Andrew Howe torna dopo 11 anni oltre gli 8 metri: “Dovevo guarire me stesso”

Atletica
Lia Capizzi

Lia Capizzi

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A Rieti alla prima uscita stagionale Andrew Howe stupisce nel salto in lungo volando a 8.03 metri (ventoso, +4,4). Era dal 2010 che non atterrava oltre gli 8 m all’aperto. La lenta rinascita di un ragazzo prodigio con un carriera da campione schiacciato dalle pressioni, dalle responsabilità, dalle scelte sbagliate e dai troppi rimpianti. Howe è tornato, finalmente più leggero, alla ricerca delle Olimpiadi di Tokyo per chiudere il suo cerchio. Bel debutto per Davide Re, primatista italiano dei 400 m: vince in 45”76

Rivedere Andrew Howe, alla non più tenera età di 35 anni, atterrare oltre gli 8 metri è una notizia preziosa. Per lui, che in silenzio e con umiltà ha continuato ad allenarsi a dispetto di chi lo dava per finito. E lo è pure per chi ama l’atletica in generale e il salto in lungo in particolare.  

Ho capito finalmente che dovevo guarire me stesso, tornare ad avere una pace interiore per gareggiare e divertirmi. Lo faccio per me stesso e per le persone che mi circondano. Mi ha aiutato uno psicologo sportivo, perché ho sempre avuto grossi problemi di ansia da pre-gara, arrivavo a non dormire la notte prima. Adesso piano piano sto tornando ad essere il vero Andrew”, commenta radioso l’azzurro.

Nella sua Rieti Andrew ricorda a tutti di essere ancora un campione, non saltava oltre gli 8 metri all’aperto dal 2010. Una enormità, un periodo di tempo di 11 anni durante il quale si è preferito definirlo con troppa superficialità un talento sprecato, un ex ragazzo prodigio, un personaggio solare che si era fatto confondere dalle luci degli studi televisivi o dalla pubblicità delle merendine. In pochi hanno cercato di scavare nell’anima profonda ma tormentata e delicata di Andrew. Nato a Los Angeles (12 maggio 1985) da papà Andrew ex calciatore e da mamma Renée Felton che sposa in seconde nozze Ugo Besozzi trasferendosi in Italia a Rieti, diventando l’allenatrice del figlio. Esploso giovanissimo grazie al talento cristallino nel salto in lungo e nei 200 metri, roba da stropicciarsi gli occhi quando nel 2004 ai Mondiali juniores di Grosseto, a soli 19 anni corre il mezzo giro di pista in 20.28 e in pedana vola ad 8.11 metri.  Nel 2006 al Golden Gala di Roma atterra a quota 8.41 e subito dopo conquista l’oro agli Europei di Göteborg (8.20 metri). L’Italia intera impazziva per le sue gare ma era pure innamorata della sua faccia espressiva, del suo slang reatino, della risata coinvolgente, della passione musicale quando suonava la batteria. Un vero personaggio, ammirato e coccolato. Nel 2007 l’apoteosi ai Mondiali di Osaka con un balzo a 8,47 metri, il nuovo record italiano (migliorando l’8.43 di Giovanni Evangelisti del 1987) e una medaglia d’argento che ha il sapore della beffa complice il fenomenale panamense Irving Saladino che nell’ultimo salto della finale iridata vola a 8.57 togliendogli la gioia della vittoria. Lo stesso Saladino che l’anno successivo conquista la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino 2008 con un “normale” salto a 8.34 ma senza il vero Andrew Howe in gara come avversario. Quei Giochi nella capitale cinese diventano il vero incubo dell’intera carriera dell’azzurro, prestano il fianco alle critiche di chi non l’ha tutelato, di chi gli ha messo sulla schiena la scimmia di un paragone pesante con Pietro Mennea, di chi non gli ha semplicemente imposto una scelta: Andrew, o salti o corri. Succede tutto un mese prima dell’appuntamento a cinque cerchi, nel giugno 2008, complice una pista resa scivolosa dalla pioggia Howe si fa male correndo i 200 metri in Coppa Europa, rimedia un infortunio muscolare, la preparazione olimpica se ne va in malora, a Pechino si presenta in pedana ma è chiaro che non è in forma, con un banale 7.81 non riesce neppure superare il turno di qualificazione. Il ricordo di Pechino 2008 diventa un tormento, il continuo rimuginare: “se non avessi corso i 200 magari avrei una medaglia olimpica al collo nel lungo?”. Il pensiero costante del cosa è stato e di cosa invece avrebbe potuto essere si trasforma in un incubo indesiderato di tanti notti in binaco. Altri infortuni si susseguono nel corso degli anni, Howe torna in gara sia nei 200 metri (pure nei 100 metri) sia nel lungo ma è degno di essere annotato solo di un quinto posto agli Europei di Barcellona 2010 (8.12 m). La pedana diventa pure una nemica, nel giugno 2011 dopo un modesto 7.68 ai Campionati italiani la manda pure al diavolo: “Basta, non gareggerò più nel salto in lungo”. Un mese dopo in allenamento si rompe lo stesso tendine d’Achille sinistro operato 24 mesi prima a Turku in Finlandia. È il declino di una carriera, pensano tutti a ragion veduta. Ma Andrew ha un amore viscerale per il suo sport, per la vita da atleta, per la fatica, non ci vuole rinunciare. Rinuncia piuttosto a mamma Renè nel ruolo di allenatrice, spesso contestata nel non aver saputo gestire il talento del figlio. Il cammino di rinascita è difficile, tormentato, mentalmente intricato, si aggrappa alla musica come valvola di sfogo e alla televisione (Ballando con le Stelle) come giocosa distrazione. Si alza, ricade, torna a rialzarsi, decide di dedicarsi solo al lungo, “perché io non sono un velocista, non ho la mentalità del velocista, io sono un saltatore, io amo i salti”, rivela a Sky Sport nel 2017 durante uno Speciale realizzato insieme all’Highlander azzurro Fabrizio Donato (bronzo a Londra 2012 nel triplo) nel ruolo di suo nuovo tecnico. Il sodalizio si scioglie, valigie in mano torna nella sua Rieti riassaporando il gusto di allenarsi nella pista di casa sotto la guida di Chiara Mainardi. Pochi salti e tanta corsa, eccolo lì il solito Howe che ancora una volta non sa decidersi tra le due specialità del cuore. A 33 anni è un veterano, nel gruppo dei giovani italiani in ascesa, Filippo Tortu su tutti, quando viene convocato in Nazionale per partecipare ai Mondiali di Staffette- World Relays - del 2019 a Yokohama, ha un cognome pesante ma nel gruppo azzurro sembra l’ultimo arrivato in quanto a modestia e abnegazione negli allenamenti. Continua a gareggiare ma le sente bene le voci alle spalle: ma chi glielo fa fare ad Howe di continuare con l’atletica, perché non smette? Fa spallucce ai rumors, sempre educato ma defilato, costantemente motivato perché ha un conto in sospeso con le Olimpiadi ed è lì che vuole tornare, per chiudere il cerchio di una carriera con tanti se e troppi ma. La parola fine la vuole mettere lui, non gli altri, possibilmente su una pedana a cinque cerchi. Dal 2019 lo segue Stefano Serranò a capo di un team che comprende la presenza fondamentale di uno psicologo-motivatore che lo aiutato a rimettere ordine nei grovigli della sua mente. Et voilà, Howe si è ricordato di essere in primis un saltatore, finalmente la scelta definitiva. Ecco cosa c’è dietro il salto di 8.03 metri del suo debutto stagionale a Rieti, una misura ventosa (+4,4) e quindi non omologabile ma già il solo fatto di ritrovare Howe oltre gli 8 metri ad 11 anni di distanza dall’ultima volta all’aperto (aveva invece saltato 8.01 ma indoor nel 2017 ad Ancona) è dannatamente emozionante. E c’è pure l’ultimo salto della gara, regolare a 7.75 (+1,4), in cui il 35enne dell’Aeronautica Militare regala almeno 20 centimetri all’asse di battuta.  

