Trascinatore della sua squadra nella rimonta sul Barcellona: dall'idea della difesa a tre nata alle 5 del mattino dopo il ko contro la Fiorentina alla mentalità vincente. "Vedere la gioia della gente è una grande soddisfazione. La qualificazione alla semifinale è un'impresa importante anche per il calcio italiano, è bello che l'abbiamo ottenuta noi..."
Trascinatore, e chi se non lui? L’allenatore, e che grande soddisfazione personale per Eusebio Di Francesco, autentico mattatore di una notte che è già entrata nel mito. Chiamatelo DiFra, nome in codice di un agente segreto in missione per conto della Roma, e di Roma, perché come ha giustamente detto dopo la partita: “Abbiamo trascinato uno stadio intero, e tutto questo ambiente merita un dieci e lode come voto”. Dieci, come anche il livello di rischio per una squadra messa in campo con la difesa a tre, e con Dzeko e Schick in campo contemporaneamente. Dieci, da pazzo, come si è definito, dopo aver rifilato un altro 3-0 in casa propria a Ernesto Valverde dopo quello col suo Sassuolo sull’Athletic Bilbao di un anno prima. E dieci, come il numero della maglia che in campo non c’è più, ma guarda tutti dalla tribuna. L’icona e il simbolo di una squadra e di due colori. Perché è partita anche da lì l’avventura in giallorosso di Eusebio Di Francesco, che con Totti ci aveva giocato, e senza di lui ha ricreato la nuova Roma. Quella capace di toccare un traguardo che mancava da oltre trent’anni, anche se ora non vuole certo accontentarsi solo della semifinale.
Sana follia
Era partito dal basso lui, DiFra, all’inizio della sua carriera. Lanciano e Pescara in Lega Pro, poi un salto tra i grandi della A nel Lecce, ma appena 13 partite prima dell’esonero. Dunque il Sassuolo, con cui ha costruito tanto, tantissimo, fino a centrare un’Europa che pareva un miraggio al momento dell’incarico. Miraggio, esattamente come lo era la Champions ed entrare addirittura tra le prime quattro d’Europa, dopo un sorteggio durissimo in un girone di ferro, col Chelsea campione d’Inghilterra in carica e l’Atletico di Simeone che di finali ne aveva già fatte due degli ultimi quattro anni. Risultato? Primi, e chi l’avrebbe mai detto, a pari punti con i blues di Conte, avanti per scontri diretti. Così come nel 2-2 globale contro lo Shakhtar e nel 4-4 contro il Barcellona. Questione di centimetri e di sana follia: “Sono un pazzo, rischiare così tanto in una partita come questa è stato un pericolo, ma tutto questo mi piace”. Dunque la strada per Kiev è tracciata, e ormai non c’è più bisogno di accontentarsi del traguardo semifinale, pur sempre storico. Perché, parola sua, “questo ambiente si è accontentato troppo spesso”. E allora la sua è stata anche una rivoluzione di mentalità. Puntando su gente come De Rossi e Florenzi, molto più che bandiere, su Dzeko come imprescindibile, rischiando Schick titolare, non nel bel mezzo di una stagione d’oro, nella sfida più importante. E virando alla difesa a tre, dopo quasi tutte le partite dell’anno giocate col 4-3-3, adottato fin dai tempi di Sassuolo. Rischi? Tanti, tantissimi, per una decisione presa - parola sempre sua - nella notte dopo la sconfitta contro la Fiorentina, in cui lui non ha dormito fino alle 5 per studiare un metodo per battere anche gli imbattibili. Questione di tattica e di testa. Bastava vederlo dopo ogni gol, anche quello del 3-0 che ha fatto esplodere l’Olimpico e l’intera rosa giallorossa. DiFra a respingere come pungiball i suoi giocatori in panchina: perché la partita non era finita, e lo sforzo mentale era chiamato all’ultimo ostacolo. Di Francesco è stato all’opposto di Valverde, incapace di reagire e far reagire i suoi, e ha vinto la partita senza nemmeno far rendere conto al Barcellona di che cosa gli stesse capitando. E allora ecco il motivo degli applausi, di tutto lo stadio, ma anche in conferenza. Quando l’ex Sassuolo è stato accolto da un’ovazione in sala stampa. Perché l’impresa contro il Barcellona è stata storica. Perché è stata la sua impresa. Ma guai ad accontentarsi proprio ora. Proprio sul più bello.