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NBA, Golden State e Cleveland: modi diversi di essere imbattuti

NBA

Stefano Salerno

Golden_State_Cleveland

Il record di vittorie/sconfitte di Warriors e Cavaliers in questi playoff è 6-0 per entrambe; le similitudini però sembrano essere finite qui, almeno all’apparenza...

Le uniche due squadre ancora imbattute in questa post-season non potevano che essere loro. Golden State e Cleveland sono dalla prima palla a due alzata a fine ottobre le maggiori indiziate per ritornare a sfidarsi alle Finals, il terzo incrocio consecutivo che segnerebbe in maniera definitiva un’epoca. Non che lo small ball degli Warriors e lo strapotere di LeBron James non l’abbiano già fatto, in una discussione che posta in questi termini diventa sempre più polarizzante e divisiva. Difficile infatti immaginare due approcci così diversi (e allo stesso tempo così redditizi) nel basket NBA contemporaneo, in cui i principi di gioco non possono che essere condivisi, pur mantenendo allo stesso tempo un’enorme differenza in quanto a suddivisione di responsabilità, movimento del pallone e utilizzo degli isolamenti (giusto per citarne alcune). Approcci diversi, atteggiamenti a tratti opposti, ma stesso numero di vittorie: sei a testa, raggiunte in maniere differenti, ma allo stesso modo preoccupanti per chi sperava di poter mettere in discussione la loro leadership.

La democrazia degli Warriors

“Non lasciate respirare i Jazz”. Poche parole dritte al punto quelle pronunciate da Steve Kerr nel videomessaggio mostrato da Mike Brown nello spogliatoio degli Warriors prima di gara-2 contro Utah. La vera assenza per Golden State infatti è a bordocampo, con coach Kerr costretto a rinunciare a seguire i suoi ragazzi perché nuovamente alle prese con alcune complicazioni alla schiena che potrebbero precludere il suo ritorno in campo in questi playoff. I 15 punti concessi nel primo quarto ai Jazz sono stati la risposta che Steph Curry e compagni hanno voluto dare al proprio allenatore, una semplice sgasata per una squadra che riesce a premere sull’acceleratore a proprio piacimento. La vera forza degli Warriors infatti sta nel fatto che non sembrano esserci crepe o inceppi in un meccanismo che risulta impossibile da scardinare per qualsiasi tipo di avversario, sia quello che prova a sfidarli al tiro (Lillard&McCollum), sia chi invece tenta in maniera vana di rallentarne la corsa (gli Utah Jazz). Come raccontato alla perfezione Matt Moore, gli Warriors sembrano essere davvero troppo per qualsiasi tipo di avversario, con talmente tante armi che rendono improbabile l’opzione che tutte vadano fuori uso nello stesso momento. Il passaggio conclusivo dell’articolo è illuminante: “Hanno troppe opzioni, non puoi scendere a patti con il loro modo di giocare. Non puoi scendere in campo e convincerti del fatto che non concederai ciò di cui loro hanno bisogno, semplicemente perché non c’è nulla di cui loro hanno bisogno”.

