Flavio Abbate, la promessa del padel italiano: "Posso arrivare tra i primi 15 al mondo"

A 21 anni la vita può correre davvero a perdifiato. Specialmente se fino a 3 anni prima giocavi a padel insieme ai tuoi amici nei campetti attorno a Siracusa cercando ancora di portare avanti il sogno di diventare un tennista, mentre invece oggi ti ritrovi a essere unanimemente considerato come la speranza azzurra più concreta dello sport della pala, che dal Covid in poi ha invaso i centri sportivi di tutta l’Italia e in questi giorni sta dilettando l’ego di Milano con le gesta dei suoi campionissimi, impegnati del P1 dell’Allianz Arena. Ma Flavio Abbate, dall’alto dei suoi 184 centimetri di muscoli, tanti sorrisi e una genuina esplosività, anche dialettica, non sembra proprio aver paura di procedere spedito. Anzi. Da quando ha deciso, alla fine del 2021, di accorciare la racchetta ed eliminare le corde, sia perché stanco di non riuscire a trovare più le motivazioni per giocare a tennis sia perché folgorato, come molti, dall’epifania padelistica, la sua vita è cambiata radicalmente, sempre più velocemente. Trasferimento prima a Roma e poi in Spagna, nuovi allenatori e nuovi metodi di allenamento, le prime esperienze nei tornei Fip, un paio d’anni per collaudare e affinare il talento e poi l’esplosione, fragorosa, in questo 2025. Che, dopo la separazione dall’amico fraterno Giulio Graziotti a seguito dell’eliminazione nelle qualificazioni del P1 di Santiago di fine marzo e la nuova collaborazione con lo spagnolo ma italianizzato Alvaro Montiel, lo ha proiettato prima nella top 100 mondiale e poi lo ha visto scalare la classifica a suon di finali e vittorie . Oggi, 5 mesi dopo quel suo ingresso in top 100, Flavioloso – soprannome coniato dal nostro collega Bagnulo e vidimato da Abbate stesso – è numero 84 del mondo, ha superato Cremona e punta Cassetta, primo degli azzurri non oriundi in classifica, a conferma del fatto che il talento non è in discussione e che la strada, quella del predestinato che fa di lui la nuova speranza del padel italiano, è oramai tracciata. Ma Flavio, come detto, ha le spalle larghe e la visione limpida, sembra totalmente a suo agio nella posizione che occupa e non trema di fronte alla responsabilità che in molti gli stanno mettendo addosso, come ci dice nel suo particolarissimo accento siculo-spagnolo quando ci concede una chiacchierata di 20 minuti dopo la sconfitta al primo turno del P1 milanese col suo nuovo compagno Manuel Castano: “Io sinceramente tutta questa pressione non la sento, forse anche perché per me è iniziato tutto come un gioco e in fondo un gioco rimane, sebbene ora sia diventato a causa di forze maggiori un vero e proprio lavoro. Io sono tranquillo, cerco di allenarmi al meglio, di mangiare bene e fare le cose giuste. Di fare il professionista, insomma. E poi credo molto nel destino, io posso solo fare al meglio il mio e poi sarà lui a decidere il percorso”. Il destino, per l’appunto. Quello del padel italiano di avere un giocatore nei primi 20 del mondo sembra essere affidato interamente a te in questo momento, visto che sei il più giovane, anzi l’unico giovane, e oltretutto in rapidissima ascesa, a occupare la top 100 del mondo. Secondo Simone Cremona , però, per avere un azzurro non oriundo tra i primi 20 serviranno almeno altri 45 anni, immagino che vorrai smentirlo coi fatti? Insomma, ti sei dato un punto d’arrivo in questa tua gara col destino? "Non so cosa succederà ma il mio obiettivo è chiaro e secondo me alla mia portata col tempo: top 15/20 del mondo". Quindi lo smentirai “Sinceramente non posso esserne certo, ma visto come sono andate le cose in questi primi tre anni, visti i margini di crescita che ancora ho, credo che sia un obiettivo realistico. Non dico primi 5, però sento che con l’impegno e col lavoro posso arrivare nei primi 15”. Sperando che nel frattempo altri giovani possano seguire le tue orme “Ce ne sono e sono certo che arriveranno anche loro col tempo. Anzi, ti faccio due nomi. Uno è un ragazzino del 2008, anche lui siciliano di Siracusa come me e anche lui mancino come me, che ha appena giocato il Mondiale under 16, Stefano Indomenico. L'altro è Tommaso Rufo, anche lui mancino, numero 9 al mondo negli under 14 e 39 per gli under 16”. Cosa serve a loro due, ma in generale ai ragazzi italiani, per fare il salto di qualità definitivo e poter ambire a diventare giocatori mondiali di altissimo livello? “Io posso dirti cosa è servito a me, raccontare la mia esperienza personale. Per me è stato fondamentale trasferirmi e allenarmi in Spagna, decisione presa in concomitanza con il mio sodalizio