"Vincere (contro la Norvegia) si può". Anche in 10. Il racconto della sfida di Usa '94

Era successo che l’Italia di Arrigo Sacchi, in assoluto la Nazionale più divisiva della nostra storia per il carico rivoluzionario del Ct di Fusignano, avesse perso contro l’Irlanda la prima gara del girone mondiale, il 18 giugno 1994 a New York. Una brutta partita giocata in trasferta, perché i discendenti degli immigrati irlandesi si erano dimostrati più rapidi e determinati della gente di Little Italy, e avevano fatto man bassa dei biglietti. Il Giants Stadium, quello che oggi si chiama MetLife, era interamente pavesato di verde, e la cosa aveva finito di innervosire gli Azzurri, molto coinvolti dal clima pesante della vigilia. Ci aveva poi messo del suo Pagliuca, colto fuori porta dopo 11 minuti da un tiro spiovente di Houghton, e il resto della gara era stato un inutile andare a sbattere contro il muro d’Irlanda. Così l’Italia, partita tra fanfare e scongiuri, s’era spesa subito il bonus: non si avanza in un Mondiale con più di una sconfitta. E la seconda gara, quella contro la Norvegia che invece era partita bene battendo il Messico, incombeva. In un clima di grande depressione, Sacchi confermò comunque il giorno libero post-partita: molti Azzurri avevano approfittato della disponibilità della Federazione a favorire i viaggi dei parenti, e così l’hotel Michelangelo, all’incrocio fra 7th Avenue e 51esima, era diventato il quartier generale alternativo rispetto al paesino del New Jersey, Martinsville, in cui la squadra era in ritiro. Ma la grande idea di quel giorno difficile venne a Renzo Arbore, in tournée con l’Orchestra Italiana, che invitò gli Azzurri al concerto che quella sera si sarebbe svolto al Madison Square Garden. Lo spettacolo, che andò in diretta su Rai1, era originariamente pensato per celebrare la Nazionale, ma in un’altra situazione Arbore avrebbe accolto in platea il presidente della Federcalcio Matarrese, qualche dirigente e notabile, e al massimo un paio di giocatori in rappresentanza della squadra. Capito al volo il clima, lo showman pugliese si attrezzò per ricevere l’intera rosa con tanto di parenti, e in effetti la gran parte degli Azzurri - almeno di quelli che avevano fatto la gita a Manhattan - partecipò all’evento. Arbore e i suoi musicisti furono bravissimi, perché se già il repertorio di canzoni napoletane induceva all’allegria, il piglio che diedero al concerto fu da festa popolare, con tutti in platea a cantare, e qualcuno anche a ballare. La chiusura fu un’improvvisazione di Arbore e del suo sodale Catalano , che sulle note di ‘Ma la notte no’, la loro hit del periodo, cantarono “Vincere si può”, suscitando l’ilarità persino di Sacchi. Quel che si dice una serata spensierata, e visto il momento non era per niente scontato: i giocatori trovarono ad attenderli fuori dal Madison due pulmini per rientrare nel New Jersey, e avevano davvero altre facce rispetto a quand’erano entrati nel grande palazzo dello sport newyorkese. Quella ricarica morale fu assolutamente necessaria, perché le montagne russe emotive del secondo match restano fra le più vertiginose della storia Azzurra. Era una discreta Norvegia, quella che dovevamo battere a tutti i costi. In porta c’era Erik Thorstvedt, miglior portiere mai avuto, padre di Kristian che oggi gioca mezzala nel Sassuolo. La difesa era imperniata su Rune Bratseth, colonna del Werder Brema, all’epoca una star, e presentava Alf-Inge Haaland, il papà di Erling. A centrocampo c’era Lars Bohinen, papà di Emil visto a Venezia e Salerno. In attacco il pesante Jostein Flo e il centravanti Fjørtoft, niente male. È su di lui che Pagliuca esce alla disperata al 21’, perché ha evitato il fuorigioco e gli sta venendo incontro da solo, palla al piede: l’uscita dell’azzurro è veemente, Fjørtoft alza la sfera per mandarla in porta oltre il suo corpo disteso, Pagliuca intercetta comunque di mano, e la devia. Intervento provvidenziale, ma nell’impeto il nostro portiere è finito totalmente fuori dall’area. L’arbitro tedesco Krug non ha scelta: cartellino rosso. Abbiamo perso la prima partita, e nella seconda - che dobbiamo vincere - siamo sotto di un uomo dopo 21 minuti. Improvvisamente ci manca la terra sotto i piedi. Ho sempre ammirato la risolutezza con la quale Arrigo Sacchi, che doveva togliere un uomo per mandare in porta Luca Marchegiani, levò Roberto Baggio. Non parlo della scelta, discutibile allora come oggi, ovvia per i seguaci del suo calcio