Dream Team, la partita più bella che nessuno ha mai visto

In programmazione anche on demand sul nuovo canale Sky Sport Legend, il terzo episodio della docu-serie sul Dream Team: ‘La Partita più bella che nessuno ha visto’ American Dream A Barcellona 1992 la corsa all’oro si rivela, per il Dream Team, una passeggiata più agevole di ogni più ottimistica aspettativa o previsione. Perlomeno sul campo, dove in otto partite gli Stati Uniti segnano 117 punti per gara e travolgono i sette avversari con uno scarto medio di +43,75 punti. Erano stati +56 nei quattro incontri del Preolimpico americano a Portland, e 481-257 la differenza-canestri. Più complicato farla, quella passeggiata di salute – anche solo per due passi fuori dell’hotel Ambassador – in città, che l’intera comitiva attraversava blindata e sotto scorta dell’elicottero per proteggersi dalla folla in delirio. “Era come se Elvis e i Beatles si fossero uniti insieme”, dirà coach Daly ricorrendo a una metafora quanto mai calzante, ma per renderla ancora più realistica bisognava forse aggiungerle pure i Rolling Stones. In quel roster il talento era tanto e tale che il coach neanche doveva sforzarsi di far finta di ‘allenarlo’. “Chuck ha fatto un lavoro straordinario – commenterà a Giochi fatti Larry Bird – È riuscito a tenere unita una squadra di campioni. Nessun egoismo, tutti pensavamo soltanto a vincere e non alle proprie cifre individuali”. Daly doveva quindi ‘solo’ ricorrere alle sue indiscusse doti di fine psicologo e gestire i relativi ego, minutaggi e acciacchi di undici affermate superstar. Più una prossima ventura, Laettner. Quelle famose ‘dodici aziende nella classifica di Fortune 500’che il Chuck giovane mai avrebbe voluto amministrare in una ordinaria carriera dirigenziale, e che invece, da maturo coach bicampione NBA, ora si ritrovava a comandare una squadra straordinaria, sulla carta , più forte di tutti i tempi. E dunque condannata non solo a dover stravincere, ma pure obbligata a regalare spettacolo. Tranne l’unico universitario Christian Laettner, preferito a Shaquille O’Neal neo-prima scelta assoluta al Draft del 24 giugno , in quel roster di undici all-star in teoria erano tutti eguali e nessuno titolare fisso. Orwellianamente però, nella fattoria di quegli esemplari eccezionali ce n’erano tre ‘più uguali di altri’: Jordan, Magic e Bird. Di fatto solo i primi due inamovibili dal quintetto-base. Anche se poi Johnson – già ritiratosi dalla NBA per la positività al virus HIV annunciata urbi et orbi il 7 novembre 1991 – salterà due gare per via del ginocchio destro malconcio dal primo tempo con la Croazia; e soprattutto Larry, per la schiena malandata, saranno impiegati meno del previsto. Drexler, ultimo convocato e appena schiantato da Jordan nell’impietoso confronto diretto delle Finals fra Chicago e Portland , ne è la prima riserva come guardia tiratrice; Mullin l’altra opzione in attacco, per alzare o abbassare il quintetto e allargare il fronte offensivo. Ewing o Robinson nel mezzo, ma capaci anche di piazzare blocchi e ‘uscire’ per tirare lontano dal post. Da point forward Scottie Pippen, ideale secondo violino per MJ e suo perfetto duale in entrambe le metà campo. In regia, un artista dell’assist come Stockton, una vita da sodale di Malone agli Utah Jazz nell’asse che ha ridefinito, sul parquet e nel lessico, il concetto di pick-and-roll: stockton-to-malone. All’ala forte, la debordante fisicità dello stesso Karl o di Barkley, top scorer dei suoi nel torneo giocato da protagonista e che però – essendo Barkley – riuscirà