Cristiano Piccini: "Orgoglioso di essere un valenciano. La Sampdoria un grande rimpianto"

La vita di un uomo è un lungo percorso che si snoda attraverso tutte le emozioni che l’hanno attraversata. Soprattutto se quell’uomo è un calciatore che ha lasciato la sua città e il suo Paese a soli 22 anni, è passato per sei Nazioni differenti, due infortuni gravi, di cui uno di quelli “da smettere di giocare per sempre”, 4 lingue parlate, molte gioie ma anche indicibili dolori fisici, tanti amici, compagni, allenatori cambiati e un unico grande amore, che l’ha rapito proprio quando la notte si faceva più buia e gli ha regalato quel raggio di luce e di gloria che alla fine di una carriera, comunque piena di soddisfazioni, può essere considerato come il vero fiore da portare all’occhiello della sua maglia. O meglio, delle sue tante maglie. Quel giocatore si chiama Cristiano Piccini, 32 anni da Firenze, che dopo un tourbillon di guai fisici e sgroppate sulle fasce da pochi giorni ha deciso di smettere col calcio giocato, “senza rimpianti e dopo una scelta ponderata, fatta anche con mia moglie”, ricevendo in cambio l’omaggio di uno stadio, di una tifoseria, di un club al quale ha lasciato in dote il suo cuore, oltre a tutta la sua straripante personalità. Il suo Valencia, ovviamente. Che proprio martedì scorso, il 30 settembre 2025, prima della partita contro l’Oviedo, gli ha concesso un saluto commosso e sentito da parte di tutto lo stadio. “Mi è passata davanti tutta la mia vita da calciatore, e non solo, in quel momento”, ci dice con la voce ancora emozionata quando lo raggiungiamo al telefono, proprio pochi minuti dopo aver riportato all’aeroporto i genitori, arrivati a Valencia per assistere alla serata speciale del loro Cristiano. “Per me ha significato tantissimo questo omaggio, perché Valencia la considero casa mia, i suoi tifosi i miei tifosi, il club la mia vera squadra. Poi vuoi mettere la soddisfazione di essere un ragazzo italiano che viene celebrato in un paese straniero per la propria carriera? È un doppio successo, devo dire, che mi ripaga totalmente per tutti i sacrifici e le sofferenze che ho patito nella mia vita calcistica. È stato veramente emozionante poter vivere una serata del genere insieme ai miei amici e alla mia famiglia”. Un’idea arrivata direttamente dal club, anche se rispetto a quando giocavi te è cambiata tutta la dirigenza? “Sì, devo dire un gesto di grande sensibilità da parte loro. Un paio di giorni dopo il mio addio, nonostante appunto siano cambiati tutti i vertici della società, mi ha chiamato il responsabile della comunicazione dicendomi che volevano concedermi questo omaggio. Credo anche perché di fatto io sono sempre rimasto nel cuore dei tifosi e sono parte integrante della città, dove si vive per il calcio e per il Valencia. Io oggi vivo qui in città con mia moglie e i miei due figli e faccio parte della comunità valenciana a tutti gli effetti”. Una comunità che hai aiutato anche concretamente “Si l’anno scorso, quando la città e tutta la regione è stata colpita dalle violente inondazioni procurate dalla Dana. Io ero in Messico a giocare con Atlético San Luis ma sono riuscito comunque a far arrivare degli aiuti. Ti ripeto, sono veramente molto legato a questa città e a questa tifoseria. Ci vogliamo bene a vicenda”. Anche se alla fine a Valencia hai passato solo tre stagioni e poi hai cambiato tante altre squadre. Spiegaci allora come è nato questo rapporto speciale “È stata una cosa naturale, un sentimento che è cresciuto col tempo, forse anche più di quanto meritassi per quello che ho dato in campo . Alla fine, come hai detto te, ho giocato lì solo per due anni, più un terzo dopo l’esperienza all’Atalanta, comunque costellato dai problemi fisici. Quindi credo che abbiano apprezzato soprattutto l’uomo Piccini, la grinta che ci mettevo in campo ma anche fuori, l’amore che ho sempre nutrito istintivamente per questa squadra. Mi hanno capito e apprezzato per la persona che sono”. Un rapporto che è passato attraverso diversi momenti. Che, potremmo dire, è germogliato nella gioia ma si è rafforzato