Europei 1968, la storia della 3^ edizione vinta dall'Italia

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Fabrizio Moretto

Nel torneo organizzato 'in casa' l'Italia fece il colpaccio e vinse gli Europei del 1968. Il lancio della monetina e il replay della finale segnarono un'edizione disputata nel mezzo delle contestazioni giovanili e dei primi albori di un Sessantotto che segnò i decenni successivi...

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 “Una generazione gagliarda”. Così recitava l’occhiello del Corriere dello Sport per descrivere quella squadra capace di far cantare un Paese intero e cancellare l’atroce delusione contro la Corea del Nord avvenuta solo due anni prima. Ripartire dopo le batoste, punto di forza che ci ha spesso caratterizzato e in cui non fece eccezione l’Europeo del 1968, giocato agli albori di un contesto ricco di animosità, voglia di libertà, spirito rivoluzionario. Quel ‘Movimento del Sessantotto’ fatto di proteste, diritti, rivendicazioni che avrebbe segnato gli anni successivi e che sarebbe stato presente anche nello sport, con episodi destinati a fare storia come il pugno chiuso, nel guanto nero, di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico, avvenuto a pochi mesi di distanza. Aria rovente che seppe trovare il suo freno inibitore nella fase finale del torneo, organizzata proprio in Italia. Un nome nuovo – Campionato Europeo sostituì il precedente Coppa delle Nazioni Europee -, e un format nuovo, contraddistinto per la prima volta da una fase a gironi nelle qualificazioni, con una sola qualificata per gruppo agli spareggi e poi il via alle semifinali. E così, mentre i giovani scendevano in piazza, un po’ di quella sfrontatezza il Ct Ferruccio Valcareggi se la portò con se, chiamando all’appuntamento principale un Pierino Prati in rampa di lancio (capocannoniere della Serie A vinta dal Milan) e un ventenne Pietro Anastasi, siciliano figlio di operaio ed espressione di quella voglia di rivalsa percepibile negli occhi e nel sangue di tanti ragazzi. Il motore in più per rendere tangibili obiettivi apparentemente lontani. Fu un’eredità del lavoro degli ultimi mesi, dove il nuovo presidente federale Artemio Franchi collaborò alla creazione di quello che diventerà un fiore all’occhiello, come il centro tecnico di Coverciano, e alla risalita del calcio nostrano.

Il Corriere dello Sport 1968

Generazioni a confronto

Italia, Inghilterra, Jugoslavia e Unione Sovietica furono le quattro nazionali che si giocarono le semifinali, ma pagine degne di nota furono scritte anche nella fase delle qualificazioni. A partire da quel ragazzino di 21 anni (ma con numeri realizzativi già da veterano) di nome Johan Cruyff, capelli lunghi e sguardo ammaliatore, simbolo - sul campo - di una beat generation anticonformista e innovatrice, pronto a rivoluzionare per sempre il calcio ma frenato in quell’occasione dai gol della più navigata stella ungherese Farkas, trascinatore della sua nazionale nella prima fase a gironi di qualificazione. Molto più in discesa fu, invece, il cammino azzurro, dominante nel raggruppamento completato da Romania, Svizzera e Cipro, almeno fino al momento degli spareggi, quando a Napoli servì un 2-0 firmato Prati-Domenghini per ribaltare la sconfitta per 3-2 in Bulgaria all’andata. Una qualificazione da batticuore, un po’ come quella che ottenne l’Inghilterra di Bobby Charlton, difendendo con sofferenza e tenacia l’1-1 di Hampden Park contro la Scozia – davanti a 130.711 spettatori (tuttora un record per gli Europei) - in un girone tutto britannico.

