Il Pallone d'Oro e la memoria

L’arrogante e ridicola sceneggiata del Real Madrid lo scorso anno, con il boicottaggio per lesa maestà - e come in molti fatti Reali non c’era nessuna ragione valida perché fosse qualcosa di credibile - aveva radicato le nostre simpatie catalane nell’eterne vicende spagnole. Ovviamente la storia s’è vendicata dello slancio romantico, quel residuo con il quale tentiamo di navigare questo mondo sempre più fasullo; infatti, adesso protestano a Barcellona: il Pallone d’oro doveva vincerlo Lamine Yamal. Invero, non la questione ‘potente’ aperta dall’autoritario Florentino Perez, che ha un concetto un po’ militare delle sue opinioni, ma una lagna perlopiù familiare, con qualche prolungamento e un po’ di claque. Per saltare svelti a un possibile finale di questo pezzo anche chi scrive lo avrebbe dato a Yamal, senza nessuna ostinata convinzione ma solo per opinabile gradimento, perché nelle esibizioni di talento di entrambi il ragazzino è sembrato più limpido e sonoro, perché la sua azione crea un incanto che supera la suggestione del destino. Perché il Pallone d’Oro è un premio individuale e ogni volta che ci sembra virare verso il riconoscimento all’annata di una squadra ci pare perdere senso, valore e perfino coraggio, perché all’interno di quella squadra era difficile preferire Dembélé a Donnarumma o Vitinha. Infatti il Psg ha vinto il premio per il club dell’anno, Luis Enrique ha vinto il trofeo Cruyff come miglior allenatore dell’anno, il portiere ha vinto il premio di categoria e oltre Gigio e Ousmane altri tre giocatori del Psg sono nella top ten del premio principale, mentre Doué e Neves sono sul podio dietro a Yamal nella variante ‘giovanile’: un enorme e meritato successo di squadra, dunque. Così corposo da non dover temere sensi di colpa nel dirottare il Pallone d’Oro altrove; ma sarebbe presuntuoso pretendere che la preferenza per Yamal fosse così indiscutibile o superiore: appunto, è solo una preferenza, un gusto. Niente da giustificare proteste o rivendicazioni o rifiuti. Niente che possa farci arrivare come sana, giusta, accettabile qualsiasi protesta o rivendicazione o rifiuto dell’assegnazione. Ma lamento e conseguente vittimismo sono ormai una posa dell’uomo giacché una fondata e veemente rabbia impegnerebbe a una reazione, un darsi daffare per cambiare le cose: tutta fatica novecentesca. Allora ecco l’indignazione ‘tanto per’: per marcare un territorio, per non deludere il seguito d’allocchi , per mettersi un po’ in vantaggio in chissà quale competizione futura. Pose, appunto. Ora, prima di un altro finale di questo pezzo, un piccolo cortocircuito: scambiamo le parti e citiamo la più interessante selezione di articoli che scorre sotto i nostri occhi, lo Slalom di Angelo Carotenuto, che riprende le righe del Guardian sull’assegnazione del premio. E ci mette all’angolo, scrivendo della parabola di questa vittoria e trovando nella redenzione dell’eroe una lettura che non può non colpire: al cuore. Perché c’è del vero, questa volta. Di più: c’è dell’autentico nel ciondolare di Dembélé, talento indiscusso e spesso molto discutibile. In campo e nei pensieri, quel muoversi sghembo che un tempo fu della vita, probabilmente: il problema è che quel tempo fu proprio a Barcellona, dove arrivò pagato circa 150 milioni di euro - mica per colpa sua. E dunque questo finale brucia agli spagnoli come la candela accesa sopra e sotto, da due parti: perché supera uno di loro, perché getta sale su una ferita sempre aperta, visto che i conti del Barcellona hanno cominciato a rovinarsi in quel periodo . Ecco che torna il senso di colpa, e mentre queste righe procedono un tarlo comincia a rodere l’idea di partenza su chi meritasse il premio. Ma tanto non è lì che volevamo arrivare. Eccoci: pare di assistere, mutate nel gigantismo della materia, alle beghe di certi concorsi letterari dove la cultura materiale dei premi supera quella valorosa del mestiere, cariandola. È un bisogno del mercato fasciare con la notazione del premio certe opere, perché siano notate. Diventa una necessità dell’atleta vincere premi . È il criterio di valutazione e di autovalutazione. Esattamente come la trattativa per il rinnovo di un contratto in scadenza: più guadagno, più valgo. Non c’è relativismo, cognizione del posto, del tempo, del quadro d’insieme. In una parola sola: della società. È la vittoria dell’invasione barbarica che ormai domina l’immaginario di questi protagonisti. Qualcuno non ha potuto vincere il Pallone d’Oro , qualcuno poteva e meritava, ma non l’ha vinto, qualcuno ne ha vinti troppi in uno scorcio - quest’ultimo - dove il premio già mostrava la declinazione suddetta e scivolosa: figuriamoci se Cruyff, che ne ha vinti tre, o i due rammentati o lo stesso Ronaldo brasiliano - per restare nei paraggi dei Miti del Calcio - avrebbero mai vincolato a questa abbuffata di premi la loro forza, la considerazione di loro stessi in mezzo agli altri, e nella storia, o nel futuro. È una consapevolezza perduta, un eccesso di semplificazione e modernità che ci ha fatto dimenticare l’unico conio veramente d’oro che possediamo per classificare le nostre esperienze e condividerle: la memoria. Lì si fanno i campioni e possiamo azzardare e rincuorare i catalani: lì si accomoderà col tempo, col tempo, Lamine Yamal. Non c’è tutto questo bisogno di questa cerimonia di gente vestita male, che pensa male, che parla male ma che piange benissimo.

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Il Pallone d'Oro e la memoria

Marco Bucciantini