nella sofferenza “Esatto. Direi che sono stati due i momenti chiave del mio splendido legame coi valenciani. Il gol all’Huesca all’ultimo minuto e quel tremendo infortunio alla rotula del ginocchio destro, lo stesso che aveva subito qualche anno prima la lesione del crociato, quando ero al Betis”. E allora raccontaceli “Il primo è stato forse il momento di gioia più pura della mia carriera, il mio gol più importante, sebbene non ne abbia fatti molti . Realizzato di fronte ai miei tifosi, all’ultimo minuto di una partita che avrebbe potuto segnare la fine dell’avventura di Marcelino e che poi da tutti i tifosi del Valencia è stata considerata la svolta di quell’annata conclusa con la qualificazione in Champions e la vittoria della Coppa del Re contro il Barcellona, il successo più grande della mia carriera. Quel gol di fatto ha cambiato la stagione, l’ha svoltata radicalmente e ancora oggi sono ricordato da tutti i tifosi per quel tiro di sinistro”. Poi, però, nel momento forse migliore della tua carriera è arrivato il tremendo infortunio al ginocchio “Mi è esplosa la rotula in allenamento, una cosa mai vista prima per un calciatore. Anche i dottori che poi mi hanno operato mi ripetevano che un infortunio del genere può capitare al massimo a un motociclista che fa un violento incidente”. Com’è andata? Eravamo verso la fine di un allenamento, stavamo facendo la classica partitella e nel tentativo di recuperare un pallone che stava uscendo in fallo laterale mi butto in scivolata, mentre il mio avversario, un compagno ovviamente, prova a saltarmi ma mi prende il ginocchio per sbaglio. La rotula è letteralmente esplosa. Ricordo i miei compagni e Marcelino con le mani in faccia che cercavano di tenermi a terra per non farmi vedere quello che era successo, poi riesco ad alzare la testa e al posto della rotula vedo un buco, un cratere. Per fortuna quel giorno a Paterna c’era il dottor Maestro, il chirurgo che poi mi ha operato, che in quel periodo veniva una volta al mese a vedere gli allenamenti e fare il punto col corpo tecnico di Marcelino. Mi ha portato subito a fare una risonanza e poi a Gijon per operarmi il giorno stesso: se non fosse stato li probabilmente non sarei stato operato immediatamente e non sarei più riuscito a recuperare del tutto”. Da lì è partito una sorta di calvario “Di fatto sono riuscito a tornare a giocare e a sentirmi di nuovo un giocatore solo tre anni dopo, al Magdeburgo nella Zweite Bundesliga. La stagione all’Atalanta, quella di ritorno al Valencia e quella alla Stella Rossa sono state veramente dure, non riuscivo ad allenarmi, il ginocchio si gonfiava continuamente. Tutto sembrava essere finito ma io non ho mai mollato e alla fine grazie al lavoro e alla pazienza sono stato ripagato. Anche se probabilmente senza quell’infortunio mi sarei potuto togliere molte più soddisfazioni, perché è arrivato nel momento in cui mi sono sentito meglio in tutta la mia carriera”. Quindi in realtà non è vero che ogni infortunio rende più forte, come spesso si dice in questi casi. “Assolutamente, è una frase fatta che si usa più che altro per farsi forza, ma non è così. Ogni infortunio ti toglie qualcosa, se poi è così grave come il mio allora la cosa si fa ancora più pesante e riprendersi non è per nulla scontato. Certo se poi un atleta riesce a tornare al livello precedente all’infortunio allora forse sì la frase si può considerare veritiera. Perché, in fondo, a livello mentale e di esperienza una caduta può arricchirti, ma di certo non dal punto di vista fisico”. Nel tuo caso, però, ha aiutato a cementare il rapporto coi tifosi del Valencia “Sì, il secondo momento chiave della mia storia con loro. Mi sono sempre stati tutti vicini, ho da subito sentito l’affetto di tutti quanti, un affetto che mi ha continuamente ripagato e dato lo stimolo in più per riuscire a tornare un calciatore. Sono convinto che siano riusciti ad apprezzare la mia voglia di lottare, di non mollare, di riprendere a difendere i colori di quel club, l’unico, insieme alla Sampdoria, che mi ha fatto provare l’orgoglio di indossare una maglia”. E