con Montiel. Da aprile vivo a Madrid e mi alleno alla Diagonal Padel Academy di Juanma Rodriguez e Agustin Silingo”. Spiegaci cosa è cambiato “Letteralmente tutto. Ho una squadra di professionisti che mi segue tutti i giorni per aiutarmi a crescere, tutti i giorni ti alleni con i migliori giocatori al mondo, tantissimi top 30, campioni del livello di Chozas e Ruiz, Sanyo e Leal, vivi sempre a contatto con altri giocatori, ti scambi continuamente impressioni e sensazioni. Insomma, respiri padel a 365 gradi e sei immerso totalmente nella realtà di questo sport. Mi sono allenato a Roma per un anno con Lele Fanti e mi sono trovato benissimo, ma ho capito subito che per fare il salto di qualità dovevo andare in Spagna”. Anche se lasciare il proprio paese da giovanissimi non è sempre facile... “È vero, ma infatti credo che sia fondamentale che i più giovani vengano comunque seguiti da un maestro italiano per mantenere una sorta di continuità, ma con i metodi, le strutture, le possibilità che ci sono in Spagna. Soprattutto, con il ritmo di gioco che si trova nelle Academy spagnole e con lo studio delle situazioni tattiche. Li ti insegnano come colpire la palla, cosa fare e cosa no quando c’è una determinata situazione, riuscire a capire il gioco sempre più velocemente”. Cosa che in Italia, quindi, non fanno? “Certo si fa anche in Italia, ma in Spagna stanno avanti, semplicemente perché il gioco è arrivato prima e ci sono molti più professionisti qualificati. Noi siamo ancora in ritardo, ma piano piano ci arriveremo”. Insomma, almeno in questo momento, la cosa migliore è diventare uno ‘spagnolo’. In campo ti ho sentito esultare sempre in spagnolo, ascoltandoti parlare il tuo accento sembra quasi più spagnolo che siciliano, sei arrivato anche a pensare in spagnolo? “Sì, oramai sì. Vivo sempre a contatto con ragazzi spagnoli, ho tanti amici a Madrid coi quali passo il mio tempo libero e parlo praticamente sempre in spagnolo. La prima volta sono andato lì nel 2023, durante il mio primo vero anno da professionista, per fare tre mesi di preparazione più un altro mese di richiamo. Nel 2024 poi mi sono trasferito a Roma per allenarmi con Lele Fanti ma proprio dal confronto delle due situazioni, per quanto ripeto con Lele sia stato benissimo, ho capito che dovevo spostarmi definitivamente li”. E anche grazie al lavoro in Spagna sei arrivato, insieme al tuo ultimo compagno Castano col quale hai giocato anche qui a Milano, a sfidare due fenomeni assoluti di questo sport come Lebron e Stupaczuk, nei sedicesimi del Premier di Parigi, certamente il risultato più prestigioso finora in carriera. Che emozione è stata quella partita di settembre? Era un tuo primo obiettivo riuscire a giocare una partita contro dei top 10 ed ex numeri 1 del mondo? “Un grande emozione, certamente, che voglio riprovare il più volte possibile. Ma più che un obiettivo era un modo per vedere a che punto siamo arrivati, un metro per giudicare il percorso che stiamo intraprendendo, un modo anche per capire cosa ci manca e perché i giocatori forti sono così forti e a volte sembrano imbattibili”. E l’hai capito? “Sì, ma già lo sapevo. O meglio, ho confermato quello che pensavo”. Cioè? “Che la differenza che c’è, e a volte è veramente netta, tra le prime 4 coppie al mondo e le altre è che i migliori giocatori hanno una costanza sulle due ore che gli altri non riescono a raggiungere. Hanno una precisione di colpi, una prestanza fisica e una presenza mentale altissima e la riescono a mantenere per due ore, cosa che gli altri non riescono a fare. Sono impressionanti”. A proposito di Castaño, come sta andando questa vostra nuova pareja nata proprio prima del Major di Parigi? “Devo dire molto bene per ora, siamo insieme da poco, per l’appunto da Parigi a settembre e abbiamo iniziato subito alla grande. Poi siamo andati a Lisbona, in un Fip Silver, e siamo usciti ai quarti di finale contro una coppia molto forte, la numero 20 del mondo, in una partita nella quale abbiamo avuto le nostre occasioni e che potevamo vincere. Poi lui è andato al Mondiale io ho avuto i miei altri impegni e ci siamo ritrovati qui a Milano”. Dove forse potevate passare il turno. Cosa è successo? “È stata una partita negativa, senza dubbio. Forse non meritavamo di vincere nemmeno il primo set , ma siamo arrivati un po’ stanchi a questo torneo, non siamo riusciti a provare il campo, abbiamo giocato malino senza riuscire a mettere in campo le situazioni che abbiamo provato col coach”. A proposito, mi interessava capire anche il lato organizzativo di una coppia così giovane che pratica uno sport dove si deve continuamente