La favola del portiere bravo con i piedi: quanto è importante e quanto no

“Dovrebbe essere alto all’incirca un metro e ottantadue, senza barare. L’altezza suscita un’impressione di forza, oltre a consentire al portiere di gestire i tiri alti e quelli lunghi con relativa facilità, mentre un individuo meno imponente o più bassino risulterebbe svantaggiato. D’altro canto, un portiere alto e possente lo è, rispetto a un avversario più piccolo e scattante, quando gli si richiede di lanciarsi velocemente a terra o di parare tiri bassi”. Così scriveva l’ex portiere gallese Leigh Richmond sul “Times” nel 1906, passaggio ripreso dallo storico del calcio Jonathan Wilson nella sua opera dedicata ai numeri uno per mostrare in poche righe come possa cambiare un ruolo, come cambi il mondo. Trascorso oltre un secolo ci accorgiamo che Yann Sommer oggi è ritenuto un portiere “bassino” e che nel valutare un portiere non ci limiteremmo a fattori come l’abilità nel “gestire tiri alti” o nel “lanciarsi velocemente a terra” per parare quelli bassi. Il portiere bravo tra i pali non ci basta più, nel calcio moderno. Oggi lo vogliamo anche bravo con i piedi. Mica noi, eh; al tifoso medio, quello che guarda la partita , basta ancora che pari. Che non si scansi, che ci metta anche il pugno se è in difficoltà e che il piede lo usi giusto per allontanare il pericolo dall’area con un bel calcione, a mo’ di mazza da golf. Senza ricami. Questa era il nostro portiere, da piccoli. E poi cosa è successo? Succede che il calcio cambia, si evolve, e con lui i ruoli. E se non gli stai dietro sei tagliato fuori, come la giraffa con il collo corto di Darwin. Oggi gli allenatori pretendono che il portiere partecipi alla manovra, se non addirittura che la avvii con tocchi precisi o verticalizzazioni taglienti. Il riferimento, per nulla velato, è alla vicenda di Gigio Donnarumma, che non sarà il primo al mondo con la palla tra i piedi ma che nell’ultima stagione ha dimostrato di esserlo tra i pali, con le mani. Ora, al di là dello strappo che si è creato in casa Psg tra il portiere italiano e il club , la domanda che ci poniamo è: quando, di preciso, abbiamo iniziato ad accettare l’idea che sia quasi superfluo che un portiere sappia parare? I più ricondurranno il tutto a Guardiola. Colpa di Pep, del suo tiki-taka, delle sue costruzioni dal basso. Tanti allenatori – colleghi suoi – l’hanno indicato come un dolcissimo male del calcio moderno: mostrandoci la delizia di quelle trame ha portato molti a pensare che sia possibile replicarle a prescindere dagli interpreti . E, tornando al portiere, Guardiola ha dimostrato che se lo si usa come se fosse un giocatore di movimento, alla fine è come se giocassi con un uomo in più. Nel 2012, dunque in piena era Guardiola, sempre Jonathan Wilson scriveva: “Ormai, almeno a certi livelli, è piuttosto raro imbattersi in portieri che non siano capaci di controllare l’area di rigore e al contempo sentirsi a proprio agio con la palla tra i piedi oltre, naturalmente, a saper parare. È la capacità di giocare la palla, quello che davvero contraddistingue il portiere dei giorni nostri rispetto al suo equivalente di un ventennio fa”. Prima ancora della rivoluzione guardioliana, però, ci fu quella del “retropassaggio”. È quello – e siamo nel 1992 – il momento in cui la figura del portiere con i piedi inizia a diventare più ricercata: quando all’improvviso il regolamento vieta loro di ricevere con le mani il retropassaggio di un compagno di squadra, assistiamo a scene di vero e proprio panico nelle aree di rigore, per diverso tempo. Portieri che devono frenare il loro istinto atavico, altri che non ce la fanno e cadono in fallo; attaccanti che d’improvviso si fanno furbi e accelerano il passo per spaventarli – ché ora ce l’hanno loro il coltello dalla parte del manico; tifosi che accompagnano ogni retropassaggio con ansiogeni oooh; allenatori che di corsa allestiscono esercitazioni mirate per far perdere loro il vizio, come quando togli il ciuccio a un bimbo. Perché questo sono le mani per un portiere: rifugio, casa. Guardate un po' che cosa si poteva fare prima del 1992... Anni dopo, ai Mondiali del 2014, il torneo si chiuse con una curiosa statistica: venne fuori che Manuel Neuer, portiere della Germania campione del mondo e premiato con il “Guanto d’oro” aveva realizzato più passaggi di Lionel Messi, premiato come il miglior giocatore del torneo: 244 a 242 per il tedesco, che nella partita contro l’Algeria aveva disegnato una heat map degna di un libero Anni Settanta. Ancora Wilson : oggi “la maggior parte dei portieri appaiono naturali sulla palla tanto quanto i difensori centrali, generalmente capaci di utilizzare entrambi i piedi e talmente sicuri che spesso gli attaccanti non si prendono nemmeno la briga di chiuderli. Si tratta di un passo fondamentale nello sviluppo della figura, perché la sua storia è la classica vicenda dell’esule che tenta di ritrovare la strada di casa. È uno dei miti più suggestivi che esistano: quello di Ulisse che cerca di tornare a Itaca dopo la caduta di Troia, quello di Nala, della mitologia indù, che cerca Damayanti, quello degli hobbit che rientrano alla Contea dopo le avventure con l’anello, quello di Massimo che, nel Gladiatore, con la morte si riunisce alla moglie e al figlio”. In maniera meno filosofica, Wilson parla anche di processo di “reintegrazione” del portiere, un tempo quasi corpo estraneo, esule, capro espiatorio all’occorrenza. Ma la necessità di prendersela con qualcuno, scrisse Charlie Campbell, è sempre esistita, sin dall’inizio dei tempi: “Adamo diede la colpa a Eva, lei la attribuì al serpente e da allora è andata avanti così”. E anche tutti i pensatori più importanti si sono trovati un parafulmine: Marx ha incolpato il sistema capitalistico, Freud il sesso, Dawkins la religione... I calciatori invece tendono a prendersela con il portiere. E se non è bravo con i piedi è ancora più semplice.

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Vanni Spinella