comunque, già al debutto, a macchiare. Sua la proditoria gomitata nello stomaco all’angolano Herlander Coimbra. Figuraccia mondiale nella quale qualcuno ravvisò della premeditazione. Il tipico atteggiamento aggressivo e provocatorio dell’ugly American, il classico iu-es-ei prepotente e aduso a esportare democrazia: “Non so un accidenti dell’Angola, ma so che l’Angola è nei guai”, aveva sproloquiato Sir Charles in conferenza stampa alla vigilia. Anche se poi, in campo, non è che Barkley avesse avuto tutti i torti. Come mostrato negli speciali di NBA TV e della NBC del 2012, il gesto di Barkley era stato sì reiterato ma, secondo lui, solo per reazione: “Penso si sia comportato da bullo, ma forse la sua personalità è quella”, aveva tagliato corto Coimbra a NBA TV. Va detto però che, in campo, era stato l’angolano a cominciare, rifilandogli tre gomitate. Ovvio poi che Charles, cui il ventiquattrenne studente di economia rendeva un mismatch sfavorevole di 75 chili, sbottasse: “Quella squadra giocava sporco – si giustifica Barkley in quel filmato della NBC – Gli dissi: ‘Ehi, amico, se lo fai ancora, le prendi’. L’ha rifatto un paio di volte e gliel’ho date”. Simple as that. Ma a parte queste amenità, assemblare quel concentrato di talento e debordanti personalità, per uno staff così esperto e navigato, sarebbe stato relativamente facile. Al punto da far proclamare al coach/Ct che a Barcellona non avrebbe mai chiamato neppure un time-out. Detto, fatto. Del resto, non che della reale efficacia di quei minuti di sospensione Daly fosse mai stato un così convinto assertore. A tal proposito, sovviene un ricordo del suo ex assistente Ron Rothstein poi riportato da Jack McCallum su Sports Illustrated del 18 dicembre 1989: “Chuck mi ha dato la più importante lezione della mia carriera. A Dallas, nel secondo quarto, ci stavano spazzando via. Chiamammo timeout, e mi ero appuntato sei cose di cui discutere. Volevo cantarle a parecchi [dei nostri], e pensavo anche Chuck. Ci raduniamo intorno, e non dice niente. Fa una sostituzione, chiama uno schema, li rimanda in campo e vinciamo. È stata una grande lezione – gli dissi dopo la partita – Less was more. Daly non è mai stato un my-way-or-the-highway coach. Né un allenatore di sistema. Ha capito che le migliori squadre NBA sono player-oriented. Sono i giocatori il focus, mai l’allenatore. Sono i giocatori a sbrigare gran parte dei problemi. Il coach è lì per motivare, preparare, guidare. Non per fare la stella”. I due veri capolavori, infatti, Daly li aveva già compiuti nel ritiro di preparazione. Prima, a giugno, nel preraduno californiano di La Jolla, super esclusiva località turistica vicino a San Diego. Poi in quello vero e proprio di Montecarlo, dove, il 22 luglio, si assisté alla più grande partita mai vista. “1984” Nel primo caso si trattò di una partitella di venti minuti che però passerà alla storia come l’unica sconfitta – peraltro non ufficiale – del Dream Team. Per di più contro una selezione di promesse del college. Anche se zeppa di predestinati ai pro’ quali Anfernee ‘Penny’ Hardaway, Grant Hill e Chris Webber, futuri All-Star come Allan Houston e Jamal Mashburn e talenti sfortunati, specie fuori del campo, tipo Bobby Hurley – play fresco di back-to-back alla Duke con Laettner, e folletto imprendibile per Magic – e il compianto Eric Montross, campione NCAA 1993 con North Carolina. Daly aveva notato, negli allenamenti alla Main Gym della University of California at San Diego, un approccio troppo morbido, e nel gruppo certi atteggiamenti che non gli