Il Muro, Messi e il colibrì. L'intervista a Sandro Veronesi

Calcio

Michele Sancisi

Il trentennale della riunificazione tedesca, la sua Juve, le origini del “tifo”, il nuovo romanzo (per La nave di Teseo). Sandro Veronesi si racconta a tutto campo e in esclusiva, tra calcio e letteratura

Ogni suo nuovo romanzo è un evento nell’editoria italiana. I suoi numerosi fans hanno dovuto attendere parecchio questa volta, circa cinque anni, ma “Il colibrì” appena uscito per il raffinato catalogo de "La Nave di Teseo" non delude le aspettative. Il ventiquattresimo libro di Sandro Veronesi è una avvincente vicenda familiare che si compone come un puzzle, tessera dopo tessera e capitolo dopo capitolo, in una continua serie di salti in avanti e indietro nel tempo. Quasi un giallo esistenziale, come suggerisce anche il colore della copertina, che ruota attorno ad un protagonista leggero e infelice come un colibrì in gabbia.

 

Vista la competenza in tema calcistico dello scrittore toscano, acceso tifoso juventino, la redazione de “L’uomo della domenica” di Giorgio Porrà lo ha intervistato per qualche considerazione sul tema dell’ultima puntata, dedicata al trentennale della caduta del Muro di Berlino. Ma parlare con Veronesi fa dimenticare l’orologio e, complice il suo piacere a parlare di calcio, la conversazione si allunga oltre ogni limite. Prima di venire richiamato all’ordine dall’ufficio stampa del suo editore, si fa "bar sport", spaziando su tutto. Quella che segue è una sintesi del fluviale Veronesi-pensiero in fatto di calcio e letteratura.

 

Il muro di Berlino fu abbattuto la notte del 9 novembre 1989: cosa ricorda della sua vita di quel giorno che resta nella memoria di tutti noi europei?

"Ho uno strano ricordo calcistico di quell’avvenimento, una delle prime voci, se non la prima, che io associo a questo evento è quella di Diego Armando Maradona con la maglia del Napoli che commenta la notizia. Potrebbe essere un falso ricorso, una mia fantasia, nella quale forse ho associato due dati leggendari, come la caduta del muro e la grandezza di Maradona".

Si stima che solo negli ultimi dieci anni siano stati eretti in Europa ben seimila chilometri di nuove barriere, paradossalmente quasi più che durante la Guerra Fredda.

"Ora è un momento drammatico per le frontiere, perché sono quasi tutte pesantemente militarizzate… e ti sparano, proprio come quando c’era il muro di Berlino, che è quello che spinge la gente a cercare di emigrare via mare in quel modo così drammatico che sappiamo, oppure stipati in una cella frigorifera come nel caso orrendo in Inghilterra. E’ una questione perché, senza tirar su nessun muro, i vari popoli sovrani oppure l’Unione Europea, un po’ curiosamente, hanno riprodotto in scala più ampia, con molti più chilometri, una militarizzazione delle frontiere che si pensava superata con la caduta del Muro e poi dopo con Schengen e anche nel calcio con il caso Bosman".

Altri muri sono caduti in quella stagione calcistica del 1989. Giorgio Porrà ne “L’uomo della domenica” ne individua alcuni, a partire da qualcosa che ti riguarda direttamente. Ovvero quella partita Liverpool-Arsenal, raccontata magistralmente da Nick Hornby in “Febbre a 90°” e poi nel film omonimo, che forse abbatté un altro muro, che separava calcio e letteratura?