i compagni? C’è stato qualcuno che ti è stato più vicino degli altri? “Anche loro sono stati fondamentali, veramente tutti, dal primo all’ultimo. A partire dal momento in cui mi sono infortunato per arrivare ai lunghi mesi di riabilitazione che facevo al centro sportivo, quindi sempre a contatto con la squadra. Se devo citarti qualcuno, però, ti dico Marcelino, l’allenatore. È stato assolutamente fantastico da persona meravigliosa qual è, anche quando venne mandato via continuava a scrivermi quasi tutti i giorni per sapere come stessi. Ha un cuore enorme e mi voleva veramente bene, come io ne voglio a lui tutt’ora, soprattutto per avermi reso migliore, sia come giocatore in campo che come uomo fuori”. Un’esperienza, quella di Valencia, che ti sei portato nel cuore e che oggi ti definisce come uomo, quello che però in fondo già eri quando sei arrivato li. Tutt’altra cosa la prima esperienza spagnola, quella al Betis nel 2014, che hai affrontato quando avevi solo 22 anni. Una scelta non facile per un giovane di quella età “Sì, assolutamente. Ma alla fine una scelta voluta anche per soddisfare quel desiderio che avevo sin da giovanissimo di voler giocare all’estero. Ho sempre sentito questo impulso di andare fuori dall’Italia per provare nuove esperienze e arricchirmi come persona. Dopo il prestito al Livorno la Fiorentina voleva cedermi e su di me c’erano anche diversi club italiani, ma quando all’improvviso è spuntato anche il Betis io ho scelto di andare in Spagna”. L’età non ti ha aiutato troppo, soprattutto all’inizio “Ero un ragazzino, single e con tanto successo con le donne, pensavo soprattutto a uscire e a divertirmi la sera. Facevo un po’ il coglione, insomma. Siviglia poi più che una città è un grande paese, si viene sempre a sapere tutto e certi miei atteggiamenti non sono stati presi bene da alcuni tifosi che alla fine se la sono presa con me, arrivando quasi a odiarmi”. Fino a quando hai incontrato la persona che ti ha cambiato la vita “Mia moglie Filipa, certamente. È stato soprattutto grazie a lei che sono maturato, che ho cambiato vita, che non sono rimasto uno “scappato di casa”. Certo avevo già iniziato a trovare un mio equilibrio. Dopo un primo anno nel quale non performavo anche a causa di problemi fisici, ero stato riscattato dal Betis ed ero tra i migliori giovani terzini destri d’Europa, avevo tante squadre di Premier che mi volevano. Ma, certamente, incontrare Filipa è stato decisivo per la mia maturazione. Oggi sono convinto che se non avessi incontrato lei e cambiato testa avrei smesso prima oppure avrei giocato a livelli molto più bassi di quanto ho fatto nella mia carriera”. Che nel finale ha vissuto due altre bellissime avventure con Magdeburgo e Sampdoria, finite però in maniera opposta. “In Germania sono letteralmente rinato, mi sono sentito nuovamente un giocatore dopo i tre anni di calvario. A livello sportivo è stata un’esperienza bellissima, ho trovato un allenatore bravissimo, Christian Titz, che quest’anno, ti segnalo, vincerà il campionato di Zweite con l’Hannover, tra l’altro anche una bravissima persona. Mi sono proprio divertito, avevo voglia di giocare, aspettavo le partite con gioia, senza quella pressione che avevo sempre percepito, mi sentivo importante per la squadra e ne ero il leader, caratteristica che ho sempre sentito di avere naturalmente nella mia vita. Mi sentivo amato, ho giocato secondo me molto bene, facendo una stagione e mezza ad alti livelli, segnando tanto, anche grazie al fatto che fossi rigorista”. E poi? “E poi c’è anche l’altro aspetto della vita, quello fuori dal campo, completamente all’opposto. Magdeburgo è una piccola città dell’est della Germania dove la vita, soprattutto d’inverno, è dura. Tutto chiudeva presto, era quasi sempre buio e faceva freddissimo. La mia famiglia all’inizio ha provato a venire a vivere lì ma soprattutto per i miei figli era tutto molto complicato, scuole solo in tedesco e abitudini stravolte. Quindi, appena è arrivata l’occasione della Samp sono andato dai dirigenti a chiedermi di lasciarmi andare e darmi la possibilità di tornare