La vita cinematografica di Luciano Vassallo, talento dimenticato metà italiano metà etiope

Luciano Vassallo è morto tre anni fa, il 16 settembre del 2022, dopo essere stato un piccolo grande protagonista dell’Italia coloniale, trascinato nell’inferno del razzismo da una sanguinosa e vendicativa guerra civile che poco dopo la metà degli anni ’70 sconvolse l’Etiopia e non guardò in faccia a nessuno. Un piccolo grande protagonista trasformato – in una notte – dalla storia e da chi la scriveva in collaborazionista e per questo condannato a morte. Un ‘meticcio’ tutto italiano la cui vita è stata degna di un film di Alberto Sordi. Un film che incomincia nel 1935, nell’Eritrea italiana, quando Luciano nasce all’Asmara, figlio di Vittorio, un militare italiano, e di Mebrak, una donna indigena. La coppia ha anche un altro figlio, Italo, che farà il calciatore, proprio come Luciano. Con gli stessi problemi, le stesse difficoltà, ma con ‘meno rumore intorno e meno successo’. Luciano viene presto abbandonato dal padre. A chi gli chiede delle sue origini risponde che è figlio di “mamma nera eritrea e padre soldato italiano mai visto”. E già da bambino è uno straniero in patria. “Era un inferno per quelli come noi. Quando avevo circa due anni mio padre fu trasferito ad Addis Abeba e di lui non abbiamo saputo più niente. Potrebbe essere morto in guerra o sopravvissuto, non l’abbiamo mai saputo. Al fatto di essere rimasti senza padre, si aggiunse la vergogna delle leggi razziali. Mi riferisco, in particolare, alla legge sui meticci varata nel 1940 con la quale venivamo di fatto considerati ufficialmente una razza inferiore, debole, non meritevole degli stessi diritti degli altri” Ben presto, infatti, deve abbandonare gli studi. È bullizzato – come si direbbe oggi – e vittima di discriminazioni sia da parte degli italiani che dagli stessi eritrei. È, insomma, troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri. Per chi aderisce pedissequamente alla dottrina di Stato, con il suo meticciato rappresenta una minaccia alla conservazione della razza bianca. E per la stessa madre Mebrak, quel figlio biondo con gli occhi chiari è ‘Shaitan’, il diavolo in persona. O se non altro un parente molto stretto. Sufficiente per picchiarlo senza motivo. Intuibile che l’infanzia di Luciano sia tutt’altro che serena e felice. Soprattutto quando – una volta abbandonata la scuola – deve rinunciare anche a studiare presso la scuola ‘Principe’ per sfuggire a minacce e molestie da parte di qualche prete un po’ troppo esuberante. Così, fino ai quindici anni, Vassallo si adatta a vivacchiare facendo lo spazzino, il venditore di giornali, il parcheggiatore. Fino a quando sulla sua strada non appare il pallone. Luciano ha talento naturale. E se ne avvedono i responsabili di una squadra locale, la Stella Asmarina. La ‘Stella’ è un piccolo club formato interamente da calciatori meticci. Luciano e Italo decidono di accettare di farne parte e ben presto Luciano si rivela un ‘numero dieci’ da favola. Ha un tocco di palla vellutato, nonostante si giochi su campi duri e irregolari. Dalle tribune il pubblico presente non li incoraggia, anzi li insulta chiamandoli “fascisti e bastardi” e tirando loro pietre. Ma Luciano è tremendamente bravo e di lui si accorgono i dirigenti del Dire Dawa Cotton Club, società legata al cotonificio dell’italianizzata ‘Diredaua’, seconda città del Paese. Per andare a giocare al Cotton, Luciano deve lasciare l’impiego. Una scelta non semplice alla sua giovane età. “Nel frattempo ero stato promosso aiutante aggiustatore delle littorine. Fu in quel periodo che conobbi un italiano, un certo Cattaneo, genovese, che di lì a poco sarebbe diventato il capo delle ferrovie eritree. Mi prese in simpatia e mi fece diventare capo reparto. Avevo appena sedici anni ma li avevo vissuti tutti intensamente e con grandissima difficoltà. Sedici anni che ne valevano cinquanta”. Arrivato a venti anni Luciano però affida la sua vita al pallone. L’Etiopia, che ha intanto assorbito politicamente l’Eritrea, gli ha da tempo spalancato anche le porte della nazionale. E il nuovo team lo ha aspettato: all’epoca è una specie di Juventus del Corno d’Africa. Ha vinto