Jugoslavia 1991, “The Lost Dream Team”

SARAJEVO - La storia non è certo nuova ma – una volta di più – vale la pena raccontarla. Perché raccontarla da Sarajevo è diverso, visto che la storia riguarda la nazionale di pallacanestro jugoslava capace di dominare il mondo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, fino all’apogeo degli Europei del 1991 disputati a Roma . Per quella squadra Roma fu, appunto, punto più alto, vertice assoluto ma anche capolinea, momento terminale, come racconta il nuovo documentario firmato dal regista croato Jure Pavlovic “Izgubljeni Dream Team – The Lost Dream Team”. Che ho potuto vedere, nella sala del cinema di Gbravica , a pochi giorni dal via di Eurobasket 2025. Kino Grbavica È una proiezione serale, fuori è già buio e per arrivare al cinema si devono sorpassare tre enormi palazzoni di chiara impronta socialista alti ognuno 15 piani, una “AutoSkola” che funge anche da noleggio auto e uno studio dentistico con un bel molare al neon ritratto nell’insegna, a squarciare l’oscurità. Il quartiere, da cui il cinema prende il nome, è quello di Grbavica, appena sotto il fiume Milijacka che scorre lì accanto, e forse non è un caso che la proiezione sia in programma proprio qui. Perché Grbavica fu zona di frontiera, a maggioranza serba, durante l’assedio che per quattro lunghi anni tenne ostaggio la capitale della Bosnia Erzegovina, dal 1992 al 1996 , teatro di alcuni dei crimini più atroci compiuti durante il conflitto - Veselin Vlahovic, giudicato colpevole di fronte a 60 capi di accusa e condannato a 45 anni per 31 omicidi, 13 stupri e 14 sequestri di persona, è tristemente passato alla storia come il “mostro di Grbavica”. La sala è l’unico luogo illuminato nei dintorni, ed è sold out: da settimane, ormai, non si trovano più biglietti, alcune sedute supplementari sono state aggiunte sui due lati della sala per provare ad accomodare più persone possibile. “Hej, Slaveni” La storia non è e non può essere nuova, come dicevo, ma rimane tra le più drammatiche e simboliche tra quelle che il mondo sportivo ha mai proposto. Perché quella nazionale – quella composta da nomi conosciuti in tutto il mondo, tanto in Italia quanto oltreoceano, da Kukoc a Divac, da Radja a Danilovic, da Paspalj a Djordjevic, allenati da Dusan Ivkovic – è formata da un gruppo di ragazzi e di amici che la sera di sabato 29 giugno 1991 sale sul gradino più alto del podio posizionato al centro del parquet del PalaEur di Roma con gli occhi rivolti verso la loro bandiera per ascoltare le note dell’inno nazionale di un Paese che da qualche giorno non c’è più. In meno di una settimana, dal 24 giugno data di inizio della manifestazione fino alla finalissima del 29 , la Jugoslavia registra infatti le dichiarazioni di indipendenza di Croazia e Slovenia, che mettono di fatto fine all’esperienza della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, realtà nata al termine della Seconda Guerra Mondiale. Fiaccole & ramoscelli Il documentario di Pavlovic si apre con un filmato propagandistico-didattico in cui un professore, attorniato in un campo da sei giovanissimi allievi, assegna a ognuno di loro un sottile ramoscello colto da terra. Uno per la Bosnia ed Erzegovina, uno per la Croazia, uno per la Macedonia, uno per il Montenegro, un altro per la Serbia e un altro ancora per la Slovenia, le sei repubbliche che compongono la Jugoslavia. Poi si fa consegnare i sei ramoscelli, li lega assieme con uno spago e chiede ai ragazzini di provare a spezzarli, ora che sono così uniti. Impossibile, perché ciò che può magari apparire fragile se isolato trova forza proprio nell’unità. “Fratellanza e unità” era d’altronde il motto nazionale e non a caso l’emblema della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia metteva in bella mostra sei fiaccole che alimentavano un’unica fiamma. È un’analogia che – duplicata nel numero, da sei a dodici – si applica perfettamente anche a quel gruppo di giocatori che nel corso di un solo lustro scrivono una delle pagine più indelebili nella storia della pallacanestro, non solo europea ma mondiale. Gli imbattibili Una storia che passa e ripassa dall’Italia, perché le prime immagini mostrate in “The Lost Dream Team” raccontano dei Mondiali Juniores svoltisi a Bormio nell’estate del 1987, con quella Jugoslavia che batte gli Stati Uniti prima nella fase a gironi e poi nella finalissima per l’oro . Solo due anni più tardi, lo stesso gruppo è chiamato a misurarsi con i “grandi”, e gli Europei organizzati a Zagabria nel 1989 sono il palcoscenico perfetto. “Un assoluto dominio”, sono le parole utilizzate dai diretti interessati: “Vincevamo di 30-40 punti anche contro le squadre più forti”. Ed è proprio così, dal +35 dell’esordio contro la Grecia fino al +21 della finale. Ma “la miglior partita mai disputata dalla nostra nazionale” - le parole sono di Toni Kukoc – arriva l’anno successivo, in Argentina, ai Mondiali. Vinti anche quelli, ovviamente, ma non è la finale contro l’Unione Sovietica la gara chiave quanto la sfida in semifinale ancora contro gli Stati Uniti. “Narcisisti”, li apostrofa Kukoc, che davanti alle telecamere di Pavlovic ricorda come gli inventori del gioco tendessero “a sottovalutare sempre gli avversari”. Fatale