24.8 punti e 6.5 assist in 33 minuti, 61.9% di true shooting, +16.6 di Net Rating. La stessa identica stagione, la quale senza le cinque sconfitte a seguito dell’infortunio di Durant avrebbe condotto magari ad un record migliore rispetto a quello di due anni fa (al momento è 59-14, non è che vadano molto male le cose). Una stagione da “MVP del 2015” verrebbe da dire, soprattutto dopo il cambio di marcia evidente a inizio 2017, grazie al quale Curry è passato dal 26.3% al 32.4% di usage tra dicembre e gennaio e soprattutto da 21 punti scarsi nel mese precedente ai 27.8 nei primi 31 giorni del 2017. Una reazione arrivata dopo aver toccato il punto più basso nella sfida di Natale contro Clevelend, lasciato in panchina da Steve Kerr nel possesso decisivo del match. “Stiamo lavorando per cercare il nostro equilibrio migliore – commentò a stretto giro l’allenatore -, e Steph tra tutti è quello che ha dovuto fare più aggiustamenti dopo l’arrivo di Kevin”. 

Il sacrificio di KD - “[Curry] ha sacrificato larga parte del suo gioco per fare spazio a Durant, per farlo sentire subito a suo agio, subito accolto”, proseguì poi Kerr al termine della partita persa contro i Cavs, sottolineando come sembrasse quasi dovuto un passo indietro da parte del due volte MVP per fare spazio al nuovo arrivato. L’ex giocatore dei Thunder in realtà è stato il primo a non avanzare grosse pretese, riducendo ai minimi termini i tentativi dal campo (16.7, mai così pochi nei suoi dieci anni di NBA), perdendo però soltanto in parte l’impatto a livello di cifre. Il trucco infatti è stato quello di aumentare l’efficacia del suo gioco, di cui il 53.7% dal campo (mai così bene al tiro) rappresenta soltanto la punta dell’iceberg. Durant infatti aggiunge a un irreale 51% dalla media (tra i 4.5 e i 6 metri per l’esattezza), uno stratosferico 78.2% nella restricted area, dall’interno della quale arrivano oltre il 47% dei suoi canestri. In sostanza: un giocatore alto 2 metri e dieci stando larghi che tira con il 43.4% da almeno sei metri da canestro, in realtà spesso e volentieri attacca il ferro come nessuno, andando a bersaglio quattro volte su cinque quando la sua conclusione arriva nei pressi da meno di un metro di distanza. Un bel casino, vero?

Come ritorna dall’infortunio - A salire poi è stato anche il suo contributo in difesa, come testimoniato dagli 8.2 rimbalzi e 1.6 stoppate, entrambi massimo in carriera, àncora difensiva di una squadra che attorno al numero 35 (e al solito straordinario Draymond Green), è riuscita a costruire la 2^ miglior difesa NBA con 101 punti concessi  su 100 possessi. Una presenza cruciale che, nel momento in cui è venuto a mancare causa infortunio contro Washington all’inizio di un tour massacrante di otto partite in 13 giorni, ha fatto sbandare non poco Golden State, all’angolo e sconfitta ben cinque volte nel giro di due settimane. Adesso però, il peggio è alle spalle e a far ben sperare non sono soltanto le sette vittorie consecutive inanellate, ma anche le immagini di un Durant ritornato a fare sessioni di tiro già dalla scorsa settimana. Miglioramenti che non escludono un suo ritorno in campo prima della fine della regular season; un’ottima notizia per lui e per tutto il coaching staff. Un modo per rimettersi in forma il prima possibile e tornare a inseguire il vero l’obiettivo stagionale, che non è di certo il premio di MVP.