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Disastro Italia, mea culpa Spalletti: quello che (non) ha detto

l'editoriale

Federico Ferri

A 24 ore dal grande disastro, stando alle dichiarazioni dell’immediato post Italia-Svizzera, e pure alle riflessioni del giorno dopo, si stenta a capire non solo di chi siano davvero le responsabilità – che si prendono tutti, dunque tutti colpevoli nessun colpevole – ma anche quale possa essere una possibile via d’uscita, dalla quale ripartire. Perché qui la bella stagione sembra non arrivare più, a Iserlohn come in Italia, e le previsioni meteo non volgono al sereno.

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Proviamo allora ad andare oltre le parole, anche a quelle della conferenza stampa del presidente Gravina e di Spalletti, con un focus particolare sul ct. La sua Nazionale è stata una delle più brutte che si ricordino in un grande evento, anche perché questa non era composta da reduci, come quella di Lippi nel 2010, campione del mondo in carica. Questa dei campioni d’Europa in carica era invece figlia di un progetto nuovo, sia pure nato solo la scorsa estate, e sulle macerie dell’ennesimo fallimento nelle qualificazioni mondiali. A livello di gioco, l’Italia è stata la peggiore squadra dell’Europeo, e lo stesso si può dire a livello tecnico, fisico e soprattutto di personalità, carattere e cuore: totalmente assenti.

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Un mea culpa non può essere davvero tale se è accompagnato da una avversativa. Ho sbagliato “ma”. E nel post partita ne abbiamo sentiti troppi: la condizione fisica, le conoscenze, il tempo che è mancato. Tutte cose vere, ma comunque parte dell’elenco delle difficoltà da superare e non evitabili per un ct. Dunque resta la netta sensazione che ci sia un non detto, ovvero: io sono un grande allenatore (e su questo, ci permettiamo di aggiungere, non ci sono dubbi), io ho lavorato bene, ho detto quello che dovevano fare, ma la squadra non ha risposto, non mi ha capito. Dunque, estremizzando, possiamo desumere: colpa loro.

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Il problema è che il ruolo di un commissario tecnico, prima ancora che di allenare la squadra, è di selezionarla (sia pure da un parco poverissimo, e non è colpa di Spalletti, ancor peggio se non si lavorerà di più e meglio dal basso sui giovani e sui nuovi italiani, sui figli degli immigrati, come fanno le altre migliori Nazionali). Ma soprattutto, un ct deve mettere in campo la squadra secondo le conoscenze tecniche e tattiche già acquisite nei club. Qualsiasi concetto legato al “mio calcio” – come dicono tanti, troppi allenatori oggi – si scontra in Nazionale con il poco tempo per lavorare (che non vale solo per Spalletti) e con le caratteristiche dei calciatori a disposizione, che sono quelle che sono. E’ parso che gli Azzurri fossero quasi più preoccupati di come giocare, piuttosto che di giocare. E quando, è evidente, a un certo punto non ci hanno capito più nulla, non aiutati dai continui cambi di idee e di formazione, non hanno avuto neppure la personalità di dirlo, di reagire, di confrontarsi in modo costruttivo con il ct. Di fatto, lo hanno subìto. E in campo si sono mostrati impauriti e inoffensivi.

Nel calcio e nello sport si può perdere, e capita anche di perdere in modo pesante. Ma perché non accada di nuovo, non si può non comprendere i propri errori, senza attribuirli a qualcosa o a qualcuno che sta fuori dal proprio cerchio di responsabilità. Spalletti si è scontrato con una realtà figlia della cultura troppo spesso prevalente nel calcio italiano, quella dell’alibi, perché è sempre colpa dell’arbitro, del Var, del calendario avverso, dei giorni di riposo che mancano. Quella del tutto e subito, di giocatori che diventano fenomeni (sui social, non in campo) dopo un paio di partite buone, e di genitori, amici e procuratori che dopo quelle due partite chiedono il ritocco dell’ingaggio, “altrimenti lo porto via”. Quella dei club allergici alla Nazionale e non consapevoli del valore, anche meramente in termini commerciali, delle vittorie degli Azzurri. Quella dell’arroganza, che troppo spesso coinvolge pure gli allenatori, divenuti santoni, protagonisti anche oltre ogni ragionevole merito. Ma il peso della maglia azzurra fa crollare qualunque bluff, così quest’Italia è sprofondata. E purtroppo con lei rischia di andare a fondo anche una generazione di calciatori, e di più, un movimento intero e soprattutto il tifo e la passione di chi ama il calcio, sorpassato a destra e sinistra dai risultati degli Azzurri di altri sport, in un’età dell’oro italiana, dalla quale il pallone sembra essere rimasto ai margini.

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Qui non si tratta di chiedere dimissioni (che comunque non sono state prese in considerazione, come è stato chiarito da Gravina e da Spalletti), anche perché quello che potrebbe esserci dopo non è garanzia di miglioramento, soprattutto se il futuro fosse figlio dei soliti regolamenti di conti, tra leghe, federazione e politica che non parlano più di calcio, del gioco. E allora niente populismi e giustizia sommaria, d’accordo. Ma almeno parole chiare e assunzioni di responsabilità che si traducano in esempi e fatti concreti, questo sì. Perché perdere così male è davvero troppo ed è addirittura peggio di come siamo.