sfagiolavano. E così, per mettere un po’ di pepe sulla coda troppo da pavone dei suoi, aveva organizzato uno scrimmage a sorpresa contro dei giovani pieni di talento e bramosi di dimostrare quanto fossero pronti per misurarsi con delle superstar che, di lì a poco, avrebbero affrontato nella NBA. Non pago, il coach si era poi impegnato – a forza di cambi orientati e quintetti scientemente ruotati – a fargliela perdere apposta, quella in apparenza insignificante mezza partitella. Sotto anche di 20 contro quei ragazzini, i big avevano rimontato fino al -8. E con quello scarto era finita: 54-62. Daly aveva così mandato a quei super campioni un segnale forte e chiaro: anche i semidei possono inciampare, e cadere, rotolando giù dall’Olimpo, contro chiunque. E magari proprio quando meno se lo aspettano. Poi, fatto azzerare il tabellone segnapunti, il coach aveva imposto a tutti di non farne parola ad alcuno. Quella partitella era come non fosse mai esistita. Se i media avessero saputo com’era finita, in patria e fuori sarebbe scoppiato un finimondo. Ai posteri, e soltanto decenni dopo, filtrerà solo la versione di Jordan su quella batosta: “Ci distrussero”. A un certo punto, uno degli assistenti di Daly, Krzyzewski, si era accorto che Jordan non stava giocando e che sin lì, in quell’apparentemente insignificante scrimmage, lo aveva fatto soltanto per pochi minuti. Il coach non stava facendo gli adeguamenti necessari, e gestiva scientificamente i minutaggi, ma proprio perché aveva un obiettivo: voleva che i suoi giocatori perdessero, e che imparassero la lezione. Il giorno dopo, punti nell’orgoglio e da cotanta spocchia di quei ragazzini, The Dreamteamers asfalteranno un’altra selezione di universitari. E come non ci fosse un domani, anziché il preolimpico ormai alle porte. Certo non una genialata la provocazione fatta a nientemeno che Bird da Rodney Rogers, lingua velenosa quanto il suo tiro mancino da 11,9 punti di media in dodici stagioni NBA. Sesto uomo dell’anno nel 2000 e capace, l’8 febbraio 1994, di una fiammata degna di un baby T-Mac : 9 punti con tre triple in 8,8” per i Nuggets alla McNichols Arena di Denver contro Utah. Impresa buona però solo per gli annali: Jeff Malone infilò il canestro decisivo a 12”01 dalla fine, Rogers tentò di emularlo a 0.08” dalla sirena ma fu stoppato da Ty Corbin: 95-96 per i Jazz. Schierato fra i collegiali, in quella seconda partitella diventata per i Dreamteamers tutto tranne che di allenamento, Rodney gli aveva buttato là un quantomai improvvido “Ehi, Larry Bird, non segni in jumper dall’84”. Mal gliene incolse “Il giorno dopo entrammo in campo – è il ricordo ancora vivido di Mashburn – Non avevo mai visto una cosa del genere, e pensai: ‘Questi sono di un’altra categoria’. Magic Johnson avrà dato il pallone a Bird tipo otto volte di seguito. Larry prendeva palla contro Rogers e prima di fare un movimento, gli diceva cosa gli stava per fare. Un palleggio, lo raccoglie, va a sinistra, canestro di tabella. Un palleggio a destra, avvitamento, tiro, dentro. Avrà segnato otto o nove volte in fila. Uscito dal campo per andare a sdraiarsi, perché con i suoi problemi alla schiena non riusciva a stare seduto in panchina, Larry gli disse: ‘Giovane, sembri uno dell’84, eh?”