in Italia”. A Genova hai trovato tutta un’altra situazione... “Sicuramente più problematica dal punto di vista sportivo , ma fantastica dal punto di vista umano. Tornare in Italia, in una squadra con tanti ragazzi italiani e dove tra l’altro giocava il mio migliore amico nel calcio, De Paoli, nella quale poter fare gruppo, tornare a scherzare e ridere nella tua lingua, una cosa che mi è sempre mancata nella mia carriera”. E poi c’era Pirlo “Sì, oggi un amico prima che un allenatore per me, andiamo anche in vacanza insieme ogni tanto. Lui mi ha fortemente voluto e subito assegnato la responsabilità di essere una guida per i giovani e per la squadra. Si era creato veramente un grande clima e infatti da quando siamo arrivati la squadra ha iniziato a girare e dopo la crisi iniziale siamo riusciti ad arrivare fino ai playoff, dove siamo usciti col Palermo”. Dopo i quali l’avventura in blucerchiato è terminata, mi pare di capire contro la tua volontà questa volta “Assolutamente, la mia priorità in quel momento era solo la Sampdoria. Il contratto mi scadeva ma tutto era pronto per il rinnovo, avevo anche rifiutato inizialmente la chiamata dei messicani dell’Atletico San Luis che mi stavano corteggiando da giorni, assicurandomi uno stipendio molto maggiore di quello che avrei preso alla Samp. Ma io volevo restare a Genova, anche perché i soldi nella parte finale della carriera non sono mai stati la priorità”. Pirlo ti voleva, te volevi restare, cosa è successo allora? “È successo che dopo i playoff vado in vacanza e incontro sia Pirlo che Andrea Mancini, il direttore sportivo, che mi rassicurano sul fatto che il rinnovo ci sarà. Poi però il presidente decide di affidare il ruolo di responsabile dell’Area Tecnica ad Accardi e, nonostante Pirlo continuasse a dirgli di darmi una possibilità soprattutto per il ruolo di leader dello spogliatoio che mi ero costruito, lui ha deciso di non puntare su di me. Ho aspettato una chiamata per giorni e settimane ma alla fine non è mai arrivata. Per me è stata una vera bastonata, stavo già cercando casa per trasferirmi con tutta la mia famiglia, mi sentivo un leader, alla seconda partita avevo già la fascia da capitano, percepivo chiaramente che i tifosi mi volevano bene e io avevo finalmente trovato un posto dove mi sentivo nuovamente orgoglioso di giocare. E poi c’era quel sogno di poter tornare in Serie A con la Samp, una sorta di rivincita calcistica anche personale. Ho richiamato i dirigenti del San Luis, coi quali ci eravamo promessi di risentirci se non si fosse concretizzato il rinnovo con la Samp, e sono andato in Messico”. Dove hai capito che forse stava arrivando il momento di smettere... “Sì, anche perché pure quell’avventura è stata molto condizionata dai miei infortuni”. Spiegaci meglio. “Sono arrivato che la squadra stava quasi per iniziare il campionato, quindi a preparazione quasi completa, mentre io venivo da un mese e mezzo di vacanze. Mi danno un minimo di tempo per mettermi in forma e partiamo per la League Cup, torneo tra squadre di Mls e squadre messicane. Subito titolare contro l’Orlando, gioco tutta la partita molto bene, migliore in campo, ma dal nulla, senza aver subito un colpo o una torsione, inizia a farmi male il ginocchio sinistro, quello sano. Tiro avanti, inizio a prendere antidolorifici, gioco un altro paio di partite ma il ginocchio continua a farmi male. Mi fanno una risonanza dalla quale non emerge nulla, a me continua a fare male e come terapia, dopo qualche puntura, mi portano a fare le passeggiate in montagna. Non potevo andare avanti in quel modo e chiedo il permesso di andare in Spagna dal mio fisioterapista che capisce subito che ho la cartilagine infiammata: nulla di grave, ma servivano terapie specifiche. Mi rimetto in piedi in 3 settimane, torno in Messico e subito in campo, giocando una partita meravigliosa nei quarti di finale di play-off contro il Tigres. Addirittura, il giorno dopo sui giornali e sui social si fanno accostamenti a Maldini e Nesta, come simboli di grandi difensori italiani. Finisce l’apertura, andiamo in vacanza tre settimane, torno