I 45 anni di Cristian Chivu, il guerriero gentile

“Papà, spero tu sia fiero dell'uomo che sono diventato. Questa è la fine di un viaggio e l'inizio del resto della mia vita” Si chiudeva così la commovente lettera di addio al calcio giocato di Cristian Chivu, costretto al ritiro a 33 anni per un cronico problema al piede destro che 3 interventi chirurgici non erano riusciti a risolvere. Quasi a ricordare che persino i guerrieri della mitologia mostrano la loro ineluttabile fragilità umana tra le pieghe di dettagli apparentemente banali e insignificanti: il tallone per Achille, il mignolo per Cristian. Una lettera nella quale riecheggiano le parole rigate di lacrime e colme di riconoscenza di James Francis Ryan che davanti alla croce con impresso il nome del capitano John Miller implora la moglie: “Dimmi che sono stato un brav’uomo”, dimmi cioè di aver meritato quel sacrificio, quell’amore, quell’altruismo su cui mi è stato concesso di costruire un’esistenza. Dimmi che sono stato capace di custodire, sublimare e tramandare valori e insegnamenti che gratuitamente mi sono stati offerti. Certo, nel capolavoro di Spielberg ‘Salvate il soldato Ryan’ si parla dello sbarco in Normandia e quella disperata richiesta non è altro che la metafora di un impegno che ogni uomo libero oggi dovrebbe sentire come dovere di fronte alle croci bianche che liberarono l’Europa dal nazifascismo. Ma dentro ogni simbolo universale vivono i modelli particolari che segnano le singole storie umane. E per Cristian la riconoscenza ha un nome preciso: Mircea, suo padre. Ex calciatore, era stato il suo allenatore negli anni della formazione calcistica ed è ancora oggi l’origine della sua visione del mondo: la routine porta al fallimento, i favoritismi avvelenano il respiro della crescita, i sogni sono importanti come carburante motivazionale, ma diventano pericolosi se scollano dalla realtà. Ecco perché lui, Mircea, all’allenamento andava in auto costringendo Cristian ad arrangiarsi con i mezzi pubblici. Ed ecco perché nell’analisi dei propri comportamenti, anche in campo, il primo filtro doveva sempre essere l’autocritica. “Il legame con lui è stato forte e indissolubile. E mi tremano le mani se penso a come gli ho detto addio. Ha passato a casa i suoi ultimi giorni di vita. Ricordo perfettamente l’ultima conversazione: mi ha rimproverato perché in campionato avevamo preso un gol per colpa mia. Questo era il mio papà. Io avevo 17 anni e in quei giorni ero in ritiro per un match infrasettimanale. Mi chiamarono da casa: ‘Corri, papà ci sta lasciando’. Mi precipitai, arrivai in tempo: era ancora in vita, anche se non era più cosciente. ‘Papà – gli sussurrai - ti prometto che farò di tutto per diventare una persona migliore, mi prenderò cura della nostra famiglia. E stai tranquillo: diventerò anche un buon calciatore’. Morì pochi istanti dopo” È per mantenere questa promessa che Cristian decise di andarsene da casa e accettare l’offerta dell’Ajax appena maggiorenne: da Resita ad Amsterdam, 1.800 Km a nord-ovest, il primo grande viaggio del guerriero gentile catapultato in una terra sconosciuta come Giasone, ma senza gli Argonauti. Ed è proprio lì che il giovane Cristian cominciò a sviluppare la sua filosofia miscelando i valori familiari con l’elaborazione autonoma di una interpretazione del reale. In quell’ambiente aggiunse tasselli al mosaico disciplinare e soprattutto professionale. Sì, perché da quelle parti esiste da sempre una spiccata sensibilità per la cultura della crescita tecnica dei giovani calciatori grazie a un metodo che in qualche misura evoca le teorie dello psicologo e ricercatore svedese Anders Ericcson: il talento, più che una dote innata, risiede nella pratica deliberata e prolungata oltre la propria zona di comfort. Concetto poi banalizzato nella cosiddetta teoria delle diecimila ore. “Ad Amsterdam allenavo i miei gesti. La regola delle diecimila ore non sarà scienza ma un po’ di verità c’è: educavo il sinistro e allenavo il cervello. La scuola dell’Ajax è stata fantastica da questo punto di vista: lì ti fanno crescere giocando, dandoti libertà, incoraggiandoti nelle scelte di gioco e nei gesti tecnici. Sapevo leggere le situazioni, avevo poco più di vent’anni ma Koeman capì cosa gli potevo dare e mi diede la fascia di capitano. Da quando portavo le borse a quelli più grandi, ne avevo fatta di strada” Già, e di acqua sotto i ponti ne era passata parecchia da quel 25 giugno 1988, quando Cristian partecipò con mezzo quartiere alla visione collettiva della finale degli Europei: pochissimi a Resita, in una Romania che viveva gli ultimi sussulti del regime