"Si, la pubblicazione di “Febbre a 90°” ha cambiato la modalità di rapporto tra calcio e letteratura, ma non è che prima non ci fosse; penso ad Arpino, penso a Montale, il cui miglior amico era Skoglund, molti scrittori avevano scritto di calcio negli anni precedenti, anche prima della guerra. Però nel frattempo il calcio era cambiato, così come erano cambiati anche il tifo, il modo di vestire, di comportarsi. Nick Hornby ha intercettato questo nuovo, anche più pericoloso, più aguzzo rapporto tra calcio e letteratura scrivendo un libro di una modernità abbastanza sconvolgente. Ed è vero che dopo Nick Hornby non ci furono più autocensure e ci sono stati altri grandissimi altri scrittori a scrivere di calcio. L’ultima cosa che mi viene in mente è un dottissimo poema in versi che Michele Mari ha dedicato a Mark Hateley (“Dalla cripta”, Einaudi, 2019). Hornby ha aperto una strada che molti hanno seguito".

Un altro muro forse cadde in quell’anno, quando Arrigo Sacchi con il suo Milan irripetibile trionfò a Barcellona in Coppa Campioni e l'Equipe titolò "Il calcio non sarà più lo stesso". Crollò il muro che impediva al calcio italiano di guardare oltre?

"Certamente si, qualcuno deve fare il primo passo, e chi lo fa cambia il mondo. Come Dick Forbury nel salto in alto che vinse la medaglia d’oro perché evidentemente quella sua tecnica regalava parecchi centimetri, anche se non è stato uno dei più grandi saltatori della storia, infatti quando poi gli altri hanno imparato a saltare come lui l’hanno superato. Lo stesso vale per il Belgio del 1980 che cominciò a fare la tattica del fuorigioco, non era una grande squadra, ma solo una squadra molto organizzata. Invece Sacchi è uno di quelle che, nel momento in cui è toccato a lui far fare un salto, un passo avanti al calcio italiano l’ha fatto e lui, la sua squadra, il Milan, i giocatori che allenava, sono un pezzo di storia del calcio di prima grandezza. Ripeto, spesso non sono i più grandi a fare questi passi, poi i più grandi subito se ne approfittano, ma è qualcuno che nella vita ha questa funzione di apripista e basta. Sacchi è stato entrambe le cose".

15 anni prima della caduta del muro, ai Mondiali del 1974 in Germania Ovest-Germania Est il centravanti dell’Est Jurgen Sparwasser segnò il gol che fece tremare in anticipo il muro di Berlino. Ti ricordi quel gol fratricida?

"Ricordo benissimo la partita Germania Ovest-Germania Est e il gol di Sparwasser, una partita a senso unico che la Germania Ovest dominò e però poi perse per questo gol. Tutti godemmo in quel momento, perché il calcio era l’unico sport nel quale la Germania Est non dominava, mentre lo faceva negli altri sport e sappiamo benissimo anche perché… Ma allora il fatto che fossero riusciti a battere i fratelli ricchi e arroganti che quasi sempre vincevano, fu un piacere per tutti quanti. Era proprio Davide contro Golia".

Tra le conseguenze della caduta del muro ci fu anche la fine del dominio sportivo della Germania Est, sino ad allora potenza capace di ottenere oltre duecento ori olimpici. Si scoprì poi che era un modello costruito sul doping di stato, con danni gravissimi alla salute di migliaia di atleti controllati dalla Stasi.

"Una delle cose che ricordo con maggiore precisione è l’inno della Germania Est che è scomparso naturalmente dopo la caduta del muro di Berlino, quell’inno nazionale che risuonava a tutte le olimpiadi numerosissime volte perché loro vincevano nel nuoto e nell’atletica quasi tutte le medaglie d’oro e devo dire che non c’era allora tanta malignità da far dubitare che ci fossero delle pratiche illegali dietro a quelle vittorie, erano tedeschi e la vulgata era che nella parte comunista della Germania c’erano meno svaghi e meno modo di emergere e quindi gli atleti tedeschi, già molto determinati di per se, nella parte comunista non avendo altro modo di ottenere quelle comodità che il regime riservava solo a pochi, vincevano tante medaglie. Io ero un ragazzo e non mi avventuravo a pensare in proprio, mi accontentavo di quella versione. Per anni guardavo le olimpiadi e mi rassegnavo sentire questo bellissimo inno ammirando questi tedeschi Est e queste tedesche Est soprattutto che vincevano praticamente dappertutto, soprattutto negli europei".