farlo contro quella Jugoslavia, che vince 99-91 contro gli USA e poi supera con 17 punti di scarto i sovietici in finale. È al termine di questa partita che si consuma il gesto che preannuncia l’inizio della fine: suonata la sirena finale, tra i tanti tifosi che entrano in campo per festeggiare uno lo fa sventolando una bandiera apparentemente jugoslava ma che al centro sfoggia un simbolo molto simile allo stemma a scacchiera bianco&rosso croato. Divac strappa platealmente la bandiera dalle mani del tifoso impedendo ogni rivendicazione nazionalistica in un momento di gioia nazionale, ma il gesto, ammette lui stesso, “viene manipolato pesantemente, da entrambe le parti”. L’inizio della fine È il primo segnale di una tensione che sale vertiginosamente, riflesso di una situazione politica che in Jugoslavia si fa sempre più instabile e che ancora Divac testimonia raccontando un momento chiave del ritiro della nazionale a Spalato, in preparazione a Eurobasket 1991. Quando, nell’albergo della squadra, si presentano alcuni ultras croati che invitano il loro connazionale Arijan Komazec a unirsi a cori esplicitamente nazionalistici. Franjo Tudman, che poi diventerà il primo presidente di una Croazia indipendente, ha già iniziato ad avanzare le rivendicazioni del proprio popolo, e le immagini dei tg jugoslavi – che mostrano i giocatori prepararsi alla trasferta italiana per gli Europei di giugno tra sorrisi, battute e scherzi – stridono fortemente con la situazione generale del Paese, sempre più vicino al baratro. Le prime due partite di Eurobasket 1991 arrivano contro Spagna e Polonia. Coach Ikvocic fa di tutto per isolare il gruppo dall’esterno ma quando la Jugoslavia scende in campo contro la Bulgaria il 26 giugno per la terza gara del suo torneo sia Slovenia che Croazia hanno già dichiarato la loro indipendenza, solo 24 ore prima. In campo non cambia niente , in spogliatoio tutto. Il playmaker titolare di quella squadra, lo sloveno Jure Zdovc, riceve una telefonata dal presidente del suo club e il messaggio è chiaro: “Se scenderà in campo nella semifinale contro la Francia verrà considerato un traditore della patria”, con conseguenze facilmente immaginabili. Con la famiglia, moglie e figlio di soli sei mesi, “già costretta a vivere in un rifugio” a Zdovc non resta altra scelta che abbandonare tra le lacrime i suoi compagni e la competizione europea, per tornare a casa. Pressione analoga la sente addosso anche il croato Velimir Perasovic, far finta di nulla ormai è quasi impossibile, e le immagini RAI che raccontano le interviste post-semifinale contro la Francia sono emblematiche: chi si rifugia dietro un laconico “no-comment” , chi considera “stupido pensare di vivere in sei Paesi diversi quando possiamo farlo in uno solo” e chi, come Dino Radja – che al tempo giocava proprio a Roma, con la maglia della Lottomatica – risponde in italiano trincerandosi dietro a un formale: “Io sono qui solo per vincere la medaglia d’oro con la maglia della mia nazionale”. Ma non è così semplice. L’ultima vittoria O meglio: è semplice la parte riguardante la vittoria in campo, meno il resto. La finale vede la Jugoslavia affrontare proprio l’Italia, padrona di casa. Bella l’immagine che ritrae lo striscione affisso sulle tribune del PalaEur , riuscitissimo il montaggio che vede alternare la battaglia sportiva in campo e la battaglia vera sul campo, con i carrarmati nelle strade e l’artiglieria schierata. Una squadra che vince per un Paese che non c’è più, una dozzina di ragazzi che sale sul podio ma senza voglia di festeggiare. La guerra, la politica, la vita – quella vera, lontano dai 28x15 di un campo da basket - hanno tolto la gioia di un successo sportivo tanto meritato quanto sofferto, e il racconto del rientro in Patria è tanto paradossale quanto quelle immagini di un trionfo senza sorrisi. Il primo stop l’aereo degli slavi lo fa a Spalato, e in fase di atterraggio, dai finestrini, i giocatori vedono i militari schierati e i carrarmati per strada. Solo dopo si prosegue per Belgrado, ma i festeggiamenti – al cospetto delle autorità statali - sono contenuti, quasi di facciata. Quale “Dream Team”? “Da quel momento in poi abbiamo preso vie separate”, raccontano i protagonisti, salvo ritrovarsi poi 14 anni dopo, nel 2005, per la partita di addio al basket proprio di Jure Zdovc. In quell’occasione gli mettono al collo una copia di quella medaglia d’oro che non ha potuto vincere in campo a Roma, ma non è l’unica privazione che quel gruppo di ragazzi ha dovuto sopportare. Un anno dopo l’Europeo italiano, alle Olimpiadi di Barcellona, la federazione USA sceglie di schierare per la prima volta i professionisti della NBA, con Michael Jordan, Magic Johnson e Larry Bird a guidare il gruppo. “Era il nostro obiettivo principale: battere il Dream Team”, ammettono i giocatori slavi, che a quella competizione ci partecipano già divisi, ognuno sotto la propria bandiera. E così un Dream Team, quello a stelle e strisce, passerà alla storia; all’altro resta solo un enorme rimpianto e un aggettivo – quello del titolo – che proprio non si addice a una generazione di campioni: “lost”.

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Jugoslavia 1991, “The Lost Dream Team”

Mauro Bevacqua