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Boateng a I Signori del Calcio: "Grazie al calcio sono migliore. Da bimbo? Volevo cantare"

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 Sabato 2 febbraio alle 23.30 Boateng è protagonista dell'appuntamento con "I Signori del Calcio" (su Sky Sport Uno). L’attaccante parla in esclusiva della sua vita privata, del rapporto con la famiglia, del razzismo, dello scudetto con il Milan. E infine, del Sassuolo e del sogno Barcellona

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Nella splendida cornice del Palazzo Ducale di Sassuolo, Prince Boateng ripercorre le tappe più significative della sua carriera e parla del sogno Barcellona, finalmente realizzato. L’intervista esclusiva a "I Signori del Calcio" in onda sabato 2 febbraio alle 23.30 su Sky Sport Uno e domenica 3 febbraio alle 12 su Sky Sport Serie A, alle 14.30 e 20 su Sky Sport Football.

È possibile, tu che hai visto tanto calcio, unire il bello al risultato? E cosa è il bello del calcio?
"Penso che senza calcio non sarei intelligente come lo sono oggi. Perché tutti pensano che la parola calcio voglia dire stare in campo o fare un gol o un colpo di tacco. Però, a me ha aiutato a diventare più intelligente, più aperto e imparare tante lingue. Il calcio è qualcosa di più di tirare in porta e fare gol. È questa la cosa che bisogna sapere, anche per i giovani. Perché oggi vediamo Neymar fare un numero e tutti lo applaudiamo. Certamente lui è uno dei giocatori più forti, vogliamo essere tutti come lui. Però, il calcio è qualcosa di più: un’occasione per imparare le lingue e arrivare ad un livello mentale che, forse, non avresti mai pensato di poter raggiungere".

Possiamo dire che in momenti difficili come questi, il calcio oltre ad essere aggregazione, integrazione e occasione di crescita personale, può essere anche un’occasione di crescita sociale? Il tuo impegno per i giovani è anche in questo senso?
"Certamente, perché con il calcio cresci in un mondo diverso. Perché conosci diverse lingue, vedi diversi colori e diverse culture. Dobbiamo sfruttare di più questa cosa, perché, come ho detto, tanti vedono il calcio come un modo per fare soldi velocemente e di diventare famoso. Certo, se sei bravo diventa tutto così semplice. Però, anche i giocatori che hanno, forse, meno talento hanno la stessa possibilità di venire a contatto con tante altre culture e religioni. Questo lo dobbiamo sfruttare e penso che non lo facciamo abbastanza come movimento calcistico".

Il sogno da bambino?
"E' sempre stato fare il cantante. Io volevo sempre stare sul palco, avere la gente davanti a me e solo per me. Fare divertire la gente, farla piangere ed emozionare: questo era il mio sogno quando ero bambino. Avevo tutta la casa piena di poster di cantanti: Michael Jackson, Usher, 2Pac. Sì, questo era il mio sogno. Poi mi è arrivata la palla, l’ho stoppata al petto e ho detto “posso fare anche questo”.

Tu preghi? Sei religioso?
"Credo sicuramente in qualcosa di più grande che sistema tutto per noi. Però, non prego molto. A mio figlio Maddox ho insegnato a pregare, anche se io non prego di solito. Voglio che lui preghi e che creda perché è molto importante, poiché ti aiuta in tantissime cose".