e inizia il campionato di clausura. Gioco le prime due ma nella settimana della terza subisco una lieve lesione muscolare, roba di 2-3 settimana di stop. L’allenatore però mi chiama e mi forza a giocare perché aveva bisogno di me e io invece di sentire il mio corpo mi sono fatto convincere a continuare ad allenarmi. Ovviamente durante la seduta prima della partita mi riapro l’adduttore e li scoppio definitivamente. Sono crollato, mi dico basta, mi sono rotto i coglioni non ho più voglia di giocare e stare sempre a soffrire, di stare a rincorrere sempre il mio corpo”. E allora hai deciso. “Sono tornato a casa e ne ho parlato con mia moglie, che come sempre ha trovato il modo migliore di accompagnarmi anche in questa decisione. Mi ha detto semplicemente: ‘Amore, se non hai più voglia di soffrire allora fermati. Hai dato tanto al calcio e noi siamo qui accanto a te qualsiasi scelta tu vorrai fare’. Allora mi sono sentito ancora più sereno e ho preso questa decisione con la piena consapevolezza e una grande gioia per quello che sono riuscito a fare”. Anche se poi ti sei voluto dare un’ultima possibilità... “Tornato in Europa da svincolato ho ricevuto la telefonata dell’Yverdon, squadra del massimo campionato svizzero. Stavo giocando, anche bene, e ho anche segnato un gol, poi contro il San Gallo mi sono entrati coi tacchetti sulla tibia e ho finito la stagione”. Contestualmente, in quel periodo tra Messico e Svizzera hai anche iniziato a scrivere una tua autobiografia, un processo che forse ti ha anche aiutato proprio nella decisione di smettere a soli 32 anni “Sì, per è stata una sorta di terapia. Il poter rivivere attraverso la scrittura la mia vita e rivederla con un’altra ottica, come dall’alto e con distacco, mi ha aiutato ad acquisire questa consapevolezza. Avevo la possibilità di continuare a giocare ma ho deciso di smettere, anche perché andare a giocare in paesi strani o lontani dove non avrei percepito la passione e l’amore per la competizione non avrebbe avuto senso. Oggi sono padre di due bambini, ho una famiglia e devo dare la priorità a loro. Certo, se avessi avuto la possibilità di tornare al Valencia o alla Samp magari avrei continuato forse fino a 40 anni”. Il ritorno di Andrea Mancini in blucerchiato non ti ha fatto pensare di poter tornare alla Samp “Certo, anche perché era con lui che avevo parlato prima dell’arrivo di Accardi. Ci ho sperato tanto, poteva essere l’ultimo spiraglio per tenere viva quella voglia di giocare con passione della quale ti parlavo prima. Ma poi, in questo calcio di oggi dominato dagli algoritmi dove contano solo i numeri e non l’uomo, la possibilità non si è concretizzata. E quindi ho preso la decisione definitiva di smettere”. E per annunciarla, a proposito di scrittura, hai pubblicato sul tuo profilo Instagram una meravigliosa lettera a Cristiano bambino. Ecco chi era e com’era quel bimbo, hai sempre avuto il sogno di diventare un calciatore? “Sì sì, da sempre. Non ho mai avuto dubbi che sarei diventato un calciatore. Ma lo dico sinceramente, senza esagerare. Ho iniziato quando avevo 6 anni e da subito ero obiettivamente troppo più forte rispetto agli altri bambini. Pensa che ero talmente certo che sarei diventato un calciatore che da piccolo firmavo autografi e li davo ai miei amici dicendo di conservali perché sarei diventato un giocatore famoso. Addirittura, mia nonna, che era un’appassionata di tarocchi, ogni volta che mi faceva le carte mi diceva che sarei stato un calciatore. Poi mi ha chiamato la Fiorentina e lì ho capito che stavo realizzando quello che avevo sempre sognato”. E ora che hai finito lo puoi dire: è stato veramente come avevi sempre sognato? “Ancora meglio devo dire. Tutto quanto, dall’inizio alla fine. Dolore e sofferenza comprese. E la serata di martedì scorso al Mestalla lo conferma. È soprattutto per questo che ho sempre voluto giocare a calcio, per fare il pieno di passioni e sentimenti”.

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Cristiano Piccini: "Orgoglioso di essere un valenciano. La Sampdoria un grande rimpianto"

Michele Mastrogiacomo