comunista, possedevano un apparecchio televisivo. Perciò l’unico disponibile, uno di quei ‘marziani’ senza telecomando e dotati di antenne da orientare con perizia, finì su una collinetta. Come una specie di mini-schermo cinematografico a disposizione di un centinaio di persone, costantemente controllato da una sorta di guardiano delle frequenze, incaricato di correggere la sintonia ad ogni sbavatura . Quella fu la sera del gol eterno di Van Basten e della vittoria della sua Olanda contro l’URSS, ma soprattutto la prima partita internazionale vista in Tv dal piccolo Cristian che nemmeno sospettava sino ad allora dell’esistenza di certe divinità del calcio. Una sorta di iniziazione. Curiosamente l’Olanda, dove sarebbe finito 11 anni dopo. Curiosamente Van Basten, simbolo di un Milan che più tardi, nel 2003, gli avrebbe dato il primo grande dispiacere da calciatore nei Quarti di finale di Champions: Milan-Ajax 3-2 con un guizzo al 91’ di Pippo Inzaghi , curiosamente il fratello di quel Simone di cui ha ereditato la panchina all’Inter. Tutte coincidenze messe in fila da ciò che chiamiamo destino ma che in definitiva si risolve semplicemente in una serie di accadimenti sui quali non abbiamo effettivo controllo. Come quel 6 gennaio 2010, il giorno della tremenda testata subita in contrasto aereo con Pellissier a Verona e che lasciò col fiato sospeso tutto il mondo del calcio. Frattura alla tempia destra, immediato intervento chirurgico per ridurre l’ematoma e le conseguenze dell’impatto che avevano spinto l’osso parietale pericolosamente verso l’interno, perdita della sensibilità in tutto il lato sinistro del corpo , il timore di non poter più tornare su un campo di calcio. Momenti di ansia e preoccupazione, che spingono a pensare agli affetti più cari. Ma che poi, dopo il sollievo di un quadro clinico in miglioramento, fatalmente si riflettono sul futuro. Mourinho, il suo allenatore in quell’Inter che si apprestava a scrivere la storia, era incline a escluderlo dalla lista Uefa in vista degli impegni di Champions della successiva primavera. Ma prima di decidere si confrontò con lui e alla fine decise di avallare, con un azzardo, la sua determinazione. Gli chiese di unirsi al gruppo per la trasferta di Londra agli Ottavi contro il Chelsea, ne accompagnò la convalescenza e la ripresa con incitamenti e vicinanza umana, lo sfidò prima della Finale contro il Bayern: “Giocherai dal primo minuto e ti occuperai di Robben. Prenderai un giallo, poi nel secondo tempo ti metterò a fare il mediano e sposterò Zanetti su Robben visto che sarai ammonito. Finirai la partita con i crampi e ti cambierò” Sembrava la trama di un film da Oscar. Ma prima, a fine marzo, Cristian aveva misurato l’ammirazione e i sentimenti che la lotta silenziosa e discreta sa accendere nell’animo umano. 24 marzo 2010, il giorno del rientro, Inter-Livorno: cross verso l’area nerazzurra, Chivu salta e colpisce di….caschetto, una protezione un po’ retrò con un’estetica più aderente a uno sparring partner sul ring che a un ringhioso difensore. Boato. Non per l’efficacia dell’intervento , ma per la certificazione che il guerriero gentile era tornato. E non aveva paura. 24 aprile 2010, Inter-Atalanta: Chivu raccoglie una palla a 25 metri dalla porta, si coordina e tira. La palla accarezza il palo e supera Coppola. Cristian sorride, guarda in cielo e si toglie il caschetto con un gesto elegante, come i signori ottocenteschi col loro cappello, prima di essere sommerso dai compagni: da Orlandoni a Materazzi sino a Cambiasso e Cordoba, tutti in fila per baciare quella lunga cicatrice disegnata tra la tempia e l’orecchio come una catena montuosa su una mappa. Un’asperità, non più un confine. 22 maggio 2010: il giorno di Madrid, del trionfo, della sceneggiatura annunciata da Mou e realizzata sul prato del Bernabeu. Nell’immagine iconica di Zanetti che, trasfigurato dalla gioia, alza la Coppa e se l’appoggia sul capo lui non si vede. Resta in mezzo al gruppo, non importa se in posizione periferica perché in quel contesto di marginale non c’è niente. Non ostenta e non compete per catturare il trofeo e esibirlo in solitaria per qualche passo di corsa sotto gli spalti. Le telecamere lo catturano solo per un momento, quando accanto a due compagni che reggono le preziose maniglie, guarda la Coppa, solleva la mano destra e gli getta dentro proprio quel caschetto, la moneta dei sacrifici sull’altare della gioia. Oggi, da allenatore, la filosofia di Chivu è ancora più chiara e leggibile. E si traduce in un realismo che sfocia nel verismo e nel naturalismo. Il suo linguaggio è diretto e informato a uno stile