già un’infinità di titoli ed è la squadra più celebre dell’intera area geografica. Al Cotton FC, Luciano Vassallo inizia a scrivere così la propria storia leggendaria. Con lui viene acquistato anche Italo, i due fratelli insieme fanno la differenza. In campo si sentono apprezzati, tanto quanto emarginati fuori dal campo perché non del tutto italiani e non del tutto eritrei. “All’inizio giocavo terzino sinistro. Poi mi sono trasformato in centrale di difesa, quindi sono passato a centrocampo. Era quello il mio ruolo perché avevo un gran tiro e sapevo far giocare la squadra. Al Cotton Sport, con me venne mio fratello Italo che aveva 17 anni ed era un grande attaccante. Io alla sua età ero arrivato già in nazionale. Ma eravamo entrambi giocatori molto quotati, anche se di soldi col calcio se ne vedevano poco. Però il mio lavoro di meccanico rendeva molto bene: guadagnavo dieci volte più di un operaio normale. Anche in nazionale la situazione era difficile. Venivo insultato ed umiliato continuamente. Finché un giorno, quando un compagno mi dette del bastardo, lo chiusi in una stanza e lo riempii di botte. Nessuno ebbe il coraggio di dire niente. Da allora venni rispettato da tutti e divenni un leader. Giocammo anche una tournée in Russia. In una partita segnai un gran gol da 25 metri: il portiere non riuscì ad evitarlo. Poi scoprii che era Jashin! L’avessi saputo prima non avrei trovato il coraggio di fargli un tiro del genere!” Luciano e Italo, con la casacca verde e gialla della nazionale etiope, formata per nove undicesimi da calciatori eritrei, difendono dunque l’onore della loro Patria, senza sapere esattamente quale sia. Ma le loro capacità calcistiche e la loro qualità tecnica fa sì che quella squadra ben presto diventi fortissima, al punto da vincere nel 1962 addirittura la Coppa d’Africa, ospitata proprio dall’Etiopia. E Luciano Vassallo entra nella storia, per meriti calcistici e grazie anche a una foto mitica che lo ritrae mentre ritira il trofeo dalle mani del ‘negus’ Hailé Selassié. L’ex imperatore salomonide non nasconde le proprie simpatie per il calciatore italo-etiope che guida la nazionale etiope. Del resto il ‘negus’ durante la guerra contro l’Italia si era auto-esiliato per poi rientrare in Patria a regno liberato nel 1941. E diplomaticamente aveva retto con buoni rapporti di equidistanza l’equilibrio precario fra il nuovo presente e il passato. Un equilibrio però fragile che presto sarebbe crollato sotto i colpi di una lotta armata che avrebbe portato al potere il socialismo reale rivoluzionario. ‘Secondo re’ Resta il fatto che per una abbondante decina di anni Luciano Vassallo è un ‘secondo re’ etiope. La vittoria per 4-2 contro la Tunisia che ha spalancato la strada per la finale è stata avviata da una sua marcatura su calcio di rigore e pure nel 4-2 che ha assegnato il trofeo Luciano ha realizzato un gol, e uno lo ha messo a segno Italo. E ad oggi – in undici partecipazioni – quello di sessantatré anni fa rimane l’unico titolo continentale della nazionale ‘walyas’, i mitici ‘stambecchi del Semien’… “Negli spogliatoi prima della prima gara l’allenatore comunicò alla squadra che la fascia di capitano passava al nostro portiere. In modo che in caso di vittoria finale la coppa potesse sollevarla un etiope purosangue. Mengistu Worku, mio grande amico e altro leader carismatico del gruppo, pretese che io rimanessi il capitano. Alla fine dovettero cedere. E io ricevetti la coppa dalle mani dell’Imperatore Hailé Selassié! Un meticcio che a testa alta rappresenta l’intera Etiopia. In quel momento fu la rivincita di tutti i meticci” Certo, si potrà obiettare che l’indipendenza raggiunta da molte nazioni africane contribuirà in seguito a rendere più difficile la riconquista del trofeo, ma ciò non toglie che quel risultato oggi rimanga in assoluto il più importante conseguito dall’Etiopia in campo internazionale. E legato per sempre a Luciano Vassallo, che per alcuni commentatori dell’epoca diventa – in quel periodo – erroneamente ‘Vassalo’ o ‘Vasallo’, quasi a volere ulteriormente confondere le tracce di un destino che finalmente sembra avergli teso la mano. Luciano è un uomo onesto e non accetta che nella