Una parola alla volta: come lo sport può combattere la violenza di genere

La violenza di genere non è solo un atto fisico, il gesto estremo del femminicidio. Violente possono essere le parole, violento è far tacere, violento è discriminare, con un incarico o un bonifico che sia. Esiste il gender pay gap, ma anche il gender play gap: definizione perfetta che riassume alla perfezione quanto sia sbilanciato lo spazio sportivo tra chi all’anagrafe nasce uomo e chi invece donna, ignorando il fatto che il genere non è altro che una costruzione sociale. Lo sport, quando vuole, può essere la piattaforma più potente per promuovere la parità, ma allo stesso tempo continua ad essere un contesto in cui le asimmetrie fra atleti maschi e atlete femmine tendono a manifestarsi, perché per istituzione lo sport li separa, cristallizza una rigida logica binaria e questo non fa altro che prestare il fianco a stereotipi che spesso sono l’anticamera della violenza. In occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne abbiamo provato a riflettere su questi temi per mezz’ora su Sky Sport 24: il tempo del lavaggio breve di una lavatrice, potremmo dire con sarcasmo, rimandando il discorso a un immaginario che non è del tutto superato. Perché eravamo cinque professioniste al tavolo, con un piccolo cameo maschile, e in altri tempi o in altri luoghi non sarebbe stato così naturale. Con Eleonora Cottarelli a guidarci, c’era Alessia Tuselli, sociologa e docente presso il centro di studi interdisciplinari dell'Università di genere di Trento, che per cominciare ha scelto questo luogo comune da frantumare: “La cosa che più mi è insopportabile è la misura dell'eccellenza al maschile, cioè il come un uomo. Sei forte come un uomo. Sollevi questo come un uomo. Corri veloce come un uomo”. Con lei Luisa Rizzitelli, presidente dell'associazione Assist, che da 25 si occupa di tutelare le atlete e i loro diritti, che ancora si indigna davanti all’idea che “ci siano sport da maschi e sport da femmine. Questo è un grande classico che tentiamo di abbattere da sempre. Ci stiamo lavorando, ma ancora c'è da fare”. E poi Lara Lugli, ex pallavolista, dirigente sportiva, giornalista, protagonista suo malgrado di una vicenda iconica a proposito di discriminazioni, che dovendo scegliere una frase da cancellare non ha dubbi: “Quella che dicono tanti allenatori, cioè che con le donne è più difficile lavorare, perché devono sempre stare attenti a cosa dicono e come lo dicono perché poi si mettono a piangere”. In fondo la lavatrice, nel nostro studio, non ci sarebbe stata male, perché quello che abbiamo provato a fare è stato soprattutto ripulire la testa da pregiudizi, il linguaggio da definizione scorrette, e non solo quello degli uomini. Tante donne non hanno piena coscienza della società che tutte e tutti contribuiamo a non cambiare, ogni volta che diciamo “sono solo parole”. Per noi non lo sono, e queste sono le più preziose che abbiamo raccolto in questo speciale che trovate su Sky Sport 24: “Oltre il gioco: Capire e Combattere la Violenza di Genere nello Sport” “Quando parliamo di violenza nello sport dobbiamo iscriverla in un rapporto e in delle dinamiche precise, che sono spesso e volentieri quelle di un rapporto di fiducia” dice Alessia Tuselli. “All'interno dello sport noi dobbiamo parlare del processo della violenza, così come lo facciamo all'interno delle relazioni intime, perché la matrice del rapporto non è molto diversa. Lo sport prende persone piccole in formazione, in costruzione identitaria e quel rapporto diventa un'agenzia di socializzazione, lo sport lo è come la famiglia e la scuola. Identificare una violenza nel suo processo, che sia psicologica, economica, fisica, sessuale, all'interno di un rapporto di fiducia e quindi di stima, di affetto, qual è quello sportivo, diventa molto difficile: è complicata da chiamare, da identificare, da riconoscere, da sentirsi addosso”. Affrontare la violenza di genere nello sport significa quindi intervenire sulla società intera, come fa Assist con Luisa Rizzitelli: “Noi ci occupiamo dello sport femminile, quindi anche di tanti allenatori che operano all'interno dello sport femminile. Violenza di genere è anche banalmente discriminazione, è anche sparizione, è anche non esserci”, dice Rizzitelli. “Se pensiamo alle donne dello sport italiano, i numeri sono incredibili. Noi abbiamo 50 presidenti di federazioni sportive nazionali e le donne a capo sono solo due. Abbiamo pochissime allenatrici, pochissime direttrici sportive, non abbiamo mai avuto una presidente del Coni donna. Non abbiamo praticamente una governance che abbia visto la realtà con l'occhio delle donne. Lo sport è sicuramente qualcosa di