viaggiare e i guadagni, per chi non è tra i primi al mondo, non sono così alti. Come vi organizzate? Avete qualcuno che ci segue per le questioni logistiche? “Noi facciamo tutto da soli, praticamente. Ci sono giocatori che hanno dei rappresentanti e sono seguiti molto da vicino dagli sponsor, ma in generale, soprattutto non a livello altissimo, i giocatori fanno un po’ tutto da soli. Prima dei tornei ci organizziamo, decidiamo quando partire e prenotiamo voli e alberghi”. Anche questo un aspetto che aiuta la crescita, di un atleta sicuramente ma soprattutto di un ragazzo come te “Sì, certo, ma è una cosa alla quale siamo abituati, almeno personalmente. Per esempio, io non ho nemmeno un rappresentante esterno alla mia famiglia, ma solo mio padre che mi gestisce un pochino. Mi trovo molto bene così, sono tranquillo, abituato a organizzarmi per i fatti miei”. A proposito di tuo padre, è vero che ti chiama il cappellaio matto? E perché? “Sì, confermo. È un soprannome che mi ha dato quando giocavo a tennis, perché ogni volta per vincere la partita ‘uscivo i numeri’ dal cilindro come un cappellaio, ovvero dovevo facevo dei colpi a effetto particolari tipo back pazzeschi con la palla che tornava indietro, delle cose un po’ estemporanee che in realtà non c’entrano nulla col gioco, ma che esprimono solo del talento”. Perché te, da bravo mancino, sei un giocatore soprattutto talentuoso… “In realtà mi ritengo più un giocatore fisico che talentuoso, anche perché qui siamo a livelli veramente altissimi. Certo la mia componente mancina mi ha aiutato a livello di talento, ma cerco di sfruttare soprattutto la mia prestanza fisica, almeno per il momento. Ma, soprattutto, sono un giocatore esigente con se stesso che cerca sempre di perfezionare tutto quello che fa, di giocare ogni punto nel modo migliore, eseguendo il colpo giusto”. Per farlo, però, nel padel serve anche una grande intesa col proprio compagno, col quale si deve diventare un’entità unica. A proposito mi ha molto colpito una cosa che hai detto qualche tempo fa a proposito del tuo amico fraterno Graziotti, che quando si è troppo legati anche fuori dal campo spesso la coppia non gira perché non si riescono ad affrontare tutti i problemi e si hanno anche delle remore a parlarsi duramente in faccia quando le cose non vanno? “Verissimo, è quello che un po’ è successo con Giulio. Noi non siamo amici, siamo due veri e propri fratelli e uno dei miei sogni era quello di arrivare in top 100 insieme a lui. Ma è normale che le coppie non possono andare avanti troppo a lungo. A dicembre scorso abbiamo iniziato a parlare della possibilità di separarci e ci siamo dati un torneo di tempo, che abbiamo vinto. Siamo andati avanti ma la situazione era sempre più complicata, perché in campo facevamo fatica a confrontarci per paura di rovinare il nostro rapporto d’amicizia. Che comunque continua alla grande, anche in campo, perché i campionati italiani continuo a giocarli insieme a lui”. Hai parlato del lato umano della coppia, scopriamo un pochino meglio il tuo. Domande veloci e risposte veloci ok? Partiamo: che sport hai fatto da piccolo? Subito tennis? “Sì, praticamente una gioventù dedicata al tennis. Ho giocato per 6 mesi a calcio ma poi solo racchetta e pallina. Fino ai 12 anni ero tra i primi in Italia, poi per questioni personali ho smesso per tre anni e sono tornato in campo ai 15. Ma li era già cambiato tutto, non era più la stessa cosa. Fino a 17 ci ho provato, mi sono anche trasferito a Palermo per allenarmi, ma poi ho scoperto il padel e piano piano ho sempre avuto meno voglia di giocare a tennis e più a padel”. Hai sentito la chiamata, insomma. Immagino che il tuo idolo sportivo fuori dal padel sia un tennista. Indovinato? “Sì, indiscutibilmente Roger Federer”. E il padelista? Puoi scegliere solo un mancino come te e dire Coello non vale… “John Sanz, talentuosissimo. E abbiamo anche un bel rapporto”. Se hai una sera libera cosa ti piace fare? “Andare in discoteca con gli amici. Senza ubriacarmi, ovviamente. Solo per ballare e divertirmi”. Il viaggio della vita, o quello che vorresti fare? “New York, spero di andarci quest’anno”. Alla fine della tua carriera sarai felice se? “Se avrò partecipato a un’Olimpiade e se avrò lasciato un buon ricordo di me come giocatore. A prescindere dai risultati”. E allora in bocca al lupo, Flavioloso. A proposito, possiamo dare soddisfazione a Bagnulo e chiamarti definitivamente così? “Sì, mi piace Flavioloso”.

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Flavio Abbate, la promessa del padel italiano: "Posso arrivare tra i primi 15 al mondo"

Michele Mastrogiacomo