Non ci scorderemo mai di George Best

Vent’anni dopo la morte il parallelo resta lo stesso di allora: George Best è stato davvero il Charles Baudelaire del football, un ribelle geniale capace di scrivere una sua personale versione dei “Fiori del Male” su un campo da calcio, talento infinito ma destinato a non durare, affogando la carriera nell’alcool esattamente come il poeta francese fece con una vita senza limiti tra prostitute, droghe e rabbia. George, come Charles, è stato un pugno nello stomaco delle convenzioni, e se Baudelaire nelle sue opere sfidava la borghesia imbecille e ipocrita, lui lo faceva partendo dai campi da football, rovesciando l’immagine stereotipata del calciatore: i capelli lunghi, il dribbling strafottente, il sorriso da attore, ma soprattutto una vita che per la prima volta portò un campione dello sport sulle pagine della moda e del costume. Best, pure bellissimo, diventò un simbolo dell’Inghilterra degli anni ’60, quella con le note dei Beatles e dei Rolling Stones, della Swinging London con le gonne corte di Mary Quant. Negli anni più duri dei “trouble” che insanguinavano la sua terra, lui, nord-irlandese, aveva deciso di riempire la sua vita di notti infinite fatte di alcool, eccessi, inseguimenti della polizia e arresti, descrivendoli poi come solo un genio, non solo del pallone, poteva fare. “Ho speso un sacco di soldi con auto veloci, donne e alcool: tutto il resto l’ho sprecato”, sintesi meravigliosa di un’esistenza. In campo, si diceva, esibì un talento con pochi eguali. Esordio nel Manchester United a 17 anni, due titoli inglesi già vinti quando ne ha solo 21, e poi la coppa del Campioni a Wembley, Benfica battuto 4-1, con l’equilibrio spezzato all’inizio dei tempi supplementari da un suo gol figlio della sua arte, il dribbling, e leggero come una poesia. È il maggio del 1968, qualcuno lo vede come un emulo calcistico dei ragazzi che negli stessi giorni, a Parigi, occupano la Sorbona, ma il paragone è sbagliato: Best è un ribelle, non un rivoluzionario. Proprio come Baudelaire, la vita contro le convenzioni, ogni giorno da consumare come fosse l’ultimo, e se il poeta francese dissipava soldi inseguendo il lusso con gli abiti del dandy, anche a George il conto arriva presto: la coppa dei Campioni, con il conseguente successo del Pallone d’Oro, anziché l’inizio rappresentano già la fine. Ha 22 anni, ma quando cinque stagioni dopo lascia il Manchester United, è da tempo un ex. La magia di una meravigliosa meteora, come lo è stato Baudelaire, che ebbe solo 46 anni di vita a disposizione per regalarci opere meravigliose che sarebbero state finalmente comprese e rivalutate dopo la sua morte, quando finalmente venne tolta la censura ai “Fiori del Male”. Best ha avuto una parabola simile, un’esistenza calcistica e non solo troppo corta, ma lasciando un ricordo andato oltre la morte. E se la carriera è stata troppo breve per essere accostata a quella dei fuoriclasse assoluti del pallone, da Pelè a Di Stefano, da Cruyff e Maradona, resta una sensazione: se qualcuno chiedesse di scegliere non il più grande poeta e il più grande calciatore, ma una sola riga di una poesia e una singola giocata in un campo di football, i voti per Baudelaire e Best sarebbero tantissimi.

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Non ci scorderemo mai di George Best

Nicola Roggero