Una, nessuna e centomila sfumature di centravanti

A volte basta un dettaglio. Come quello che viene casualmente rivelato a Vitangelo Moscarda dalla moglie Dida. Quel naso che pende a destra e di cui il protagonista del romanzo pirandelliano “Uno, nessuno e centomila” non si era mai accorto. Ecco, basta un dettaglio per scatenare una crisi d’identità e un vortice di riflessioni che scompongono la vita, i comportamenti, i ruoli. E in effetti è proprio un “ruolo” che oggi nel calcio sembra soffrire di un malessere di difficile comprensione. E con esso gli attori che lo incarnano, almeno in Italia: il centravanti. Proviamo allora a calarci nella realtà multiforme di Pirandello, nel prisma a mille facce di cui si compone la percezione della verità che muta la sua essenza a seconda dell’angolazione da cui si guarda. E procediamo per stratificazione logica. Chi o cos’è un centravanti? È quello che finalizza, che la butta dentro, che conclude virtuosamente quella costruzione geometrica e artistica che chiamiamo “azione”. È insomma il calciatore che per talento e formazione possiede l’istinto di sublimare il lavoro di un intero collettivo nell’atto più gioioso e intenso del gioco, il gol. E che arriva a quell’esito attraverso i movimenti sincroni al ritmo della squadra, grazie alla capacità di suggerire e dettare i rintocchi finali di uno spartito complesso. Guardandosi allo specchio, il centravanti vedrà quella fisionomia lì, quelle caratteristiche lì, e crederà che il mondo le veda in lui esattamente come lui le vede in sé. Eppure le cosiddette “prime punte” del campionato italiano sembrano vivere un momento di disorientamento. Certo, occorre tener conto sin da subito di un fattore imprescindibile: l’evoluzione del calcio. Che oggi prevede per il centravanti una maggiore partecipazione alla fase difensiva, al pressing, alla riaggressione, alla fase di costruzione che spesso origina ben lontano dalla porta avversaria. E tuttavia, malgrado le tante rassicuranti dichiarazioni dei singoli allenatori, non è mica da questi particolari che si tende a giudicarlo, perché il centravanti bravo a giocare per la squadra ma che non segna, resta un incompiuto. Resta, insomma, in lui l’essenza inalienabile di un ruolo che pretende l’efficacia nella finalizzazione. Ed è qui che si materializza quel dettaglio, quel “naso che pende a destra” che introduce il senso di solitudine e crisi. La Roma capolista di “prime punte” ne ha due, Dovbyk e Ferguson. Che insieme hanno segnato la miseria di un gol, mentre Soulè da solo ne ha segnati 3. Il Napoli, che ne condivide la prestigiosa piazza in classifica, di centravanti ne avrebbe 3: ma Lukaku è costretto a una lunga riabilitazione, Lucca “non è ancora pronto”, come sottolinea il suo stesso allenatore, e dunque il solo Hojlund, dopo qualche incertezza, sembra garantire quelle vibrazioni sotto porta richieste al suo ruolo. Col risultato, però, che i centrocampisti di Conte hanno già messo in rete 7 palloni contro i 5 dell’attacco. Anche la Juventus teoricamente ne ha tre, ma sembra non averne nessuno visto che regna l’incertezza sulle gerarchie e che le rotazioni per ora non hanno il sapore dello stimolo virtuoso, ma quello dello spaesamento in tutti gli attori: Vlahovic è prigioniero di un futuro incerto, mentre David e Openda sembrano ancora corpi estranei. Il risultato è che questi ultimi due hanno messo insieme un solo acuto , mentre Yildiz e Conceicao, che punte non sono, ne hanno già regalati complessivamente 4. Il Milan di fatto il centravanti non ce l’ha, visto che Gimenez per ora ha segnato un gol solo in Coppa Italia, Leao è ancora in transizione verso una metamorfosi che forse gli genera ansia e Pulisic, che prima punta non è, si è sobbarcato l’onore e l’onere di firmare in autonomia quasi il 50% dei gol complessivi rossoneri. L’Atalanta, in attesa del rientro di Scamacca, non può certo lamentarsi del lavoro di Krstovic, che tuttavia ha segnato come Sulemana, Pasalic o Samardzic. Senza contare che il capocannoniere del Bologna è Orsolini, del Como è Nico Paz, della Lazio è Cancellieri, cioè nessun centravanti. Mentre nella Fiorentina Mandragora ha segnato più di Kean, Piccoli e Dzeko. Solo l’Inter sembra voler incarnare la classica eccezione messa lì apposta per certificare la regola: perché i nerazzurri di punte ne hanno 4 e, al contrario di ciò che accadeva l’anno scorso, sembrano tutte efficaci e pienamente inserite nel progetto. Dunque, giocando con Pirandello, verrebbe da dire che ci sono squadre che ne hanno uno, altre nessuno e una addirittura “centomila”. Ma il romanzo del Nobel agrigentino segue ben altri sentieri e in ogni caso su questo apparente elemento di contrasto rispetto all’andazzo generale, torneremo in seguito. Dunque esiste un’etichetta appiccicata a un ruolo. E malgrado quest’ultimo sia evoluto arricchendosi di competenze complesse e articolate, quella resiste ineluttabilmente generando solitudine se non addirittura estraneità rispetto al sé. Perché il centravanti è un po’ come il portiere, solo e inchiodato eternamente a quell’attimo che chiamiamo gol: per il primo da segnare, per il secondo da evitare. Vitangelo Moscarda, accortosi della