L'incredibile storia del Kōshien in Giappone

Eikō wa chikamichi nashi È una frase di Kataoka Tesshin, di professione insegnante e allenatore della squadra di baseball della Seidō High School a Kokubunji, una città all’estremo ovest di Tokyo dove la giungla urbana pian piano si dirada. Lui è uno di quei classici allenatori-sergenti: apparentemente duro, ma in fondo dal cuore d’oro. Dai suoi ragazzi richiede il massimo per cercare di raggiungere un obiettivo che si può ottenere solo restando pienamente focalizzati: vincere il campionato nazionale. C’è solo un piccolo particolare: Kataoka Tesshin non esiste, la Seidō High School neppure . Loro sono protagonisti e ambientazione di ‘Ace of Diamond’, un manga di grande fortuna che per quasi vent’anni ha accompagnato milioni di giapponesi narrando le gesta di una squadra di baseball liceale nel suo tentativo di conquistare il titolo nazionale. Un percorso fatto di allenamenti estenuanti, rapporti non sempre semplici con allenatori e compagni di squadra e incontri leggendari per raggiungere il successo. Sembra un eccellente espediente narrativo – lo stesso, in fondo, di ‘Captain Tsubasa’, altro manga sportivo dal successo planetario arrivato in Italia con il titolo di ‘Holly e Benji’ – eppure si fonda su una realtà che ogni anno accende i cuori del popolo giapponese. Il fascino di questa storia non nasce solo dalla fantasia: il torneo esiste davvero, ed è molto più incredibile di qualsiasi manga. Si tratta dello zenkoku kōtō gakkō yakyū senshuken taikai, letteralmente ‘campionato nazionale di baseball delle scuole superiori’, ma per tutti è il ‘Kōshien’, dal nome dello storico impianto, posto qualche chilometro fuori da Osaka, in cui si disputa dal 1924 sempre nel mese di agosto. Sarebbe riduttivo parlare del Kōshien come di un torneo di baseball tra ragazzi delle scuole superiori: così facendo accentueremmo quella sensazione di stranezza che avevamo tutti noi nel guardare ‘Holly e Benji’ e vedere gli stadi pieni e la telecronaca della partita. Il Kōshien, trasmesso ogni anno sulla televisione nazionale NHK, è regolarmente l’evento sportivo non professionistico più visto in tutto il Paese: un torneo di due settimane che vede di fronte 49 scuole provenienti da ciascuna delle 47 prefetture del Giappone in un tabellone a eliminazione diretta sino a incoronare la scuola vincitrice. Il torneo non vive semplicemente di un lato agonistico o della curiosità di vedere i campioni del futuro, sebbene proprio al Kōshien si siano messi in mostra per la prima volta giocatori del calibro di Daisuke Matsuzaka, Ichirō Suzuki, Hideki Matsui, Masahiro Tanaka, Yū Darvish e Shohei Ohtani – tutte stelle che poi hanno brillato anche in Major League. Questa è solo una piccola parte di un evento che parla non solo del Giappone come passione sportiva, ma del Giappone come cultura. Il Kōshien viene definito ‘jinsei no shukuzu’ – microcosmo della vita – poiché al suo interno racchiude tanti aspetti chiave della wa, l’armonia che regola il quotidiano. La lunga scalata per raggiungere il successo è fatta di lavoro di squadra, in cui il singolo sparisce all’interno del collettivo; ferrea disciplina; profondo rispetto delle gerarchie nei confronti dei compagni più anziani e dell’allenatore; lunghissimi allenamenti in cui la ripetitività dell’esercizio, la quantità, viene valorizzata. La passione delle scuole Ogni anno sono oltre 3.600 le scuole di tutto il Paese che si iscrivono al torneo. Le qualificazioni cominciano molto presto e sono composte da un’infinita serie di partite ‘dentro o fuori’. Poi si arriva al Kōshien, lo stadio divenuto tempio del baseball scolastico, che oltre a ospitare il torneo è sede di una delle squadre professionistiche più amate del Giappone, soprattutto nell’area del Kansai: gli Hanshin Tigers. Nemmeno il professionismo può competere con il torneo delle scuole superiori e ogni anno i campioni dei Tigers, pagati profumatamente milioni di yen, sono costretti a giocare per oltre due settimane in trasferta. La loro casa diventa quella di centinaia di giovani ragazzi. Una volta arrivati alla fase nazionale del torneo, il cerimoniale diventa quasi un rituale: dagli altoparlanti rimbomba la canzone ufficiale del torneo, la sirena suona per dare il via alla partita, sugli spalti vengono riservati dei posti alle sezioni musicali delle scuole che giocano per permettere loro di incitare incessantemente con fiati e tamburi i propri compagni che intanto, sull’iconico diamante completamente ricoperto di terra rossa del Kōshien, sono invitati a dare tutto loro stessi per arrivare alla vittoria. Le divise si sporcano di terra a ogni tuffo per evitare una battuta valida e a ogni scivolata per cercare di