meraviglioso, però contiene all'interno delle dinamiche che possiamo definire violenza anche quando sono banalmente ritenute non tali, ossia comportamenti che non sono adeguati perché non mettono sullo stesso piano e non concedono lo stesso rispetto alle persone quando sono uomini o sono donne. La normalizzazione di certi comportamenti è inaccettabile, eppure è consuetudine. Capita spesso di sentir dire a un bambino piangi come una femminuccia, negando a un bimbo la parte più bella dell’esperienza sportiva, la spensieratezza che è tipica del gioco”. Accade tra i praticanti, si accentua tra gli agonisti. Sarebbe bello parlare di professionisti, ma a parte le calciatrici oggi in Italia nessuna atleta, anche ai massimi livelli, lo è. Lara Lugli incarna questa distorsione. La sua storia ci racconta come violenza sia anche negare diritti, cancellare la parola maternità dal lessico di una giocatrice. “Era il 2021 quando è venuto fuori il mio caso. Io sono stata una giocatrice di pallavolo per 25 anni, ho fatto quello come mestiere, per me era un lavoro. Nel 2019 ho firmato una scrittura privata con una società di Pordenone, come accadeva sempre, ma a marzo ho scoperto di essere incinta. Dopo aver comunicato al club la mia gravidanza, il contratto si è interrotto perché conteneva la clausola antimaternità, sempre presente sui contratti che firmavamo. Poi è accaduto che ho fatto richiesta di un paio di mensilità arretrate che non mi erano state pagate, relative a periodi in cui mi ero allenata e avevo giocato, ma non mi sono state concesse. Insieme al mio avvocato e al mio procuratore ho deciso di andare avanti con un'ingiunzione di pagamento e poi a distanza di 2 anni la risposta della società è stata quella di citarmi per danni, farmi pagare il presunto danno che aveva procurato la mia maternità in termini di contributi degli sponsor non versati, punteggio in classifica non raggiunto. Loro hanno pensato bene di quantificare questo danno con una cifra che io avrei dovuto pagare”. “Oggi la legge è leggermente cambiata con la Riforma del lavoro sportivo ma il contesto no, il problema della maternità non è risolto”, spiega Luisa Rizzitelli, “Sei incinta, vai a casa, nessuno ti aiuta a rientrare dal punto di vista agonistico nella tua squadra, quindi tu perdi il lavoro, spesso ti dicono di lasciare l'appartamento velocemente. Non c'è una cultura che in questo momento, tra l'altro, ti consente di rimediare a quella che è la perdita del tuo compenso”. Il contesto culturale, prima di tutto, anche per Alessia Tuselli. “C'è un modo in cui noi raccontiamo lo sport che è differente per genere. Le retoriche che utilizziamo su atleti e atlete sono molto diverse. Ci sono stereotipi e pregiudizi in tutti e due i casi, soltanto che il paniere del modo in cui parliamo del corpo delle donne, della professionalità delle donne, della vita delle donne, anche nello sport, è un paniere un po' più ampio di stereotipie e pregiudizi, a partire dal linguaggio, ma non solo”. Come si interviene? “Dobbiamo fare più ricerca, dobbiamo avere più dati, dobbiamo avere più categorie condivise per raccontare questo spazio dello sport, per renderci consapevoli, perché parlarne non vuol dire autoaccusarci. Dobbiamo uscire dalla retorica della colpa e entrare in quella della responsabilità collettiva. Sapere cosa succede negli spazi sociali, quindi anche nello sport, vuol dire riuscire ad intervenire. Dopo la ricerca dobbiamo fare formazione, cioè le ricerche ci servono per far toccare le cose terra, vuol dire renderci collettivamente consapevoli, con competenza”. “La cultura non si cambia per la buona volontà di Luisa, di Alessia, di Lara, di tutti noi”, aggiunge la presidente di Assist. “Si cambia se il programma di formazione che noi facciamo con allenatori, allenatrici, dirigenti, genitori e atleti e atlete diventa un programma continuo. La competenza, la capacità, anzi direi la consapevolezza si raggiunge allenandosi, quindi parlando di queste cose, ma se non abbiamo numeri, perché non li abbiamo, se non abbiamo dei corsi di formazione diventa complicato. Adesso abbiamo l'istituto del Safe Guard Office, una realtà che è diventata obbligatoria nelle associazioni sportive, cioè una persona sentinella che aiuta a raccogliere casi di discriminazioni e violenze, e va bene, ma se non facciamo formazione seriamente purtroppo cambierà qualcosa tra 550 anni, forse”. La formazione passa dal linguaggio, troppo spesso considerato marginale in questo dibattito, ma attenzione a fare la classifica dei problemi. Ognuno ha le proprie priorità, la sensibilità di ciascuno di noi può andare a focalizzarsi su un tema e per qualcuna e qualcuno il linguaggio può essere una