“Questa è stata una gara che serviva a testare le mie sensazioni con anche una rincorsa nuova. Sono tornato a saltare come quando ero giovane, diciamo. Il vento non mi ha aiutato, anzi, un vento così eccessivo mi ha creato problemi di rincorsa, quindi aspetto con curiosità la prossima gara. Il mio obiettivo è saltare 8.22, cioè il minimo olimpico. Voglio partecipare e cercare di fare una Olimpiade degna del mio nome”.

Il sorriso non è mai mancato sul volto di Howe, la tenacia di allenarsi duramente l’ha sempre avuta, adesso però ha trovato quella scioltezza di testa che ostinatamente ha rincorso dopo anni e anni schiacciato dalle pressioni, dalle responsabilità, dai rimpianti. Howe è tornato, finalmente più leggero.

Re batte i Borlée e vince nei 400 m

Rieti è anche la culla adottiva di Davide Re, il recordman italiano dei 400 metri, primo italiano nella storia a scendere sotto il muro dei 45 secondi (44”77, 30 giugno 2019). Il 28enne di Imperia, studente di Medicina, non gareggiava da otto mesi dopo l’infortunio al tendine d’Achille rimediato in Diamond League a Stoccolma nell’agosto 2020.  Alla sua prima uscita stagionale l’allievo di Chiara Mainardi vince in 45”76 (QUI IL VIDEO DELLA GARA) precedendo i due fratelli Kevin (46”15) e Dylan Borlèe (46”57), niente male come gara d’esordio per l’azzurro che ad agosto ai Giochi di Tokyo sogna la rivincita di quella finale mancata ai Mondiali di Doha 2019 per appena 8 centesimi, il primo degli esclusi.  “Sono contento di essere tornato. L’ultima gara, a Stoccolma, quella dell’infortunio al tendine d’Achille, me la portavo ancora un po’ dietro emotivamente e oggi era importante rompere il ghiaccio. Penso che avrei potuto correre un paio di decimi più forte, quello sì. Ma sono felice di questo tempo e sarà veramente importante per le World Relays della prossima settimana in Polonia”.

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