discrasia tra l’immagine di sé e quella che gli altri hanno di lui, si avviluppa in una dimensione distopica e melanconica, tanto che in un passaggio dice espressamente: “La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi ed è possibile soltanto con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un'incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l'intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l'estraneo siete voi”. È così che si incontra l’estraneo inseparabile dal sé. Ed è di qui che nascono quelle esultanze rabbiose che sfogano le frustrazioni somatizzate nel tempo. Dovbyk è forse un attaccante incapace di segnare? Le sue statistiche al Dnipro e al Girona non lascerebbero dubbi, eppure a Roma molti lo percepiscono come un orpello di bigiotteria, talvolta passabile ma mai davvero pregiato. E il calcio inferto al cartellone pubblicitario dopo il suo gol al Verona è esattamente la prova della discrasia tra la sua idea di sé e il giudizio prodotto dalla visione altrui. Così come è capitato a Vlahovic di esultare sfidando la montagna di critiche che gli si erano accumulate sulle spalle, quasi a voler ricomporre a forza la frattura e la scomposizione tra la considerazione di sé e la disarmonica immagine che gli veniva tagliata addosso. E cioè di quello che non aiuta la squadra ma pensa solo al gol, divenendone schiavo. Eh sì, perché se uno è esclusivamente finalizzatore giustifica la sua esistenza solo se segna, altrimenti macina il nulla. O magari di quello che pensa solo allo stipendio faraonico obbligando la società a un exit strategy che cozza frontalmente con i valori di appartenenza . E gli esempi potrebbero continuare quasi all’infinito. Ma c’è di più. Perché la tensione prodotta da questa sfasatura rischia qualche volta di implodere in mille altri frammenti. E ancora una volta è il Moscarda di Pirandello ad aiutarci a capire: “Presto l'atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch'io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch'era uno anch'esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà”. Sì, perché essere “centomila” significa non essere più nessuno. Pensiamo a Leao: è quello che potrebbe ma non fa, quello che a volte non ci mette cuore e cattiveria, quello affetto da discontinuità, quello che può vincere da solo ma che allo stesso tempo può farti giocare con un uomo in meno, quello che terrorizza gli avversari ma che a volte frustra i sogni dei suoi tifosi, quello che compie gesti divini a velocità folli ma quello che “ma perché sorride sempre, anche quando non dovrebbe?”. In quante immagini è stato scomposto sino ad oggi? E mentre si sottopone, chissà con quanta intima adesione, ai meccanismi di trasformazione in centravanti, quante immagini di sé ha via via disegnato nella sua mente? E quale e quanto disorientamento sperimenta tra i frames che si affastellano di continuo e confusamente? Per Moscarda l’operazione di ricomposizione è impossibile, senza dubbi: “Non si può a un tempo vedersi e vedere che un altro sta a guardarci nello stesso specchio”. E chi non riesce a vedersi perché distratto dalle molteplici immagini che gli altri hanno di lui, resta estraneo a sé stesso. Allora forse c’è una sola via per abbattere il muro di questa solitudine: il processo di affrancamento dalle immagini che sfrangiano in mille riflessi la propria personalità. Noi siamo abituati a pretendere, talvolta anche legittimamente, che professionisti milionari sappiano gestire questa folle stratificazione di giudizi/immagini che compongono la loro storia. Ma qualche volta l’arma più potente è l’attenzione, l’empatia psicologica e la serenità. Chivu non ha imposto nulla di travolgente dal punto di vista tattico, se non una maggiore attenzione alla verticalità e dunque alla velocità di azione. Che è un metodo, non un’architettura. Ma dal primo giorno ha cercato di restituire al gruppo consapevolezza e un abito mentale che sorridesse di fronte alle batoste del recente passato. Sarà un caso, ma con progressione e senza alcuna bacchetta magica anche i suoi centravanti sembrano meno ansiosi e dunque ancor più produttivi: Lautaro sembra aver già addolcito alcune sue espressioni estive, Thuram, per dirla con l’ironia di Bastoni, “è tornato dopo qualche mese di vacanza”, mentre i due ragazzini Esposito e Bonny hanno il paradossale vantaggio di poter coltivare il loro talento senza troppe pressioni e sfruttando la freschezza anagrafica che spesso è anche mentale. Anche loro prima o poi dovranno fare i conti con il prisma di Moscarda, certo. Ma lo stesso protagonista di “Uno, nessuno e centomila”, una volta liberatosi dell’oppressiva luce stroboscopica che ne invadeva l’esistenza, teorizza il suo sollievo: “La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest'albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest'albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo”. La vita non conclude. E a ben pensarci forse è proprio per questo che il centravanti sì, lo può fare. E se la vita non sa di nomi, sarà quasi certamente gol.

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Una, nessuna e centomila sfumature di centravanti

Alessandro Biolchi