vita si percorrano scorciatoie. Lui non ne ha mai percorse del resto, né cercate, neppure quando forse ne avrebbe avuto legittimo bisogno. Non ha mai protestato in vita sua: sì, per la vittoria in Coppa gli è stata regalata una lussuosa ‘coupé’, ma il bonus vittoria di 2000 dollari non lo ha mai visto. Gliene hanno dati soltanto 400. La Federazione non lo ama e non ama il ‘negus’, che invece stravede per lui. Che però si rifà conquistando l’Étoile d’Afrique, un sorta di ‘Pallone d’oro’ africano. Quando Luciano dopo diciassette anni lascia la Nazionale, ha all’attivo 104 presenze e 99 gol. Se ne compiace e sorride, “beh, significa che sono qualcuno...”, e accetta l’aiuto di Selassié che lo spedisce in Italia, a Coverciano, per fargli prendere il patentino da allenatore così da poter diventare, al ritorno, il ‘mister’ dell’Etiopia. E così Luciano si ritrova in Toscana sui banchi federali accanto a Luis Vinicio, Cesare Maldini, Armando Picchi. E una volta tornato ad Addis Abeba prende le redini della nazionale, che guiderà per poco meno di cinque stagioni. Esattamente fino al 1974, quando l’esercito si rivolta contro Hailé Selassié e guidato dal Derg, una giunta comunista che fa capo a Menghistu Hailé Mariàm, rovescia il governo e imprigiona il ‘negus’ costringendolo a firmare diverse concessioni, prima di assassinarlo nel palazzo imperiale nel 1975. In quel tempo, parallelamente all’attività di allenatore – e approfittando di quel minimo di popolarità derivatogli dal successo in Coppa d’Africa – Luciano ha aperto ad Addis Abeba una officina autorizzata Volkswagen, intraprendendo l’attività di meccanico. Con la caduta di Selassié Luciano lascia la nazionale e anche l’incarico al St. George, dove lo accusano di razzismo. Con la Federazione il rapporto non è sereno, ma ha una buona clientela: molti calciatori vanno da lui a riparare la macchina. Si fidano, sanno che da giovane ha lavorato per le ferrovie eritree e sa dove mettere le mani. Il meccanico in alcune realtà è un amico, un po’ come il medico, il confessore, il barbiere. Si chiacchiera, ci si racconta della vita, ci si rivela qualche confidenza. E qualcosa arriva all’orecchio di Luciano. Qualcosa che lui non condivide. Lo scandalo Alcuni suoi ex calciatori della nazionale gli confessano che con il nuovo tecnico, il tedesco Peter Schnittger, negli spogliatoi ha fatto la sua comparsa il ‘captagon’, ovvero la fenetillina, una sorta di psicostimolante dopante sintetico sviluppato in Germania e molto utilizzato specialmente sul versante Orientale del paese. Luciano non perde tempo: indaga, ricerca, poi ne parla con la stampa e accusa Schnittger e la Federazione di avere introdotto il doping nel calcio del Paese, attirandosi le ire del presidente federale Yidnekatchew Tessema. Tessema, che non vedeva l’ora di farlo, denuncia allora Vassallo a Menghistu. Tessema è in quel momento un uomo potente. È anche il presidente dell’intera confederazione africana di calcio, muove soldi e consensi, due risorse che servono molto al regime che si è appena insediato al posto della monarchia. L’ex tecnico della DDR, del resto, è un innovatore e i suoi ‘sistemi’ possono tornare utili alla propaganda del ‘negus rosso’. Si può e si deve chiudere un occhio. Ma non su Vassallo, che viene accusato di connivenza con Selassié e arrestato. “In quel periodo era dura nel nostro paese. Tanti sparivano e venivano fucilati senza che le famiglie ne sapessero più nulla. Per strada trovavi cadaveri ovunque. Durante il tragitto dall’officina alla stazione di polizia vidi passare davanti ai miei occhi tutta la mia vita. Ero convinto che mi avrebbero ucciso. Ne ebbi conferma quando mi misero in una sala d’attesa e cominciarono ad insultarmi”. In prigione Luciano passa ore tremende. Lo picchiano, lo condannano a morte certa. Ma la sorte gli viene in soccorso… “Mi portarono dal loro capo. E fu la mia salvezza. Era un mio tifoso!”