Una squadra che vince per sette anni di fila passa doverosamente alla storia. Paolo Condò analizza gli aspetti che hanno portato i bianconeri a dominare in Italia acquisendo un vantaggio sulle avversarie che non sarà affatto facile annullare
La spiegazione del ciclo di vittorie più lungo nella storia del campionato italiano - i sette scudetti consecutivi di questa Juventus - è facilmente desumibile da una notizia che non è nemmeno una notizia, visto che la conosciamo da più di un anno. Al termine del torneo Mattia Caldara, classe ‘94, e Leonardo Spinazzola, classe ‘93, si trasferiranno da Bergamo a Torino. Entrambi nazionali, nelle ultime due stagioni i due giovani sono stati fra i segreti della crescita dell’Atalanta da piccolo prodigio di provincia a squadra dal solido status internazionale; ma ciò che più interessa a Marotta è che i due, giocando con continuità non solo in Italia ma anche in Europa, abbiano maturato l’esperienza che dovrebbe permettere loro di inserirsi nella Juventus senza patire il salto. Sono due titolari di alto livello che si uniscono ai pluricampioni d’Italia senza nemmeno passare per il mercato: Barzagli (destinato a fare da chioccia) e Asamoah sono già stati sostituiti grazie alla programmazione.
La differenza fra la Juve e le sue avversarie è essenzialmente questa: la capacità del club di approfittare del circolo virtuoso dei successi passati e presenti per preparare con calma e raziocinio i successi futuri. Finché non commette uno o verosimilmente più errori gravi, la Juve ha un consistente vantaggio da amministrare: per contenderle lo scudetto in un modo che non si vedeva dal 2012 (l’opposizione del Milan al primo titolo di Conte), il Napoli quest’anno si è dovuto inventare la stagione migliore della sua storia recente. E non è bastata. Di più: siamo stati a questionare sul livello estetico del gioco di Allegri - convinti che il talento a disposizione potesse produrre di meglio - mentre quello metteva assieme numeri da record non solo nei (pochi) gol subiti ma anche nei (tanti) realizzati. In fondo, si reclamava soltanto una riconoscibilità più forte: una squadra che vince per sette anni di fila passa doverosamente alla storia, e la storia è innanzitutto qualcosa che andrà raccontata.
Il circolo virtuoso di cui si diceva è nato con lo stadio di proprietà, ha preso quota con i denari della Champions League ed è entrato in orbita con l’operazione Pogba: tappe di una crescita che ha portato il club bianconero prima a prevalere in Italia, poi a dominarla e infine a competere al massimo livello anche in Europa, contro fatturati più consistenti. Si diceva della necessità di non commettere errori per mantenere il vantaggio acquisito; in questo senso il mercato chiave è stato quello del 2016, perché l’acquisizione di Higuain e Pjanic non soltanto ha elevato il valore della rosa, ma ha anche tenuto a distanza le avversarie - Napoli e Roma - che più si stavano avvicinando. L’inevitabile effetto collaterale è stato quello di finanziarle (soprattutto il Napoli, con la clausola più che rilevante del Pipita), ma nel computo delle due stagioni il bilancio tecnico-economico delle due operazioni è ampiamente in attivo. Higuain ha reso secondo le aspettative, e la Juve non ha commesso l’errore in cui speravano le sue rivali. Più o meno analogo il discorso su Dybala, per quanto reduce da una stagione altalenante: nella filosofia Juve l’argentino è l’erede di Pogba, ovvero un crac da “spendere” sul mercato internazionale in caso di necessità o di convenienza. L’importante è che dietro ci sia sempre un talento in rampa di lancio: Bernardeschi potrebbe essere il prossimo nella linea dinastica più nobile.
Quando i risultati arrivano in modo così copioso, è chiaro che al vertice del club esistono dirigenti con una visione. Quella di Andrea Agnelli è l’autofinanziamento, tema introdotto alla Juve da suo padre, Umberto, dopo il lungo regno dello zio Gianni, che essendo vissuto in un altro calcio lo frequentava con l’animo del mecenate: se si innamorava di un giocatore (pensate a Platini), lo acquistava coprendo personalmente la spesa. Andrea ha ripreso l’opera del padre portandola a termine: per capirne la portata, basterà ricordare che le altre due grandi casate calcistiche del nord industriale, i Moratti e i Berlusconi, sono state costrette a vendere l’Inter e il Milan a imprenditori del Far East. Non riuscivano a riportare i loro club alla competitività, e l’autofinanziamento restava una chimera lontana. Agnelli invece ce l’ha fatta grazie a uno staff nel quale spiccano la competenza finanziaria di Giuseppe Marotta - scuola Milan di una volta, e non è un caso - e quella tecnica di Fabio Paratici, invisibile ai media per scelta ma ben noto ai suoi concorrenti, che se lo ritrovano a disturbare ogni trattativa interessante, in ossequio al detto che il mercato non è altro che la prosecuzione della partita con altri mezzi. E von Clausewitz ci perdonerà per aver adattato la sua massima più celebre...