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Scozia-Inghilterra 1968

Il 'doppio' tiro della monetina e la testa fortunata di Facchetti

Episodio che diventò la parola chiave delle ultime quattro (poi divenute cinque, ma ci arriveremo) decisive partite del torneo. Mentre la Jugoslavia eliminava l’Inghilterra campione del mondo con il mancino vincente di bomber Dzajic (entrambi sarebbero arrivati quell’anno sul podio del Pallone d’Oro, battuti solo da George Best), l’Italia si ritrovò a sfidare – e ringraziare – la sorte. Lo strenuo 0-0 contro l’Urss in semifinale, giocato sostanzialmente in 10 per tutta la partita a causa dell’infortunio iniziale di Rivera e dell’impossibilità di fare sostituzioni, portò infatti a qualcosa che nella competizione mai si era vista e mai si sarebbe ripetuta: la regola di allora non prevedeva i rigori per decretare il passaggio del turno, ma un più fatidico lancio della monetina. I due capitani, Facchetti da un lato e Scesternev dall’altro, vennero portati nello spogliatoio dell’arbitro Tschenscher che estrasse una monetina da 5 franchi svizzeri per far decidere la finalista al più classico dei testa o croce. Facchetti scelse la testa e le sensazioni di quei momenti si ritrovano direttamente nelle parole del capitano azzurro, cominciando dal primo tentativo a vuoto: “C’era da non crederci, la monetina si fissò in una fessura del pavimento e l’arbitro stesso la estrasse e subito la rilanciò – raccontò -. Questa volta cadde di piatto e così rimase e io in un lampo vidi ch’era testa e feci un balzo dirigendomi verso il sottopasso che dava sul campo. I miei compagni capirono dal mio atteggiamento che avevano vinto e così uscimmo sul prato a braccia alzate e la gente di Napoli impazziva”. Teorie del complotto non risparmiarono quel tiro della sorte, prontamente dissipate però dall’euforia azzurra, mai così vicina alla prima affermazione continentale.

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La calda notte di Roma

L’8 giugno 1968 fu la data della finale. Non c’era un delitto da risolvere, come nel caso dell’ispettore Tibbs (premio Oscar come miglior film quell’anno), ma l’aria – oltre che dalle temperature – era resa ancora più calda dalle tensioni tra studenti e polizia che si ripetevano a Milano (proprio quando sul grande schermo I banditi a Milano – tratto da una storia vera ma completamente diversa da questa - si prendevano il David di Donatello) nel mentre di sgomberi e manifestazioni. Una situazione che rimbalzò anche nella capitale, dove tuttavia nei pressi dell’Olimpico si assaporava anche il profumo della storia. Col futuro campione del mondo Zoff tra i pali, la leadership di Burgnich e la ‘meglio gioventù ‘davanti, le speranze di farcela erano tante ma di fronte c’era uno squadrone slavo che riuscì a imporsi per quasi tutta la partita. Fu un’altra punizione di Domenghini, al minuto 80, a riequilibrare il punteggio dopo l’iniziale vantaggio del solito Dzajic e proseguire la sfida. Il pareggio dopo i supplementari questa volta non portò ai rigori ma a una ripetizione dell’incontro – come regolamento prevedeva -, eventualità rimasta unica nella storia degli Europei.

Il rivoluzionario turnover di Valcareggi e la 17 di Riva

Il replay dell’ultimo atto andò in scena, sempre all’Olimpico, due giorni dopo. Valcareggi sperimentò una prima forma di turnover che smosse tutto: in un’epoca ancora senza sostituzioni, decise di effettuare una mini rivoluzione con ben cinque cambi rispetto alla gara prima, inserendo Riva, Rosato, Salvadore, De Sisti e Mazzola al posto rispettivamente di Prati, Castano, Ferrini, Lodetti e Juliano. Una mossa azzardata quella di affidarsi a “Rombo di Tuono” visto che non era praticamente mai sceso in campo dal marzo precedente a causa di una fastidiosa pubalgia. In 12 giri di orologio l’attaccante ripagò la fiducia, sbloccando la finale: partì sul filo del fuorigioco e col suo mancino in diagonale trafisse il portiere. Un viaggio sulla linea dell’offside che generò altre polemiche dagli avversari e che trovò giustizia anni dopo, quando la moviola dimostrò la bontà della posizione di Riva. Un Riva col 17 sulle spalle, una maglia conservata come un cimelio e una storia che merita un capitolo a parte: GiggiRiva riuscì a sfidare anche la cabala e ad avere la meglio su tutto. Aveva ‘tradito’ il suo n. 11 solo una volta l’anno prima, sempre a Roma, in un’amichevole col Portogallo e il destino col 9 sulle spalle gli aveva riservato un bruttissimo infortunio: la frattura del perone della gamba sinistra. Quella finale un anno dopo ripagò con gli interessi quel momento di dolore.

I tifosi dell'Italia all'Olimpico

Italia agli Europei 1968: il primo trionfo azzurro

Il 2-0 finale di Anastasi fu la ciliegina sulla torta nella notte che portò l’Italia sul tetto d’Europa. Una Nazionale rivoluzionaria nella sua compostezza, fatta di sacrificio e umiltà, attorniata da un’unità che avrebbe fatto da contraltare alle divisioni e alle lotte che avrebbero successivamente cambiato il nostro Paese.

Facchetti