. E così il militare riesce a farlo uscire dall’angusta galera e lo aiuta a dileguarsi nel buio. Luciano non si perde d’animo e fugge… “Scappai a piedi verso le montagne al confine con Gibuti. Faceva un caldo! Passato il confine, trovai un altro mio tifoso che mi ospitò e mi offrì soccorso. Passai del tempo in mezzo ai rifugiati: quanta sofferenza!” Dall’Eritrea al Gibuti. Poi fino in Egitto, al Cairo. Il 13 maggio 1978 Luciano si imbarca per l’Italia. “Finalmente presi un aereo per Roma. Arrivato in Italia fui arrestato per problemi legati ai documenti. Protestai violentemente, dicendo ai funzionari che non fosse stato per la presenza italiana in Eritrea io non sarei mai andato lì. Il mio caso li colpì e nel giro di quindici giorni mi dettero il passaporto italiano. Furono molto comprensivi”. La sua famiglia è già in Italia da tempo, Luciano è stato previdente e prima di fare le sue rivelazioni ha organizzato tutto insieme al fratello Italo perché ad Addis Abeba non rimanesse nessuno. Italo, aiutata la famiglia di Luciano a partire, se ne era tornato all’Asmara, dove poi è rimasto fino alla sua morte, il 30 luglio 2021, allenando squadre eritree e aprendo delle attività di ristorazione. Non era lui la preda ambita dal nuovo regime. Luciano, finalmente al sicuro, cerca di riorganizzare la propria vita. Una mattina, da Italo riceve telefonicamente la notizia che si attendeva. Luciano non ha più niente, Menghistu gli ha sequestrato tutte le proprietà. L’officina con una trentina di dipendenti, la villa con piscina e 3000 mq di terreno, tutto. Nuova partenza Dovrà ricominciare da capo e tirare su cinque figli. Ottiene quindi la cittadinanza italiana iure sanguinis, cerca un socio e apre una officina meccanica a Ostia. Lontano dalla dittatura socialista, dall’Africa, dal suo passato. Apre anche una scuola calcio, l’Olimpia Ostia, e con grandi sacrifici – riparando auto ed insegnando calcio – ricomincia a vivere. “All’inizio fu durissima. Mi misi a lavorare, a fare quello che sapevo: il meccanico. Avevo la mia borsa degli attrezzi e chi aveva bisogno mi chiamava e io correvo a riparare”. Il fato lo rimette alla prova quando il quinto figlio, Massimiliano, muore in Etiopia in un incidente stradale e un altro cade in depressione. Ma Luciano combatte come sempre e non molla mai. Una volta in pensione si trasferisce a Marcellina. Scrive un’autobiografia, ‘Mamma ecco i soldi’, concede interviste, si dimostra saggio… “Della vita non capisci mai niente. Ancora non so perché viviamo, perché moriamo, nessuno ha saputo darmi una risposta, quindi sto aspettando...”, e fa la spola fra Marcellina, l’Idroscalo e la foce del Tevere. Dove vive la sua seconda vita. Oggi pochi conoscono la vita cinematografica e letteraria di Luciano Vassallo, leggenda del pallone africano, quattro scudetti etiopi, una coppa d’Africa, Stella d’Africa. E poi il patentino da allenatore conseguito a Coverciano, la panchina della nazionale etiope, il carcere, il rischio di morire, la fuga, il ritorno alla libertà in Italia per sfuggire alla persecuzione del sanguinario dittatore etiope Menghistu, che fece trucidare migliaia di oppositori, funzionari del vecchio governo, sostenitori e persone gradite all’imperatore deposto Hailé Selassié. Tuttavia alla caduta del regime di Menghistu i rapporti fra Luciano Vassallo e l’Etiopia non sono più tornati come prima. “Mi hanno fatto ritornare, mi hanno festeggiato. Mi hanno anche promesso di restituirmi i miei beni. Poi, quando ho visto che non si muoveva nulla ho provato a far valere i miei diritti. Da allora non mi fanno più rientrare. Di fatto i miei beni sono stati confiscati. Ho dato lustro a quel paese. Sono stato l’unico a sollevare una Coppa d’Africa. Dopo tutto ciò che ho fatto per quel Paese, sono stato mal ripagato. Posso fare il tifo per l’Etiopia?”. Luciano Vassallo, detto il ‘Di Stefano d’Africa’, unico calciatore etiope a essere selezionato nella top 50 dei calciatori africani più forti di tutti i tempi, assieme all’amico e compagno in nazionale Mengistu Worku. Figlio mulatto dell’Italia coloniale, perseguitato dalla follia delle leggi razziali e dalla reazione al razzismo. Destinato all’inferno della vita e alla morte per un tradimento mai commesso, diventato eroe indimenticato e poi ripudiato dal suo Paese. Tuttavia sopravvissuto agli infiniti problemi insormontabili che ancora oggi affliggono il Corno d’Africa.

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Lucio Rizzica