La difesa è il miglior attacco

Golden State ritocca quindi così l’ennesimo record, iniziando per la prima volta nella storia della franchigia i playoff con sei successi, travolgendo i poveri Jazz in svantaggio per 94 dei 96 minuti finora disputati nella serie e trasformando l’agguerrita e competitiva Western Conference in una passerella sulla quale esibire le proprie doti balistiche. Se infatti da 64 partite consecutive ai playoff Steph Curry manda a bersaglio almeno una tripla, aggiornando la sua personale striscia da record ogni volta che allaccia le scarpe, il miglior tiratore dall’arco di squadra è Draymond Green con il suo 54.5% su 5.5 tentativi. Ma come, il giocatore contro cui si è costretti a scommettere per non essere travolti dai vari Curry, Durant o Thompson tira con queste percentuali? Beh, ci sarà sempre un “quinto” che magari farà fatica - penseranno in molti -, che risulterà essere l’anello debole della catena. No, anche questo tentativo va miseramente a vuoto, visto che il migliore per Net Rating in questa post-season è JaVale McGee; lo zimbello preso di mira da “Shaqtin a Fool” che nei 68 minuti trascorsi sul parquet ha messo a referto un mostruoso +33.8 di differenziale. Il secondo? Zaza Pachulia, con +26 di Net Rating. Niente dunque, non sembra davvero esserci sbavatura di fronte allo strapotere dei vice campioni NBA, talmente produttivi in attacco da far passare inevitabilmente in secondo piano il rendimento della difesa, vero motore che alimenta i successi di squadra. Golden State infatti ha il miglior rating difensivo in questi playoff (97.8), otto punti concessi in meno su 100 possessi rispetto ai Toronto Raptors e ai Boston Celtics secondi tra le squadre rimaste in corsa per il titolo (105.6), avendo affrontato al primo turno un attacco produttivo come quello dei Blazers, molto più efficace rispetto a quelli di Bucks e Bulls. All’apparenza quindi nessun difetto, se non ci fosse la nemesi con cui dover fare i conti: LeBron James.

La monarchia di King James

I campioni in carica infatti (almeno fino a giugno) sono gli altri, quelli che alla democrazia dell’extra-pass preferiscono la monarchia del ribaltamento di lato fatto sempre dallo stesso giocatore, quello che a tempo perso marca il lungo avversario e la passa meglio del playmaker. Nelle ultime settimane di regular season infatti, Cleveland ha rinnovato il roster in maniera vorticosa alla ricerca di un supporting cast all’altezza dell’attore protagonista. LeBron James nel frattempo se possibile ha alzato ancora un po’ l’asticella delle sue prestazioni, aggiornando l’idea della definitiva maturazione e dell’evoluzione di un gioco che dopo 14 anni al vertice riesce ancora a progredire. Il numero 23 è primo in casa Cavs per punti segnati (34.2), percentuale dal campo (56.5%), assist (7.3), palle rubate (2.7) e stoppate (1.8), secondo solo a Tristan Thompson per rimbalzi catturati (9.2). James sta tirando con il 48.4% da tre, con due terzi dei tentativi che sono conclusioni non assistite (e quindi virtualmente non scongiurabili), diventando senza retorica un giocatore privo di difetti. DeMar DeRozan ha offerto 100 dollari a chiunque conosca un modo per porre un freno al suo strapotere, ma sembra una ricompensa non commisurata rispetto alla qualità necessarie per assolvere al compito.

L’attacco è la miglior difesa

Di pecche però Cleveland ne ha mostrate più di una, non solo nei rari momenti in cui il Re è rimasto seduto in panchina a tirare un attimo il fiato. La difesa dei Cavs infatti è un colabrodo a cui Tyronn Lue non è riuscito a trovare toppe efficaci, un difetto che spesso e volentieri tiene in vita gli avversari agonizzanti (come successo in gara-1 contro i Pacers) o che ti costringe a fare gli straordinari per portare a casa la vittoria (gara-3, sempre contro Indiana). Il rating difensivo dei campioni NBA è pessimo: 107.7 che diventano 122.4 punti concessi nei 35 minuti senza LeBron. L’unico modo per reggere con quel tipo di difesa è portare al massimo dei giri il motore offensivo, viaggiando a cifre e percentuali irreali generate dalle prestazioni senza senso di James e dal  sistema copernicano che gli ruota intorno: tanti satelliti che seguono la propria traiettoria lungo l’arco, aspettando l’imbeccata da parte del numero 23. In casa Cavs infatti Love, Shumpert, Smith, Jefferson, Frye e Williams tirano con più del 40% da tre, uno dei motivi che rendono Cleveland, dati alla mano, un attacco più produttivo di quello di Golden State (116.9 vs. 114.2). In fondo su un campo da basket, con alcune tipologie molto particolari di sovrani, anche un regime autoritario può garantire risultati eccellenti.