tattico , blasfema per gli amanti dei grandi giocatori . Parlo della rapidità con la quale venne presa, e in seguito gestita quando il labiale di Roberto fece il giro del mondo. In tribuna stampa eravamo tutti sotto choc. I primi a reagire furono i vecchi giornalisti - in gran parte oppositori di Sacchi - che cominciarono anche loro a dargli del matto e dell’invasato. Mentre noi giovani dell’epoca, che invece da Arrigo eravamo affascinati, comunque non trovavamo le parole per definire quella sostituzione. Coraggiosa o incosciente? Coraggiosa, a giudicare dalla reazione degli Azzurri. È possibile che la Norvegia si sia sentita troppo sicura della qualificazione, di certo non fece molto per sfruttare la superiorità numerica, lasciando che l’Italia si riposizionasse in un 4-4-1 subito compatto ed elastico, pronto a ripartire grazie al sacrificio di Beppe Signori, sempre in assistenza al centravanti Casiraghi davanti, ma disposto a spendersi in copertura come non mai sulla fascia sinistra. E siccome dietro c’era la difesa del Milan, col solo Benarrivo sull’out destro al posto di Tassotti, il castello restava in piedi senza particolari scossoni. Peccato però che il pari non bastasse, dopo il ko dall’Irlanda occorreva vincere la seconda partita. E in apertura di ripresa, al minuto 49 per l’esattezza, una nuova tegola pesantissima si abbatte sul capo di Sacchi: Franco Baresi alza il braccio e chiede la sostituzione, in un tackle al limite dell’area gli è appena saltato un menisco. Il capitano non lo sa ancora quando prova a farsi forza sulle ginocchia, ma lo sospetta. Si rivolge verso la panchina, fa due passi e poi si blocca, deve essere sorretto, esce fra urla di dolore, è un momento drammatico. Entra Gigi Apolloni, corre a posizionarsi al centro accanto a Costacurta, che lo guida nei primi minuti, estremamente emotivi. Sembra un videogioco: a scadenze regolari diventa sempre più difficile. Si procede così fino al 68’ quando Haaland, che sbriga il lavoro opposto a quello che renderà grande il figlio, abbatte Signori sulla fascia, esasperato dal suo dinamismo. Cartellino giallo - confesso di aver sperato nel rosso, ma non era così grave - punizione dal lato sinistro, gli Azzurri più alti si piazzano a centro area perché il tempo sgocciola e siamo ancora 0-0. Dal piede mancino di Signori parte una palla tesa. Rileggendo un articolo di quel giorno, scopro di aver definito Dino Baggio “un’anima da seminarista in un corpo da marine”. Beh, era proprio così Baggione, come lo chiamavamo per distinguerlo da Baggino: tanto timido, cortese, per certi versi ruspante nel tratto caratteriale, così Dino era fisicamente una forza della natura. Il suo stacco è imperioso, il rendez-vous con la palla tesa di Signori perfetto, la deviazione violenta, e vincente. 1-0, ed è lì, in quel preciso momento, che si scoprì come la magra di pubblico contro l’Irlanda avesse toccato qualche corda d’orgoglio nella nostra comunità, perché improvvisamente il giubilo rende lo stadio completamente azzurro. Non smetteranno più di urlare, perché i 25 minuti che rimangono fra tempo regolamentare e recupero diventano logicamente un assedio. Sacchi usa il terzo cambio per inserire Massaro al posto dell’esangue Casiraghi, bisogna mantenere qualcuno davanti che tenga il pallone e faccia rifiatare i difensori. Riletta oggi la situazione era drammatica, perché a sinistra Maldini faticava a stare in piedi per i crampi, e davanti a lui Signori copriva senza più tentare la minima sortita, perché davvero non ne aveva più. Sull’altra fascia Benarrivo era protetto da Berti, entrambi interpreti più offensivi ma non era certo il momento di sottilizzare, e la coppia Baggione-Albertini doveva fare da filtro prima che Billy e Apolloni organizzassero l’ultima difesa centrale davanti a Marchegiani. Un fortino sostenuto da eroi ormai esausti, ma “vincere si può”: l’insegnamento di Renzo Arbore non era andato disperso. Ricordo di quel tardo pomeriggio americano la corsa in zona mista, Signori che viene aiutato a salire sul pullman tanto era stanco, le risate di Baggione che in quel giorno più che un marine pareva un alpino, il viso rabbuiato di Baggino che Billy - regista di molte dinamiche da spogliatoio - aveva subito preso in carico, a tenerlo distante dalle intuibili polemiche. Contro la Norvegia il nostro Mondiale era appena incominciato. Chissà che pure stavolta, in qualche modo, ci porti bene.

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Paolo Condò