La storia dei due fratelli è curiosa: perché si dividono non soltanto in campionato, ma anche in nazionale: perché Jerome viene chiamato da Löw nella nazionale tedesca e tu scegli il Ghana...
"Io ho conosciuto Jerome quando avevo 11 anni, molto tardi. Perché, come dicevo, siamo una famiglia allargata. Lui giocava in una piccola squadra a Berlino e io invece all’ Hertha Berlino. Ho convinto il nostro allenatore a prenderlo, perché era mio fratello, ovviamente, ma al tempo stesso era già molto forte. Abbiamo iniziato così a giocare un po’ assieme, però, dopo pochi anni le nostre strade si sono divise perché lui aveva un’altra visione di gioco. Io sono andato in Inghilterra e lui è rimasto in Germania, all’ Amburgo. Assieme abbiamo giocato anche in Nazionale, facendo tutti gli under tedeschi: under 18, under 19, ecc…. Però, è arrivato il momento in cui non riuscivo più a vedere un mio futuro nella nazionale tedesca, siccome in Germania ero conosciuto come un “enfant terrible”, ero già classificato come il “bad boy”. Ho fatto delle cose da giovane di cui oggi, ovviamente, non vado molto orgoglioso. Seppur facciano parte di me, non erano molto positive. In Germania sono molti “dritti”, molto corretti, e a loro non è molto piaciuto questo mio comportamento. Così ho visto la strada davvero lunga per entrare nei piani di Löw, quindi mi sono detto: mi vogliono in Ghana e io voglio giocare in Nazionale. Io fino a quel momento non mi ero mai sentito ghanese e ho pensato che quella potesse essere una buona possibilità, sia a livello personale, sia a livello mentale. Per scegliere mi sono affidato molto a me stesso, alle mie sensazioni, perché per il mio cuore era una scelta che poteva essere molto giusta. E alla fine ho fatto una scelta giustissima".

Nel 2010 arriva il Milan e l’Italia
"Sono cresciuto e sono diventato un uomo al Milan perché giocavo con uomini, non giocavo più con ragazzi, lì giocavo con uomini veri. Questa idea di diventare uomo mi ha fatto sempre un po’ paura. Perché pensavo che quando sarei diventato uomo avrei dovuto smettere di giocare e avrei dovuto trovare un lavoro. Lì mi ha aiutato a diventare uomo. Ci sono stati tanti giocatori che mi hanno mostrato come si fa a esserlo".

Quale è stato il momento più importante e decisivo per lo scudetto?
"Lo scudetto l’ho vissuto in ogni partita. Veramente non ho mai pensato allo scudetto, poi nell’ultimo mese certamente mi sono detto: è lì e lo dobbiamo prendere. Quante emozioni, era veramente come un film! Quando ha fischiato l’arbitro io non sapevo cosa fare, perché era il primo trofeo importante vinto come protagonista e non sapevo davvero cosa fare. Ho abbracciato tutti. Tantissime emozioni, bellissimo".

In Champions League hai fatto un gol importantissimo, il 2 a 0 contro il Barcellona. Proprio nella porta sotto la curva.
"Un gol fantastico! Contro il Barcellona, la squadra più forte del mondo e con i giocatori più forti del mondo. È stato un momento felice".

Il razzismo e gli ululati nel calcio. Cosa ci può fare?
"Certamente si possono fare tante cose, io penso che l’ultima cosa che debba fare un giocatore è fermarsi. Io l’ho fatto dalla rabbia e dall’emozione. Però non dobbiamo arrivare a questo perché siamo esempi e idoli per i bambini e non può essere un esempio per un bambino “fermare il gioco” quando a te non piace una cosa. Dopo, stiamo parlando di razzismo e di non avere rispetto per una persona. Ci sono tante cose che possiamo migliorare come società, come calcio in generale. Possiamo fare molto di più. Se significa aiutare e dare segnali abbracciandosi ad ogni partita o ogni giorno lo dobbiamo fare. Chiudere lo stadio è una sconfitta per tutti perché se alla fine chiudi uno stadio hanno vinto gli altri".

Il Sassuolo?
"È arrivata questa possibilità di lavorare con De Zerbi in una squadra conosciuta perché è una società molto, molto, seria. Nella mia vita ho avuto tanti up & down, su e giù: per quello ho pensato di andare in una squadra e in una società tranquilla, che mi aiuta a stare un po’ più tranquillo. Poi, certamente, volevo lavorare con De Zerbi".

Barcellona o Real Madrid?
"Barcellona! Perchè gioca un calcio che vogliono giocare tutti. Per quello, per lo stadio, per il tiki-taka, per come vanno. Il Santiago Bernabeu è bellissimo, però il Camp Nou sembra una onda, che la gente si muove con la palla. È strano! Io la partita con il Milan l’ho fatta in amichevole al Camp Nou e già lì l’ho sentito. A Camp Nou c’è questa cosa: quando siamo andati con il Las Palmas e abbiamo perso 5 a 0 non mi sono arrabbiato, perché senti questa onda e tu c'eri".