semplice e talvolta crudo, anche se avvolto da un tono sempre morbido e conciliante: “mangiare la merda e masticarla bene” è un’immagine sferzante, ma che definisce la necessità di accettare i rovesci della vita sino a interiorizzarli al fine di poterli trasformare in opportunità di rinascita. Perché l’eroismo non è più materia da semidei, ma da individui comuni, come in un romanzo di Emile Zola. Del resto una delle citazioni più abusate dello scrittore francese recita “l’artista è nulla senza il talento, ma il talento è nulla senza il lavoro”, massima che aderisce perfettamente al carattere di Cristian. Ma il determinismo che permea il realismo è solo la cornice del suo pensiero, perché i tratteggi che compongono la sua visione sono a tratti romantici, per quanto discreti. La sua priorità è sempre il rapporto interpersonale, che in uno spogliatoio significa dialettica individuale e di gruppo: “Questa squadra ha solo bisogno di credere in sé stessa, di gettare alle spalle le scorie e le delusioni. Come ho fatto a rivitalizzarla? Non ho fatto nulla di particolare, solo qualche abbraccio in più”. Ecco, l’abbraccio. L’ascolto, la comprensione, l’aiuto psicologico che passa attraverso l’incitamento e talvolta lo shaker di verità scomode che vanno dichiarate guardandosi negli occhi. E non è un caso che il mantra dei giocatori nerazzurri in queste settimane sia sempre stato quello di sottolineare le doti di empatia e di affidabilità caratteriale del loro allenatore. L’autorità appartiene a un ruolo e può essere affermata con la forza, ma non costituisce mai un valore. L’autorevolezza al contrario è conferita dal basso e si basa sulla condivisione, sull’esempio, sulla correttezza formale e sostanziale, sull’onestà intellettuale. Del resto Chivu ha sempre percorso questo sentiero: da capitano poco più che ventenne all’Ajax a collante del gruppo a Roma, dove ha costruito una sincera amicizia con tutti, a partire da Francesco Totti, e dove ha compreso gli insulti dei tifosi alla vigilia della sua partenza verso Milano: “La passione di questa gente non è paragonabile a nulla. E so che una scelta di vita può essere percepita come un tradimento, quando c’è di mezzo questo tipo di affetto. Anche questa è una dimostrazione d’amore”. E lo ha percorso anche quando apparentemente sembrò negarlo con comportamenti incongruenti alla sua storia: “Tutte le cose subite nel post intervento con tutte le medicine che prendevo mi avevano portato a fare delle cose che non mi rispecchiavano: a partire dai gesti osceni fatti dopo la partita di Coppa a Roma, al pugno a Marco Rossi, alla litigata con Rafa Benitez. E nessuno sa che prendevo delle medicine che mi toglievano i filtri. Mi ricordo che i miei compagni chiamavano a casa mia moglie e chiedevano se tutto fosse a posto. C’era un perché, si chiamava dintoina” Per quegli scivoloni comportamentali Cristian chiese scusa pubblicamente, ma non ne rivelò la causa nell’immediato. Perché coltivare alibi o giustificazioni non è mai stata una tentazione, per lui. La vita è fuori dalla comfort zone ed è lì che occorre essere uomini, senza guardarsi troppo indietro e senza abbandonarsi ai rimpianti. Ma Cristian Chivu non è solo questo: “C’è anche dell’altro, spero. L’ideale sarebbe riuscire a mettere insieme motivazioni, tattica, strategia, sensibilità. Ho sempre cercato, come allenatore, di convincere i ragazzi che per farcela avrebbero dovuto assumersi delle responsabilità individuali. Le ambizioni sono importanti, bisogna darsi un obiettivo per fuggire dalla mediocrità. All’Inter riuscimmo a vincere in qualsiasi condizione con la personalità, le conoscenze, la mentalità, la responsabilità” Dopo qualche perplessità estiva e qualche sarcasmo seguito alla doppia sconfitta con Udinese e Juventus, l’opinione pubblica ha cominciato a sottolinearne le doti psicologiche e tecniche che hanno portato sette vittorie consecutive. Ma Chivu ha sempre tenuto i piedi ben ancorati a terra: “Sappiamo che verranno momenti difficili e quando questo accadrà sapremo reagire”… A maggior ragione lo ripeterà pubblicamente e privatamente dopo la sconfitta di Napoli, magari spegnendo le 45 candeline sulla torta ad Appiano. Le certezze e le prospettive sono un’architettura complessa cui occorre dedicare dedizione e pazienza. Per capirlo è sufficiente tornare là, al 22 maggio 2010: dentro un sorriso ci sono mille lacrime, dentro una vittoria ci sono tutte le sconfitte, dentro un trionfo ci sono paure, abbracci e sacrifici. Forse, dentro quella Coppa, c’è ancora il suo caschetto.

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Alessandro Biolchi