. Classico Bird-style. “Li avremo battuti di una roba tipo cento punti”, la cruda quanto efficace sintesi di Barkley, mai noto per le perifrasi. Nel Preolimpico di Portland, dal 28 giugno al 1° luglio, Cuba , Canada , Panamá e Argentina pagheranno anche per colpe non loro. Pure quelle di Rogers & C. Orwell who? La Partita Perfetta mai vista Ma l’aneddoto che più e meglio dà la dimensione di cosa quella squadra leggendaria sia stata, e abbia significato prima e dopo quei Giochi, fu la partitella in famiglia fra i ‘blu’ di Magic e i ‘bianchi’ di Jordan. A quattro giorni dal via del torneo olimpico, un mercoledì da leoni. Ad arbitrarla è un fischietto italiano, Bruno Duranti, il mitologico ‘Sceriffo’ del basket europeo. Pisano di ferro come la sua classe, 1941: quattrocento gare internazionali, 571 in Serie A e undici finali-scudetto, dal 1973 al 1993. Ad assisterlo non c’è il suo storico sodale e concittadino Giancarlo Vitolo , bensì uno dei vice-Daly, P.J. Carlesimo, lui pure pennsylvaniano e, in linea con i criteri del comitato di selezione, ai tempi coach della Seton Hall University. Gli altri componenti lo staff tecnico erano Mike Krzyzewski, che con la star Laettner aveva appena rivinto alla Duke il titolo NCAA ; e Lenny Wilkens, che in stagione aveva portato i Cavaliers al secondo posto nella Central division, davanti ai Pistons e dietro solo ai Bulls poi confermatisi campioni NBA, e al secondo record nella lega dietro Chicago ed ex equo con Portland, l’altra finalista. Era stato però Carlesimo – ancora lontano dall’essere prima quasi strozzato e poi colpito con un pugno dalla sua stella Latrell Sprewell, il 1° dicembre 1997, al primo anno del coach ai Golden State Warriors – a suggerire a Daly di preparare la squadra anche sotto l’aspetto degli arbitraggi FIBA: “Prima del torneo, avevo avvertito Chuck che l’arbitraggio sarebbe stato pessimo”, racconterà divertito lo stesso P.J. alla radio newyorchese SiriusXM per il trentennale del Dream Team. “Perché ci sarebbero stati arbitri di tutto il mondo, e di vari livelli. Inoltre, alcuni di loro mai si erano imbattuti in giocatori NBA, così veloci e forti. Quindi gli consigliai di far venire a Montecarlo, per i nostri allenamenti, degli arbitri internazionali, in modo che i nostri giocatori potessero abituarsi a diversi metri di arbitraggio. Ne trovammo uno italiano e uno francese, ma già al secondo allenamento Chuck mi disse di sbarazzarcene. Mike K ridendo mi disse: “Buona idea”. A prescindere da chi l’avrebbe diretta, e a differenza da quello scrimmage da 20 di giugno, stavolta era sfida ‘vera’. Un’idea del coach, come racconta Magic nello speciale per NBA TV: “Chuck ci dice: Okay, ecco cosa faremo. Giocheremo come in una partita ufficiale, di quattro quarti”. Nel team Blue: Magic, Mullin, Laettner, Barkley e Robinson. Nel team White: Jordan, Pippen, Bird, Malone, Ewing. Con Stockton ancora infortunato e Drexler acciaccato, stessi quintetti fissi. Senza rimescolamenti tattici o motivazionali, né cambi forzati. E ai boss dello spogliatoio – Jordan e Johnson – stava bene così. “C’eravamo io – ricorda MJ nel video – Scottie , Mullin, Bird e Patrick . E Magic aveva i suoi. Non avremmo cambiato le squadre. In nessun momento. Tu hai i tuoi cinque, io ho i miei”. “Gli abbiamo lasciato il ragazzo del college. Potete tenervi Christian Laettner. Noi non lo vogliamo, prendetelo voi”, la replica un po’ irriguardosa di Magic, più serio che faceto. Laettner “era lì che aspettava di essere scelto, ma era una questione di orgoglio. E il ragazzo del college non poteva essere d’aiuto a nessuna delle due squadre”, spiega Jordan, lui pure – come l’amicone Barkley – poco incline ai giri di parole. Anche per Daly, novello Marshall McLuhan, dunque era ‘il medium il messaggio’. E nello specifico il segnale – inequivocabile, rivolto prima al gruppo e poi al ‘villaggio globale’ – lo avrebbe mandato con anziché durante la semplice partitella che tale più non era. Prima ancora del fischio d’inizio: “Ora date tutto. Tutto quello che avete”. E il tip-off non avrebbe potuto fungere da miglior viatico. Duranti alza la palla a due tra Ewing e Robinson, che commette infrazione toccandola mentre questa è ancora in fase ascensionale, e la devia verso il proprio canestro. Laettner, compagno in blu dell’Ammiraglio, anticipa Pippen e la passa dietro la schiena a Barkley, che fa due palleggi e s’incunea fra Jordan e Bird. Michael lo afferra per un polso, Duranti fischia e Charles segna da sotto: canestro valido più fallo. Potenziale gioco da tre punti. “Se c’è fallo, tirate i liberi – urla Daly – Tirate i liberi”. Partita vera, appunto. È mattina, e la ‘Gaston Médecin’ – l’arena dentro lo Stade Louis II a Fontvieille – è deserta. E certo non solo per via dell’orario. L’allenamento è infatti a porte chiuse. I funzionari della USA Basketball hanno fatto uscire persino gli addetti alle pubbliche relazioni della NBA e i cameramen della NBA Entertainment, la società di produzione della lega. I giornalisti accreditati, tra cui il celebre inviato di Sports Illustrated, Jack McCallum, che nel suo libro Dream Team ripercorrerà l’intera spedizione olimpica , verranno fatti entrare solo verso la fine. Quanto alle riprese tv, rimaste secretate per decenni come neanche i più ‘Strictly Confidential’ dossier della NSA e della CIA messi assieme, erano state girate dall’unico operatore ammesso: Pete Skorich, caso vuole vecchia conoscenza di Daly dai tempi di Detroit. Quella partitella ad alto tasso di testosterone sancirà il passaggio di testimone tra i due vecchi e il nuovo re della collina. Secondo McCallum, “Magic esitava a cedere il proprio posto in cima alla montagna. E Michael, essendo Michael, sentiva di dover dire: No, adesso ci sono io lassù in cima”. E come McCallum la pensava un divertito Mullin, osservatore privilegiato che invece su quel parquet giocava: “Magic diceva a Jordan: ‘Senti, l’NBA non è ancora tua. Io sono ancora qui’. Michael gli rispondeva: ‘No, la tua [NBA] è finita. Questa è la mia’. E la cosa buffa è che Larry, che gli sedeva accanto, diceva : è sua”. Ma il giudice unico e insindacabile – come sempre – sarebbe stato il campo, e là scoccavano scintille: “Pur trattandosi di un cinque contro cinque – argomenta Jordan parlando di sé in terza persona –, a Montecarlo si è capito che il gioco gravitava verso Michael e Magic”. Pippen, che MJ lo conosceva pure in allenamento, sapeva bene che a Jordan “non piace perdere. Mike ha sempre quello sguardo. E quando vedi quel suo sguardo, sai già come andrà a finire: dammi quella cazzo di palla e togliti di mezzo”. “Chuck si rese conto che il livello competitivo si stava alzando un po’ troppo e che stava per disintegrare l’intera squadra. Voleva interrompere l’allenamento, ma Magic voleva continuare, perché gli stavamo facendo il culo”, conclude col suo sardonico sorriso Jordan. Subito avanti 11-2, i blu di Magic erano stati rimontati e battuti 40-36 dai bianchi di Jordan, top scorer con 17 punti e unico in doppia cifra dei suoi . Per il Blue Team: 11 per Barkley e 10 per Laettner. Non male per il ‘ragazzo del college’ che, Jordan dixit, “non poteva essere d’aiuto a nessuna delle due squadre”. “Ad allenamento finito – chiosa McCallum – persino Magic aveva dovuto riconoscere che il panorama del basket era cambiato. Per sempre”. “Larry e io stavamo parlando – ricorda Johnson – Michael arriva e ci fa: ‘C’è un nuovo sceriffo