arrivare salvi, mentre l’umidità dell’estate giapponese bagna di sudore i giocatori che a bocca aperta cercano di trovare un refolo d’aria leggermente più fresca. A fine partita le squadre si schierano in due ordinate file parallele e, dopo il suono della sirena, si inchinano e si stringono le mani. A quel punto il gruppo vincitore rimane in campo e intona a tutto volume l’inno della propria scuola, mentre gli sconfitti tornano nello spogliatoio non prima di aver raccolto un po’ della terra di un campo su cui non sanno se rimetteranno mai piede. Nuove tradizioni Oltre ai rituali dettati dal tempo della partita e dalle esigenze televisive, ci sono tradizioni che nel tempo stanno cambiando. Una su tutte: sempre più scuole lasciano libertà ai giocatori di mantenere i capelli alla lunghezza desiderata, purché non diano fastidio durante il gioco, mentre fino a poco tempo fa era consuetudine rasarli. Segno che i tempi stanno cambiando anche al Kōshien, pilastro della tradizione giapponese, un torneo visto in tutte le case di campagna dove i giapponesi tornano in agosto durante l’obon, la festività per onorare gli spiriti degli antenati. Anche l’utilizzo dei giovani giocatori è oggi più accorto. Fino a poche edizioni fa gli allenatori, orientati unicamente alla vittoria, usavano il proprio miglior lanciatore fino allo sfinimento, causando anche gravi ripercussioni sul fisico. Oggi, anche grazie a una campagna di sensibilizzazione portata avanti da grandi campioni, le regole sono cambiate per preservare le braccia dei pitcher, ma non tutti hanno accolto favorevolmente la modifica. Resta però una grande domanda: davvero basta questo per spiegare la popolarità del baseball scolastico? Certo, come negli Stati Uniti, lo sport collegiale è a volte più seguito di quello professionistico, grazie al legame del pubblico con la propria alma mater, ma agli occhi europei sembra comunque particolare. Va ricordato che il Kōshien, nato nel 1915 per volontà del direttore dell’Asahi Shimbun, è arrivato diversi anni prima del primo tentativo di campionato professionistico in Giappone. Baseball e scuola nell’arcipelago sono un’entità indissolubile: è negli edifici scolastici che si è sviluppato il gioco portato prima dagli americani e poi promosso dall’imperatore Meiji all’esplodere della guerra sino-giapponese per forgiare un’identità nazionale sulla base di uno sport collettivo, caratteristica assente in arti tradizionali come il judo e il kendo. Il senso della tradizione, della storia e del rito collettivo nella società giapponese riesce a superare anche i confini naturali del tempo. Le due settimane del Kōshien sono la parte più brillante e sportivamente carica di pathos di questa realtà. Sul campo alle porte di Osaka, visto il valore del torneo, si è poi assistito anche allo scorrere della storia giapponese dell’ultimo secolo. Nel 1918 il torneo fu cancellato pochi giorni prima del via a causa dei moti del riso, tumulti popolari mai più eguagliati in Giappone per dimensioni e violenza; nel 1926 una scuola della Manciuria – all’epoca sotto l’impero giapponese – arrivò fino in finale, mentre nel 1931 fu la volta della Kano, una scuola di Taiwan sulla cui cavalcata al Kōshien ne è stato fatto un film uscito nel 2014. Nel 2024 a vincere è stata invece per la prima volta una scuola internazionale, la Kyoto International, nata nel dopoguerra come scuola per i coreani che vivevano in Giappone. Oggi oltre il 90% dei suoi studenti è di etnia giapponese, ma l’inno cantato è ancora interamente in coreano, con alcuni termini discussi – come ‘donghae’ , il modo in cui i coreani chiamano quello che per i giapponesi è il ‘Nihonkai’ – scatenando le ire di molti nazionalisti. L’immediata popolarità del Kōshien portò già nel 1924 il quotidiano rivale ‘Mainichi Shimbun’ a creare un torneo a inviti nello stesso stadio, ma in un altro periodo dell’anno: a marzo. Da allora esiste anche il ‘Kōshien di primavera’ che, pur trasmesso in diretta sulla NHK e seguito con passione, non ha la stessa mistica della controparte estiva. Nella società giapponese il rituale del Kōshien è per milioni di persone il caldo abbraccio di casa, il ricordo di uomini ormai anziani di quando era il loro sogno disputare quelle partite, e la speranza per tanti giovani di mettersi in mostra davanti al grande pubblico, seguendo le orme di grandi campioni passati su quel diamante di terra rossa, condividendone paure, ansie e ambizioni. E forse è proprio così: al Kōshien, come nella vita, non esiste scorciatoia per la gloria. C’è solo la polvere rossa del campo, il sudore sulla fronte e il suono della sirena che annuncia l’inizio della partita.

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Nicolò Gatti