Rimanendo su te ragazzo, com’è che un fiorentino è diventato juventino?

"La Toscana è una terra di divisione di campanile in misura esagerata rispetto ad altre terre. Lo diceva Indro Montanelli: “ah, sei di Ceraldo, ma di Certaldo di sopra o di Certaldo di sotto?” Perché a proposito di muri, in Toscana, dovunque tu vada, c’è un muro che storicamente separa una contrada dall’altra, poi la dinamica è: io contro mio fratello; io e mio fratello contro nostro cugino; io, mio fratello e nostro cugino contro il vicino di casa; poi ci sono le alleanze, ecc. In questo contesto Firenze è la città contro cui ce l’hanno tutte le altre cittadine, perchè bene o male per secoli ha imperversato, s’è presa tutto e Prato era la vittima principale. Per cui un bimbetto che cresce a Prato per la Fiorentina non tiene e sceglie tra le tre squadre che fanno male alla Fiorentina, che sono Juve, Inter e Milan e io scelsi la Juventus, anche per il nome che voleva dire gioventù. Avevo sei anni, e mi piacevano le maglie a strisce bianche e nere e perchè completai la squadra per prima sull’album Panini, mentre ero in convalescenza dopo l’operazione alle tonsille. Quando venne il prete e mi chiese per che squadra tifavo, io che avevo tifato solo il Bologna perché i miei genitori erano di Bologna, davanti a mia madre, con la voce rotta scandii “ju-ven-tus”. Mia madre ci rimase male, ma da quel momento ho colonizzato tutta la mia famiglia perché la mia passione di lì a poco esplose completamente e in casa parlavo sempre della Juventus con una passione che coinvolse tutti. E’ stata veramente la prima decisione autonoma che ho preso in vita mia".

Antonio Conte ha in poco tempo dato una identità e un gioco all’Inter, lo trova diverso rispetto agli anni juventini?

"Credo che sono pochi gli uomini di sport che possono cambiare il proprio destino e questi uomini il proprio destino lo mostrano subito, per come gli va la carriera sia da calciatore, sia da allenatore. Nel caso di Antonio Conte è un destino di vincente, c’è poco da dire. E un vincente che vince con le sue forze. E’ vero che ha vinto nella Juve e nel Chelsea, però lui aveva umili origini, molta umiltà in una squadra dove c’erano dei fuoriclasse e lui non lo era, però è diventato una bandiera di quella squadra per cui tutti i compagni facevano conto su di lui. E poi in pancina abbiamo visto che è la stessa cosa. Quello che è stato si ripeterà e Antonio Conte alzerà questa coppa dello scudetto, con le strisce, ahimè, nerazzurre, non credo quest’anno, perché la squadra manca ancora di alcuni tasselli, però è avviata molto bene".

Sarri e la Juve sono un matrimonio perfetto?

"Sarri per me è un mistero, quello che dicevo prima di Conte, che il destino di certe persone è scritto, vale per allenatori che hanno una storia di calciatori ad alto livello. L’infinita gavetta che ha fatto Sarri nel calcio minore, senza praticamente esperienze di calciatore, ne fa un caso veramente anomalo, come Arrigo Sacchi. Su di loro non si può applicare questo teorema, che quello che è stato sarà. Sarri potrebbe arrivare secondo o vincere la coppa. E’ troppo poca la sua esperienza ad alto livello rispetto a Conte per poter dire che abbiamo conosciuto il suo destino. Come tifoso spero che il suo sia un destino di gloria e che questa gloria la ottenga sulla panchina della Juventus. Come sportivo non deve competere solo contro gli avversari, ma anche contro il signor Massimiliano Allegri che in 5 anni ha vinto 5 scudetti, 4 coppe Italia e ha disputato due finali di coppa dei campioni. Devi cercare di fare meglio di lui".

Il campionato in questi anni si può dire sia stato come un libro con un finale prevedibile? Quest’anno il ritorno di allenatori come Sarri e Conte e Serie A in quale modo ne modificano la trama?