in città'. Larry e io ci siamo dati di gomito e ci siamo detti: che sfortuna, auguri”. Jordan, a differenza di loro due, un rivalissimo suo pari non lo avrà mai. Bene, bravini, ma niente bis Fatte le debite proporzioni, c’è però un’altra sconfitta ufficiosa e a suo modo ‘storica’ della nazionale statunitense. E che, 27 anni dopo, ha riportato alla mente lo scrimmage perso dal Dream Team contro quella selezione di universitari. È la batosta subita il 19 agosto 2019 a Los Angeles dal Team USA, che preparava il mondiale cinese di quell’anno, contro una mista di undici giocatori di G-League e uno soltanto overseas: Scotty Hopson, guardia/ala dei New Zealand Breakers. Di quella compagine, in otto avevano fatto parte del gruppo che aveva disputato le qualificazioni: le guardie Chris Chiozza, Chasson Randle, John Jenkins e Travis Trice, lo stesso Hopson, l’ala Ben Moore e i centri Chinanu Onuaku e Travis Wear più Derrick White, che poi sarà nei 15 del Team USA al mondiale. Il selezionatore – improprio definirlo Ct – era Jeff Van Gundy, coadiuvato dagli assistenti Theo Robertson e Matt Hill e dal preparatore atletico Ed Lacerte della ProSports Therapy. Van Gundy, ex Knicks e Rockets, aveva guidato la squadra nelle eliminatorie. Ma la sconfitta, peraltro ininfluente, nel primo turno col Messico, aveva spaventato la USB al punto da rimpiazzarlo con Gregg Popovich, santone dei San Antonio Spurs, e gli assistenti Steve Kerr , futuro oro da head coach del Team USA degli ‘Avengers’ a Parigi 2024, Lloyd Pierce e Jay Wright, guru collegiale con due titoli NCAA a Villanova. Per tutti loro Cina 2019 sarà comunque un sonoro flop: Stati Uniti eliminati ai quarti dalla Francia e poi addirittura settimi, nonostante un roster rimpinzato di più o meno grossi nomi NBA tra cui i bostoniani Jayson Tatum, Jaylen Brown e Marcus Smart , Donovan Mitchell dei Jazz, Kemba Walker degli Hornets, Khris Middleton e Brook Lopez dei Bucks futuri campioni nel 2021 e Harrison Barnes, che il campionato l’aveva vinto con i Warriors di coach Kerr nel 2015. L’eco di quello scivolone – come il roster dei rispettivi Team USA – non era nemmeno lontanamente paragonabile alla partitella di venti minuti persa dal Dream Team contro una selezione di universitari, per quanto talentuosi. Ma la morale è che il precedente stabilito da quel volpone di coach Daly non aveva fatto sufficiente giurisprudenza. Chuck aveva fiutato le insidie di cotanta sicumera nei suoi, e aveva saputo schivarle con quella sfida in famiglia in cui aveva esortato le sue presuntuose superstar a “dare tutto. Tutto quello che avete”. Puro Coalmine Style, foss’anche rivestito di paillettes e lustrini. Per tanti quel memorabile e apparentemente insignificante scrimmage era stato solo un allenamento più intenso del solito. Per qualcuno, il Magic moment della carriera. Così il nostro Duranti, che in campo lo aveva diretto, lo descriverà nell’intervista per Superbasket del 31 maggio 1993. - Il momento più importante? «Essere arrivato ad arbitrare il Dream Team, vivere con loro la fase di preparazione a Montecarlo, vedere Magic al termine di un allenamento avvicinarsi per dirmi: “Complimenti, ref. Hai la stoffa per arbitrare nella NBA”». Duranti in NBA non ci è mai arrivato, ma quello che aveva arbitrato non era stato solo un allenamento. Era stata ‘La Partita’ perfetta. La più grande mai vista. Tra sceriffi – vecchi o nuovi in città – ci s’intende.

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Dream Team, la partita più bella che nessuno ha mai visto

Christian Giordano