priorità, perché cristallizza stereotipi che a loro volta generano atteggiamenti e comportamenti. È pericoloso far passare il concetto non si può più dire nulla, ma dovremmo rovesciare la logica e affermare che non si può dire tutto, soprattutto nello sport, che ci offre costantemente e quotidianamente il pretesto per sbagliare. “Il linguaggio è uno strumento, è un meccanismo che cambia con il tempo, perché la lingua parla di noi. Alma Sabatini, diceva che noi non solo parliamo una lingua, ma dalla lingua siamo parlati e parlate e questo vuol dire che deve rispecchiare come le società cambiano” spiega Tuselli. “Quello che utilizzavamo all'inizio degli anni ‘90 non va più bene e dobbiamo uscire dalla retorica degli spogliatoi maschili, perché quelle cose fanno male anche agli uomini. Il linguaggio fa esistere le cose. Quando noi le cose le nominiamo, quelle cose esistono nella testa, nei nostri immaginari, nella nostra società e tutto quello che non nominiamo sparisce. È quella la responsabilità che noi abbiamo quando apriamo bocca e chiamiamo o non chiamiamo le cose”. Il tema è anche quello delle relazioni tra i generi: se c'è l'assenza di un genere le relazioni non possono essere migliori. “Esistono ostacoli che vanno studiati, indagati e superati, senza questo lavoro che non è ancora fatto né da CONI, né dalle federazioni, né da altre realtà, noi ci ritroveremo sempre a parlare con un'enorme mancanza di uno dei due generi nella conduzione dello sport” aggiunge Rizzitelli. Per altro, uno dei due generi manca di essere citato nello statuto del CONI, dove il maschile sovrasteso fa in modo che esistano solo gli atleti e non esistano le atlete. Come i femminili professionali, che nel linguaggio sportivo sono scansati come birilli di plastica: ma non sono finti, non è un linguaggio artificiale, è italiano. Portiera, per quanto piaccia o no, non è solo quella della macchina. È solo un aspetto del linguaggio, certo, ma da qualche parte bisognerà pur iniziare. Alla fine della chiacchierata ci siamo date un appuntamento: 25 novembre 2030. “Fra 5 anni saremo soddisfatte se ritrovandoci nuovamente a questo tavolo essere tutte donne non sarà un'eccezione né un'occupazione di spazio pubblico che viene salutata con sorpresa”, è il pensiero di Alessia Tuselli. “Se inizieremo a parlare e a guardare lo sport con maggiore responsabilità, a considerarlo uno spazio sociale e quindi inizieremo a vederci dentro tutti i valori positivi che ha, perché li ha, ma a vedere anche tutte le stereotipie e i pregiudizi che come società ci portiamo dentro, perché la nostra responsabilità è costruire consapevolezza e quindi cambiare veramente dall'interno lo sport per costruire quegli spazi dove i disagi personali, non solo delle ragazze o delle bambine, ma anche dei ragazzi e dei bambini, possano essere espressi. Quei disagi devono avere parole per essere chiamati e uno spazio che li accoglie per essere presi in carico”. “Saremo soddisfatte”, chiude Luisa Rizzitelli, “se per gli uomini e per i ragazzi diventerà sempre più intollerabile e inaccettabile tutto quello che ci porta a una cultura patriarcale, quindi sessismo inconsapevole, la battuta di troppo. Ecco, io mi aspetto che gli uomini diventino protagonisti di questa lotta, non la voglio fare da sola e sono sempre di più, ma devono essere tanti e devono essere intransigenti e l’intransigenza si allena. Allenarsi è un vocabolo meraviglioso. Anche oggi noi stiamo facendo un fantastico allenamento”. Cinque anni sono pochi, ma Lara Lugli intravede un cambiamento in atto. “Se c'è chi dice che non si può più fare una battuta è perché qualcuno glielo ha fatto notare, e prima non c'era neanche questo”. Se non riusciamo a dire le cose giuste, evitiamo almeno di dire le parole sbagliate. “La parola su cui dobbiamo lavorare per non averne paura è proprio quella di patriarcato”, chiude Alessia Tuselli, “e la dobbiamo dire oggi, la dobbiamo dire con consapevolezza, perché questa parola ci libera da quelle strutture che ci tengono tutte e tutti incastrati in meccanismi di potere che limitano i nostri orizzonti di possibilità, ci libera da questi sistemi di oppressione. La violenza è uno di questi, e ci porta a morire. Noi donne ancora moriamo nelle relazioni ecco perché insisto: il termine patriarcato non ci deve fare paura”. Una parola da portare in piazza, da far girare, da far rotolare nelle strade come un pallone. Oggi, domani e sempre, perché come dice Gino Cecchettin "Bisogna affrontare la violenza prima che diventi cronaca". Anche una parola alla volta.

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Una parola alla volta: come lo sport può combattere la violenza di genere

Veronica Baldaccini