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NBA, Splash Brothers alla riscossa: Steph e Klay in cerca di riscatto

NBA

Dario Vismara

Klay Thompson e Steph Curry, insieme ai Golden State Warriors dal 2011-12 (Foto Getty)
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Grandi in regular season, mai davvero bene insieme alle Finals: Curry e Thompson nel terzo episodio della trilogia contro Cleveland hanno alcune brutte prestazioni da farsi perdonare

Il reverendo Mark Jackson fu il primo a dirlo in tempi non sospetti: “Steph Curry e Klay Thompson sono il più grande backcourt di tiratori della storia del gioco”. Dopo aver vinto il più alto numero di partite in un triennio (207), aver completato la miglior regular season di sempre (73 vittorie), aver raggiunto tre finali consecutive e soprattutto aver vinto il titolo del 2015 perdendo il secondo solo nell’ultimo minuto di gara-7, è difficile ignorare l’impatto che gli Splash Brothers hanno avuto sugli ultimi anni della storia della NBA – anche da un punto di vista stilistico, proponendosi come i due volti dell’esplosione del tiro da tre punti. Con la crescita di Draymond Green e l’arrivo di Kevin Durant, l’impatto dei due nell’immaginario collettivo è andato scemando, ma se i Golden State Warriors sono i Golden State Warriors in larga parte è per le incredibili secchiate di triple che Curry e Thompson hanno rovesciato sul resto della lega da quando giocano insieme. Un dominio visto soprattutto in regular season e un po’ di meno nei playoff, in particolare nelle Finals: Curry e Thompson contro Cleveland hanno brillato individualmente solo a tratti, e quasi mai hanno giocato bene entrambi. Se gara-6 della serie contro Oklahoma City dello scorso anno rimane il punto più alto toccato dai due ai playoff (31 punti per Steph, addirittura 41 con 11 triple per Klay), nelle serie contro Cleveland entrambi – per motivi diversi, tra cui la pressione che le Finals inevitabilmente impongono a tutti – hanno faticato. E questo rende ancora più interessante vedere come i due riusciranno a “riscattarsi” dopo la delusione dello scorso anno, quando chiusero gara-7 con 31 punti, 12/36 dal campo e 6/24 da tre punti – in due.

Will the real Klay Thompson please stand up?

Tra i due, quello che più ha da farsi perdonare nella serie di quest’anno è Klay Thompson. Il numero 11 degli Warriors nelle ultime due Finals ha superato quota 30 solamente due volte in 13 partite, in gara-2 del 2015 con 34 punti e in gara-5 dello scorso anno con 37. Il problema è che entrambe le prestazioni sono coincise con due sconfitte dei suoi Warriors, e che Thompson ha al suo attivo tante altre partite sopra 20 punti (tre) quante quelle finite sotto la doppia cifra. E in generale le sue prestazioni al tiro, che rappresentano gran parte del suo gioco, sono state tutt’altro che memorabili: 47.7% di percentuale effettiva nel 2015 con un brutto 30% da tre; leggermente meglio nel 2016 col 52.3% di eFG e il 35% dall’arco. Merito della difesa di J.R. Smith, che nelle due serie ha fatto un buon lavoro nel negargli le situazioni di gioco preferite, ma anche per una certa mancanza di impatto nei momenti decisivi, essendo un giocatore che gioca più sugli scarichi dei compagni rispetto a uno che crea da solo le proprie conclusioni (il 90% dei suoi canestri da tre in carriera sono derivanti da assist). E quando le partite si fanno tese, le difese conoscono a memoria ogni tuo schema e la stanchezza si fa sentire, la capacità di sapersi creare il proprio tiro è di importanza capitale (Kyrie Irving docet): Klay Thompson deve dimostrare di essere cresciuto anche sotto questo aspetto, anche se l’arrivo di Durant inevitabilmente gli ha tolto un po’ di tiri e in questi playoff è finito in uno slump di cui non si vede la fine, tirando col 45.5% di eFG (peggior dato in carriera) e con un mediocre 36% da tre punti. Gli Warriors sono stati talmente superiori al resto delle avversarie da potersi permettere un Thompson lontano dai livelli abituali, e a suo favore c’è da dire che Klay non ha mai fatto mancare il suo apporto difensivo alla squadra: anche in queste Finals sarà fondamentale in marcatura su Irving (sul quale deve vendicarsi per il canestro decisivo della partita di Natale…) per coprire le mancanze di Steph Curry, che verrà puntato continuamente dai portatori di palla di Cleveland.