"Da quest’anno c’è almeno una milanese che è tornata a contare, perché la vera anomalia di questi 8 anni non è stata la Juve che vince, ma l’Inter e il Milan che non contano. Se la Juve avesse perso un paio di scudetti, o anche la metà degli scudetti che ha vinto, due li avrebbe vinti il Napoli e due li avrebbe vinti la Roma e se vai a vedere nella loro storia il Napoli ha vinto solo due scudetti, altri due avrebbe potuto vincerli negli ultimi otto anni se ci fosse stato un inciampo della Juve. Lo stesso vale per la Roma che ne ha vinti solo 3 arrivando spesso seconda facendo dei campionati sontuosi. Ma c’è stato un vuoto da parte delle milanesi, prima di tutto sul piano economico-finanziario, scontando tutti insieme tutto lo sforzo fatto negli anni precedenti. Non solo, ma questi strani passaggi di proprietà, veri o finti, costano tanto ad una squadra. Se la proprietà è incerta la dirigenza deve vivere alla giornata e non può lavorare in prospettiva, con un progetto. Adesso almeno l’Inter è tornata e questo secondo me porrà fine prima o poi a questo nostro dominio, io spero non quest’anno, ma sarà l’anno prossimo, è anche normale, dopo 8 o 9 scudetti devi perdere, succede anche nel ciclismo, nessuno vince sempre. Quando c’era Moggi e si diceva che la Juve usava anche la prepotenza per vincere più di due di fila non li ha vinti. Quindi è un po’ colpa degli altri e in particolare delle milanesi, colpa per modo di dire, perché non sono le squadre né le tifoserie, ma le società che si sono tirate indietro e non potevano avere ambizioni per come erano combinate. Ora Suning, pagato lo scotto del fair play finanziario, ha potuto fare una campagna acquisti sontuosa e mettersi in mano a della gente che se non vince non ci dorme, come Conte, perché sanno quale è la differenza tra vincere e arrivare secondi. Con tutto il rispetto Spalletti non la sapeva, perché ha vinto solo uno scudetto in Russia e per lui arrivare secondo è stata la migliore prestazione della sua carriera, quindi non ci perde il sonno, col risultato che poi rischi di arrivare terzo".

“Il Colibrì”, titolo del tuo ultimo romanzo e nome di un uccello particolarissimo, che, come raccontavi, batte le ali 60 volte al secondo, vola anche all’indietro e sa stare immobile nell’aria, un animale di grande eleganza. Chi è secondo te il colibrì del calcio, forse Ronaldo per la sua perfezione formale?

"Io adesso sono lo zerbino di casa di Cristiano Ronaldo, perché vedergli fare quelle cose che prima ci faceva contro, vedergliele fare con la maglia della mia squadra, mi ha steso. Però il colibrì non è Ronaldo, ma Messi: una cosa che Messi ha in comune col protagonista del mio romanzo è che ha fatto la cura ormonale per crescere. Poi ci troviamo tutte le qualità del colibrì: la potenza e la grazia".

Il calcio potrà mai essere il soggetto principale di un tuo prossimo romanzo, vista la tua grande passione e competenza?

"Credo che se mai volessi ambientare un romanzo nel calcio dovrei partire da zero, perché ciò che conta per raccontare le storie è conoscere ciò che sta dietro a quello che tutti vedono e io non avendo avuto una carriera nemmeno mediocre da calciatore, questi rapporti, lo sporco… che per esempio Alessandro Bonan ha raccontato nel suo ultimo romanzo (“La giusta parte”), perché evidentemente lui lo conosce e io no, questa roba bisognerebbe che la studiassi, e siccome io considero il calcio nella mia vita un luogo così com’è non ho voglia di andare a vedere l’albero dalla parte delle radici, lo voglio vedere com’è. Lo so che c’è tanto di romanzesco nel calcio, però quello che c’è di romanzesco nel calcio è sporco, altrimenti non sarebbe romanzesco, so che c’è, ma preferisco non vederlo".

Uomo della Domenica