Le altalenanti finali di Curry      

Il suo fratello di “Splash”, in realtà, si trova in condizioni opposte rispetto a Thompson alla vigilia di queste finali. Innanzitutto Curry sta giocando a un livello celestiale, con i massimi in carriera per punti (28.6) e efficienza (62.2% di percentuale effettiva, non era mai andato sopra il 57) ai playoff in pochissimi minuti (34.3). Le condizioni rispetto allo scorso anno, poi, sono totalmente diverse: un anno fa Curry arrivava alle Finals con un ginocchio in disordine dopo la scivolata sul sudore di Domantas Motiejunas al primo turno, mostrando solamente a tratti lo stesso livello di esplosività dal palleggio dell’irreale regular season da 402 triple. Steph poi portava sulle spalle il fardello del “primo MVP unanime della storia della NBA”, etichetta che ha fatto schizzare alle stelle le aspettative sulle sue seconde finali in carriera, dopo i 26 punti di media tenuti nel 2015 in cui aveva lasciato il suo segno solamente una volta, con i 37 punti di gara-5. Non abbastanza per vincere il titolo di MVP (andato a Andre Iguodala), anche perché i Cavs hanno costruito il loro intero piano difensivo delle due serie con il solo intento di togliergli la palla dalle mani – e Steph ha sempre cercato di fare “la giocata giusta” scaricando verso il compagno libero anche a costo delle proprie cifre personali. Ma in un sistema che tende ancora a premiare e a cristallizzare nella memoria le grandi prestazioni individuali, specialmente di chi vince, sono andate perse la gara-4 da 38 punti dello scorso anno e la gara-6 da 30, in cui Curry tenne in piedi quasi da solo gli interi Warriors finiti subito sotto di 20 punti in un tremendo primo quarto. La brutta gara-7 giocata dal due volte MVP – suggellata da un’orrenda palla persa andando dietro la schiena nel finale di gara e il possesso in cui non è riuscito a battere Kevin Love dal palleggio – ha finito per etichettare le finali 2016 di Curry come un fallimento, cambiando radicalmente la sua percezione.

Al gioco del trono, o si vince o si muore

L’immagine e la notorietà di Curry hanno vissuto una crescita spaventosa, passando da giocatore di culto a idolo delle folle fino a trasformarsi in un fenomeno mondiale, toccando livelli di popolarità visti raramente nell’era post-Michael Jordan. Secondo un sondaggio di ESPN, dopo il titolo del 2015 Curry era il giocatore più amato della NBA (il 15.9% degli intervistati lo indicava come il suo giocatore preferito), mentre James si fermava all’11.7%. Da quel momento in poi Curry è addirittura esploso a livello mondiale, ma a tanto successo equivale, come sempre, altrettanto livore da parte degli haters – un partito che poco a poco ha trovato sempre più consensi fino a far passare Curry come il “villain”, mentre LeBron James e i suoi Cleveland Cavaliers nell’immaginario popolare sono diventati i Davide che affrontavano i Golia di Golden State. Ovviamente le cose non stanno così – basti pensare che nel 2011 James era il più grande “villain” della NBA… –, ma con la sconfitta dello corso anno la situazione si è ribaltata, con “King James” a guadagnarsi il 15.6% delle preferenze e Curry crollato al 12.3%. Ma al di là dei favori del pubblico, Curry deve riprendersi uno trono – quello di miglior giocatore del mondo – che sembrava essersi conquistato con la regular season 2016 e che invece James si è ripreso con la forza nelle scorse Finals, in cui è sembrato testa e spalle il migliore in assoluto, stoppandolo senza pietà in più di un’occasione e riservandogli diverse parole non proprio edificanti, mostrando un disprezzo (sportivo) che rende la loro una rivalità più accesa di quella che si potrebbe pensare. È la competitività che rende grandi le stelle delle NBA, quella che porta avanti le storylines delle finali e ci tiene incollati davanti allo schermo anche alle 3 del mattino: tra i protagonisti Golden State Warriors e Cleveland Cavaliers c’è in palio qualcosa in più del semplice Larry O’Brien Trophy, e non vediamo l’ora della palla a due della notte tra giovedì e venerdì per scoprire assieme chi vincerà il terzo episodio della trilogia.